Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Quinta edizione – 2003
Andrea Mattarolo
Non m’ammazzo se
Tu dici che dovrei scrivere qualche riga, tanto per non andarmene senza salutare. Potrei risponderti in molti modi. Ma permettimi di dirti una cosa: mi sarei aspettato da te un punto d’appoggio, una pezza d’appoggio, un consiglio vero, non questo invito che ora, che l’ho ben compreso, mi fa abbastanza impressione. Sai quanti biglietti ho scritto? Quante cartoline ho inviato? Tutte PER NIENTE. Mai nessuna risposta. Lei non mi mai risposto. Telefonarle?
Chissà perché non mi hai consigliato di farlo. Prima di tutto ti dico perché non l’ho mai fatto. Non l’ho fatto perché non ci riuscivo. Non ci sono mai riuscito. Così semplice. E sai perché TU non mi hai suggerito Telefonale? Perché ci sono due motivi, non uno. Innanzitutto perché tu sei uno scrittore, e quindi, proprio per costituzione biologica, ancora prima che per stile, se devi pensare all’ultimo grido di un disperato che sta per abbandonare questa terra, questo urlo lo vedi scritto non lo ascolti, lo vedi scritto magari con il sangue (penso a de amicis ed alla christie, ma mi viene in mente anche tex willer) magari con lo sperma (breat easton ellis), magari non lo vedi ma sai che devi cercarlo, che c’è, da qualche parte, forse infilato in una busta proprio sopra la cornice del camino di fronte a te. Io so come voi ragionate: anche Cesare Pavese non ha resistito a quell’ultima riga da lasciare ai pettegolezzi postumi.
Ma c’è la seconda che è la vera ragione per cui a te non è venuto in mente di consigliarmi di telefonarle. Sai qual è la ragione vera? Che non mi hai preso sul serio. Non mi hai preso sul serio. Tu pensi che scherzavo. Che io scherzassi, questo pensavi, e lo pensi tuttora. Ci ragioni su e capisco che è proprio così. Tu non hai annusato la mia disperazione di queste ore, mi hai solo sentito per telefono. Eri a tavola, probabilmente, ed avevi fretta di tornarci. Magari stavi al telefono con il piatto appoggiato di fronte e ogni tanto piluccavi con la mano libera. Ed io ero di là, dall’altra parte, affiorante dal mio buco nero, concentrato tutto su quello che mi stavi a dire, in attesa di un consiglio buono. Però ci conosciamo. Però c’è un qualche rapporto tra di noi. Insomma quante volte ci siamo sentiti per telefono? Senza contare le ore passate insieme ai corsi di creative writing. Ore? Giornate intere. E tra caffè, colazioni e cene, abbiamo cominciato a conoscerci, a frequentarci, in un qualche modo. Io a sapere di te e tu a sapere di me. E insomma perché diavolo mi sembra di stare qui a tentare di giustificarmi? Io ti ho solo telefonato chiedendoti gentilmente un aiuto. Un consiglio. Non avevo alcuna intenzione di spaventarti, e poi insomma se voglio accopparmi sono affari miei. Ecco perché l’ho un po’ presa alla lontana e quando tu alla fine mi hai detto che dovevi lasciarmi perché avevi un impegno allora insomma allora ti ho detto, voglio suicidarmi, perché non è più possibile vivere in queste condizioni, e tu non devi preoccuparti di farmi cambiare idea, perché la decisione è presa, e non sono determinato, ma di più, sono io il destino che mi prende per mano. Capito? Io pensavo che tu avessi compreso, perché per almeno due minuti non hai più detto una parola.
E poi sei venuto fuori con quei consigli, che io ho ascoltato devotamente e riconoscente; tu scrivile, hai detto, oppure scrivi a qualcun altro, spiega per quali motivi intendi farlo. Scrivi perché intendi farlo oggi e non domani o dopodomani e perché non l’hai fatto ieri. E io ti ho ascoltato, ho raccolto ogni tuo suggerimento, me lo sono trascritto sul retro del calendario appeso sopra al telefono.
