Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Quinta edizione – 2003
Premio giura popolare studentesca
Roberto Curatolo
Vite vagabonde
Il giorno in cui se ne andò, fioriva un’impetuosa primavera. Nuvole bianchissime correvano libere per ampi spazi di cielo; soffiava un aggressivo vento di tramontana e in giardino il pruno spargeva neve rosa sul prato.
Non che il suo andarsene silenzioso e fiero mi avesse sorpreso, ma non erano questi gli accordi, se mai si possono stipulare accordi in quelle circostanze.
Difatti s’era detto: „Tiriamo fino all’autunno, è una stagione accettabile per morire.“ Ma, evidentemente, quella primavera così ventosa gli era sembrata un’antagonista troppo forte per le sue poche residue energie.
Non c’è come lasciarsi andare, in quei casi. In un attimo il controllo è perduto, il timone gira come una trottola dall’ingovernabile corsa. Uso questi termini perché a lui piaceva pensarsi, nella conduzione della sua vita, come un nocchiero che a poppa indirizza con maestria, con sapienti tocchi alla ruota timoniera, la barca dell’esistenza.
Ma tant’è! Le cose sono andate in questo modo e non ci sarà verso di cambiarle.
Lui era Alfonso Ortualco, poeta sudamericano. Anche se nessuno, all’infuori di me, lo sapeva. Che fosse poeta, intendo. Anche se tutti lo immaginavano. Lo avevano immaginato, mi dicevano, guardando viaggiare ombre nei suoi occhi e lampi subitanei e voragini di solitudine e ricordi incombenti come montagne e tristezze fonde come l’oceano.
Veniva da Montevideo, o almeno così mi aveva sempre fatto credere. L’avevo incontrato su una nave che portava disperati da Tangeri a Marsiglia. Mi chiese che ci facevo lì, in mezzo a quel fetore più denso di una nebbia. Gli risposi che passavo la vita fotografando. Era il mio lavoro, dissi. E’ il mio lavoro, ancor oggi. L’ho fotografato molto, nei suoi ultimi mesi. Saranno foto importanti, tra qualche anno. Le uniche foto di un grande poeta misconosciuto. Gli domandai che ci facesse lui su quella carcassa cigolante. Alfonso mi scrutò con quel suo sguardo scuro come un temporale e mi domandò:
„Lo vuoi proprio sapere?“
Sollevai il cappello sulla fronte e assentii col capo.
„Sì, m’interessa“, dissi.
„Allora sediamoci perché è una storia lunga… e non so nemmeno se la ricordo tutta.“
Mi procurai una bottiglia di Pernod, dell’acqua minerale e del ghiaccio. Riempii i primi due bicchieri.
„Ha mai sentito parlare dell’Embolse del Rio Negro? Credo proprio di no. E’ un’area fluviale uruguayana. Lì sono nato io. In un paesino i cui contorni sfumano nella mia memoria. Mio padre era un medico: un tipo strano, che invece di arricchirsi girava il Sudamerica rurale, convinto d’essere un Messia della salute. Mi dicono che abbia seminato figli un po’ dappertutto, ma di questi fratelli non so nulla. Mi sono fatto di quei posti ricordi esclusivamente di fantasia. A quell’epoca l’Embolse del Rio Negro era solo malaria e leishmaniosi, acqua grassa e foresta. Era tanto tempo fa… Poi ci trasferimmo a Treinta y Tres: un nome che è tutto un programma. Mia madre si lamentava: non ci voleva stare in una cittadina che si chiamava come un numero e che numero, poi! Gli anni di Gesù Cristo! Un numero da cui mia madre presagiva sventure; se a questo aggiunge che a quel tempo lei aveva trentun anni, può immaginare come gradisse quella residenza. Sarà stato un caso, sarà che, come diceva Freud, noi possiamo condizionare pesantemente l’accadere di un avvenimento solo in apparenza fortuito, ma finì che mia madre, all’età di trentatre anni tre mesi e tre giorni, annegò nel Rio Negro. Ero poco più di un bambino, ma di quella morte non mi stupii più di tanto; anzi, mi sarei meravigliato del contrario, talmente mia madre aveva battuto il chiodo della premonizione negativa e della maledizione connessa al nome di quella località.