A mente fredda però ho capito. Ho capito che non siamo, e non saremo mai – comunque – amici. Che tu non pensi a me come ad un (possibile) amico così come LEI non pensa a me come ad un potenziale amante. In effetti non avevo né il diritto, né un buon motivo per venire a chiedere proprio a te consiglio su una scelta così personale, così drammatica, così mostruosa, sì, me ne rendo conto, mostruosa. Di questo, ti chiedo scusa. Ma perché allora ti scrivo queste righe, ti chiederai a questo punto. Un motivo c’è ed è determinante.
Caro, questa è in effetti la mia ultima lettera (sto seguendo quindi i tuoi consigli, anche se è a te che sto scrivendo). Proprio l’ultima perché dopo, per i cinque giorni che mi rimangono da vivere, non ne scriverò altre. So già come mi ammazzerò, ed ho già programmato ogni cosa, ma questo a te non interessa e nemmeno è materia del nostro discorso. I fatti è che, come mi hai suggerito tu, voglio fare un ultimo, un estremo tentativo. La morte non accoglie i rimpianti, ma potrebbero nascere dopo e magari non abbandonarmi per l’eternità. Ci sarà un’ultima lettera che porterà il mio nome e che lei leggerà e la leggerà senza sapere che sarà l‘ultima. Nessun ricatto, nessuna coercizione, io sono libero di ammazzarmi e lei sarà libera di rispondermi (più insopportabile ancora della morte sarebbe il sapere che lei infine mi abbia risposto per pietà). Ma io, come ti dicevo, io so già che lei non mi risponderà. Perché dovrebbe? Non ha mai risposto a nessuna delle lettere che le ho scritto in questi ultimi cinque anni. Io ho tentato tutto, non ho mai smesso di scriverle; la lettera d’amore appassionata (in percentuale il genere di lettera che le ho scritto più spesso), la lettera dei trascorsi sentimentali, la lettera delle possibilità perdute, la lettera delle opportunità future, la lettera della famiglia che verrà, la lettera delle perdite comuni, la lettera della vita che non si spezza, la lettera delle biciclette che si scontrano, la lettera della fuga dalla famiglia, la lettera delle passioni nuove, la lettera delle sofferenze derise, la lettera degli sguardi corrucciati, la lettera dei funerali che non verranno, la lettera dei ricordi che non ci sono, la lettera che vorrei non avere scritto mai (…)
Quello che non sai, che mai ho avuto il coraggio di dirti, è che queste lettere sono il motivo per cui ho frequentato assiduamente in tutti questi anni i tuoi corsi di scrittura creativa. Sentivo che mi mancava qualcosa, un sortilegio, una sapienza, un’esperienza. E speravo che quando questa cosa fosse stata tra le mie mani, allora avrebbe cantato ogni mia lettera, e lei, per la prima volta, avrebbe ascoltato questo canto, e questo canto l’avrebbe portata a me. Punto. Questo non è stato. Mi sono divertito, ho imparato molte cose. Ho scritto molte cose, e soprattutto le ho lette, lette con una diversa capacità di comprensione. Grazie a te. Ma la lettera che canta non sono mai riuscito a scriverla. E tu non ti devi rimproverare, tu non c’entri, l’ho compreso oggi. Sono io che sono fatto come sono fatto.
Semplicemente io non so scrivere la lettera che dovrei riuscire a scrivere. Hai compreso ora? Hai capito dove voglio andare a parare? Comprendi perché ti sto scrivendo questa lettera? Stamani, alzandomi dal letto, mentre calcolavo i minuti di transizione tra la vita e la morte che le diverse metodologie di suicidi schieravano, nella luce filtrata dalla persiana sei apparso tu. Tu e il tuo consiglio dell’ultima lettera del suicida. Allora ho capito che solo tu potevi aiutarmi, solamente tu potevi essere in grado di suggerirmi questa ultima lettera.
Ho passato tuta la giornata ragionando come il progetto doveva andar strutturato, su come questa lettera a quattro mani doveva essere scritta. Ti avrei dovuto esporre i contenuti, oppure avrei dovuto solamente parlarti di lei e spiegarti quello che c’era e quello che non c’era storto tra di noi, e poi lasciarti, ed aspettare: oppure lavorare insieme, gomito a gomito entrambi con la matita e la gomma in mano come due muratori a costruire un palazzo? Perché è un palazzo che deve essere costruito. Le case so tirarle su anch’io, e a lei, come si è visto, non garbano. Un palazzo di colori ed ombre, di sangue ed erba, di primule e temporali. E qui, sulla soglia del palazzo che non c’è, finalmente, ho capito. Ho compreso veramente. Io da questo palazzo sono escluso. Non sono io che posso scavarne le fondamenta, né erigerne pareti e porte, neppure affondare i pennelli nell’intonaco per rendere le sue mura morbide alla luce.
Tu sei lo scrittore. Tu scriverai la lettera. Tu la incanterai. Per me
Non sono stupido, anche se forse sono pazzo e non solo innamorato. Tu questa lettera non la scriverai mai. Perché dovresti? Non ho di che pagarti, non ho di che pubblicarti. Ho solo la mia ossessione e magnifici lontani ricordi. Venire allora da te a implorarti, ascolta, un favore. E che favore! Con queste righe che ti sto scrivendo brucio ogni istante del mio passato. Perché di queste preghiere inginocchiate mai ne ho fatte, mai ne ho rivolte. Ma non ho vergogna, solo una sensazione di spaiamento, come se non fossi io qui a scriverti, a supplicarti.
Non mi sono dovuto sforzare allora per convincermi a cercar la cosa che ti avrebbe persuaso a prendere la penna in mano. Ma dove stava questa cosa, dentro quale armadio, nascosta sotto quale letto o all’interno di quale cassaforte? Impossibile saperlo, difficile scoprirlo. Quale altra strada percorrere allora? In fretta, perché non ho proprio più tempo.
Sai qual è oggi la moneta più importante per un uomo pubblico, una persona che vive grazie al favore di un pubblico che lo segue e compra le cose che scrive?
E’ nozione questa di dominio universale, ma veritiera, per una volta.
Non il rispetto, il talento, il genio, che sono oggi risorse aggiuntive (se ci sono, meglio) e non sono più essenziali, ma la presenza, l’essere in-linea, nel posto cioè dove ti-si-vede (il catalogo della casa editrice giusta, le pagine culturali dei giornali che contano, il salotto televisivo più sicuro di una prevendita, e così via). Non contano qui apologie o stroncature, se ci sei, sei lì, vendi. Puoi rivelarti un gran bastardo, dimostrare di non sapere dove stanno vergogna e coerenza, ma questo non conta niente.
Ma tu sei di diverso, tu hai un diverso concetto di coerenza e coscienza. Penso alle storie che hai scritto. Ecco la chiave, mi sono detto. Ho buttato subito nel cestino ogni speculazione assurda su possibili segreti da scovare e minacce paramafiose da inventare. Via.
Tu mi avresti aiutato, invece perché, posto di fronte al problema, ti saresti sentito responsabile. Se io ti avessi detto: guarda, se tu non scrivi questa lettera, e poi non la invii entro ventiquattro ore al suo indirizzo (due giorni perché questa lettera ti arrivi in mano – posta prioritaria – un giorno perché tu posa scrivere la tua/mia lettera, due giorni infine – sempre posta prioritaria – perché arrivi ala sua destinazione finale, fanno cinque giorni giusti, questo è il tempo che mi do e ti do), se tu non lo fai io mi ammazzo, se io ti avessi detto questo, tu la lettera l’avresti scritta e poi spedita. E allora lo dico.
Questo è quanto devi fare. Non è uno scherzo. Spero bene che non vorrai aspettare cinque giorni per scoprirlo e portarti poi dietro il senso di colpa per l’eternità.
E’ sempre uno sporco ricatto, dirai.
E sì allora, è un ricatto, non un favore che ti chiedo. Questa lettera, ultima, sarai tu a scriverla. Deve essere un proiettile. Deve sfondare il muro di berlino che mi separa da lei. Da lei deve arrivare, e sfiorarla, finalmente, farle tremare le cosce, farla girare verso di me, lei deve guardarmi con occhi nuovi. Ma deve anche aprirmi la strada. Deve guidarmi. Incoraggiarmi, voltarsi e guardarmi avanzare. E poi se ne deve andare. Deve sparire. Senza lasciare né tracce né odori. Tu puoi farlo. Tu puoi scrivere questa lettera, tu solo. E lo farai.
E ricorda, sono qui e aspetto.