La disgrazia mi consentì di scoprire di avere un padre o, meglio, mio padre s’accorse di avere un figlio. Ogni frammento di tempo che malati e amanti gli lasciavano, lui me lo dedicava: così mi ha insegnato a osservare gli uomini. La natura e il cielo già avevo cominciato a studiarli autonomamente, con un interesse rapito e romantico.
Scrissi la mia prima poesia dopo aver subito la suggestione dello scorrere tumultuoso di un torrente le cui acque luccicavano al sole, e la seconda sull’onda emotiva di uno splendido accavallamento di gambe di una conturbante signora che, boa al collo e cappello a larga tesa, sembrava attendere qualcuno in un bar di Treinta y Tres. Fin da allora capii che la mia vita interiore sarebbe stata caratterizzata da un premere continuo di emozioni contro deboli argini e che difficilmente avrei potuto oppormi a frequenti inondazioni.
La poesia! La poesia mi ha aiutato a non morire. E non solo la poesia dei versi, lei mi capisce. Parlo della poesia che c’è nelle cose… nei fatti… e perché no, talvolta anche negli uomini.
Dicevo di mio padre, dunque. Un bel giorno – non avevo che quindici anni – lui scomparve. Mi lasciò una lettera di quarantasette pagine, una discreta somma di denaro e l’indirizzo di sua sorella a Montevideo. Nella lettera che era nello stesso tempo memoriale, testamento ed eredità spirituale, mi spiegava che aveva dovuto farlo – andarsene, intendo – perché soffocato da un’inspiegabile infelicità. Non provava – scriveva – più interesse in nulla. Non negli amplessi estatici, non nelle passioni travolgenti, non nel lavoro e, pur amandomi, neppure in quello straccio di famiglia che noi due costituivamo. Aveva deciso di partire e d’inseguire qualcosa che non riusciva a immaginare, ma pensava esistesse.
Si sarebbe imbarcato due giorni dopo su un piroscafo per l’Europa.
Non lo rividi più. Mi scrisse ancora, per qualche anno. Ma in tutto non più d’una decina di lettere. Una volta, però, m’inviò un entusiastico telegramma dalla Francia: „!n questo paese – -scrisse esultante -il mio nome significa io amo. Non è fantastico, figlio mio?“ Non mi raccontava i particolari del suo girovagare, ma esprimeva le sue considerazioni sui rapporti umani, m’istruiva sull’amore, mi comunicava, attraverso una fitta sequenza d’appunti, le sue tribolate meditazioni filosofiche.
Le ultime due lettere venivano dall’Italia; le sue parole, un progressivo confuso delirio. Mescolava tutto, il passato e il presente, gli obiettivi e i risultati, l’amore e il dolore, la vita e la morte. Non si firmava più nemmeno papà, ma solamente Jaime. Penso che stesse male, che non fosse più lucido, ma che non fosse disperato: forse aveva qualcuno accanto, forse c’era chi lo assisteva, forse persino una sorta di famiglia.
Io andai a Montevideo da mia zia. E lì proseguii e terminai gli studi. Non sapevo che volevo fare e mia zia non perdeva occasione per predirmi un futuro in tutto simile a quello di mio padre. „Solo vento hai in quella testa! Solo nuvole e vento!“
Cominciai a bighellonare tra Uruguay, Argentina e Cile. Mi trovavo a mio agio ovunque. Sulle spiagge di Vina del Mar come tra i ghiacci della Patagonia, nel respiro greve di Buenos Aires come nei canali sul delta del Paranà. Scrivevo poesie sui pacchetti di sigarette e sui biglietti del treno. Conoscevo gauchos e campesinos, rivoluzionari e preti, vagabondi e splendide ragazze dai capelli lucenti. Una di queste mi folgorò il cervello, come il lampo che annichilisce l’immensa quercia solitaria della pampa. Per qualche anno non pensai che al suo rossetto, ai suoi denti allineati e candidi, al seno florido e ai suoi fianchi morbidi che sigillavano inaudite dolcezze e torride passioni.
Amico mio, quanto è inesprimibile la bellezza di una donna!
Eppure mi ci provai a rappresentare l’impossibile. Cercai di farlo con la poesia. E cantai i suoi colori e i suoi profumi. E quella luce nello sguardo….che ancora, talvolta, rischiara la strada in questa mia notte.
Erano i tempi in cui, con lo stesso rapimento, m’incantavo dinanzi al deserto grigio di La Rioja come alla flessuosità dei suoi movimenti, trasalivo di fronte alle chiesette seicentesche delle valli Calchaquias come all’ondeggiare dei suoi lunghi capelli. Sì, l’ho amata molto quella donna. Anita.
Povera Anita! Dormivamo abbracciati quando, una notte di marzo, fummo svegliati da strepiti e urla e calci alle porte e secco detonare di colpi di mitraglietta. Nei suoi occhi, prima che fossero fermati nella luce triste della morte, vidi passare spavento e rabbia. I soldati spararono per ucciderla. Quanto a me, mi spezzarono un braccio con il calcio dei fucili e mi condussero in prigione come un animale al macello. Per qualche giorno non ci capii nulla, sopraffatto da un dolore che mi avvelenava le viscere. Ah, se avessi avuto una corda! ora non sarei qui a raccontarle questa storia. Mi accusarono di sovversione contro lo Stato. AI processo farsa mi resi conto che Anita era stata assassinata per simpatie politiche manifestate quando frequentava l’università ed io… io venivo condannato solo perché vivevo con lei. Mi diedero quindici anni, ma dopo sette fui amnistiato.
Il carcere svuotò la mia testa dalle nuvole e dal vento di cui mi parlava mia zia. Capii che cielo e natura, sentimenti ed emozioni, fiumi e foreste, uomini e donne, le cose più straordinarie del nostro continente, non contavano nulla in America Latina. Contava solo una prepotente modalità di acquisire, gestire e mantenere un sordido potere. Capii perché i più fantasiosi poeti e scrittori del mondo sono sudamericani. Poesia e storie fantastiche, unico antidoto a una realtà invivibile. Non scrissi una sola poesia in quei sette anni e quando, una volta uscito, mi recai a casa di Anita, avevano bruciato tutto, ridotte in cenere le mille testimonianze di un amore e tutta la mia sterminata produzione giovanile. M’inginocchiai in quella che era stata la nostra camera da letto e piansi. Piansi senza fine per tutta la notte. E il mattino seguente andai al porto, deciso a lasciare per sempre il Sudamerica.
Come mio padre m’imbarcai. Ma io non avevo un soldo e così accettai il primo posto di marinaio che mi offrirono. Purtroppo quelle non erano navi che solcavano mari lontani. Dall’Argentina al Brasile, alla Guyana, a Trinidad. Non di più.
Anni dopo mi ritrovai nuovamente al Sud, sotto la penisola di Valdès, imbarcato su una baleniera. L’equipaggio era formato da gente di origine italiana, siciliani. E così, navigando tra Comodoro Rivadavia e Rawson, ho imparato a parlare quest’italiano imbastardito. Un giorno, sbarcando a Camarones, m’imbattei in un uomo che avevo conosciuto in galera, nel braccio dei politici. Mi disse che cercava un insegnante per alfabetizzare i marinai della Patagonia. Accettai con entusiasmo contenuto. Ma devo ammettere che fu un’esperienza ricca. Fu lì che mi ritrovai di fronte al foglio bianco con l’antica voglia di tracciare le esili righe di una poesia. E il clima rigido dell’estate meridionale anestetizzò le mie ferite aperte.
Quello che però ormai mi appariva certo era che non avrei più saputo o voluto fermarmi, che ogni posto, dopo qualche tempo, mi stava stretto, ogni uomo incompleto, ogni donna inconseguibile, ogni vita insufficiente.
E così m’imbarcai nuovamente, questa volta inventandomi cantante sui piroscafi da crociera. Quando, verso le tre di notte, finivo l’ultimo pezzo e riuscivo ad
evitare l’accanita caccia di qualche attempata signora, mi sdraiavo sul ponte di coperta e m’impegnavo a ritrovare le stelle che mio padre m’aveva insegnato a riconoscere. Canopo, Antares, Shaula, la Croce del Sud. Era quello il periodo,
chissà perché, in cui maggiormente ho sentito la sua mancanza. E fu in quello stesso periodo che le mie poesie persero la consueta vitalità e si venarono di un’aspra malinconia.
Tre anni fa il piroscafo attraccò a Casablanca. Partecipai all’escursione a Marrakech e lì mi dileguai. Non saprei dire perché. Non l’avevo premeditato, so però che avevo portato con me la cartella delle mie poesie.
Anch’io, come Canetti, ho ascoltato e inseguito le voci di Marrakech. E poi, io ammetto, non ho saputo resistere alla tentazione squisitamente letteraria di trascorrere un periodo a Tangeri sulle orme di Bowles e Burroughs.
Ed ora eccomi qua, senza un soldo, su questa fetida nave, che porta in Europa disperati in cerca di fortuna. Anch’io vado per la prima volta in Europa. Ma io, in realtà, non ho obiettivi precisi; seguo, come sempre, il mio istinto. E anche, perché negarlo, un oscuro desiderio di mettere i piedi dove li posò mio padre…
Ora basta, l’ho annoiata abbastanza.“
Avvertivo che qualcosa mi rendeva fratello di quell’uomo. Lui con la poesia sentiva e fotografava una realtà interiore. Io cercavo di fare lo stesso con la macchina fotografica. Con la mia Hasselblad mi sforzavo di non fissare sulla pellicola solamente le apparenze. Glielo dissi e lui mi sorrise.
In prossimità del porto di Marsiglia mi confessò di essere ammalato, molto ammalato. Mi confidò di avere paura.
Mi raccontò che spesso lo sopraffaceva il ricordo di Anita. Mi disse di non voler trascorrere da solo gli ultimi mesi. Manifestò il desiderio di affidare a qualcuno le sue poesie, suo unico bene e memoria.
Sbarcammo. Ci trasferimmo in treno in Italia. Quindi lo portai con me nella mia casa in campagna.
Per otto mesi l’ho assistito amorevolmente, come un fratello.
Ho cercato con impegno maniacale di fotografare la poesia negli occhi di Alfonso. Non mi sono stancato di rendere eterna la profondità del suo sguardo.
Posso giurare che fino a pochi istanti prima della resa, i suoi occhi scintillarono generosamente.
Qualche tempo dopo chiesi a mia madre chi fosse quell’uomo che lei, infermiera, aveva assistito in un infelice ospedale psichiatrico. Chiesi a mia madre di dirmi di più di quell’uomo strano e appassionato di cui aveva subito, nonostante la grande differenza d’età, il fascino intriso di intense lontananze, speranze perdute, remote storie e sorprendente vitalità sessuale.
Chiesi a mia madre di abbandonare ogni reticenza, di confessarmi il nome di quell’uomo, consumato dagli stenti e avvelenato dal tabacco, morto che io ancora non avevo compiuto i tre anni. Le imposi di dirmi il nome di quel sedicente medico sudamericano che sapevo essere mio padre.
La incalzai senza tregua finché cedette. „Quell’uomo“ mi disse „si chiamava Jaime Ortualco.“