Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Quinta edizione – 2003
Bruno Longanesi
I platani
“Ho cercato il riposo da per tutto,
e l’ho trovato solo in quello stormir di platani! … “
Un viaggiatore dei nostri tempi, quando esce dalla stazione ferroviaria di Bagnocavallo si trova di fronte ad un piazzale sguarnito di piante anche se ben tenuto. Sulla destra c’è un piccolo chiosco ricostruito; davanti una strada breve che porta sulla provinciale Ravenna-Bologna e, ai lati, alcune villette. Una stazione come tante altre di centri minori.
Io, da quasi cinquant’anni, abito lontano da Bagnocavallo, ma annualmente quando torno in Romagna al mio paese, una specie di richiamo mi spinge a fare una visita nei luoghi della mia infanzia e della mia giovinezza. La meta è la stazione ferroviaria con il piazzale antistante, allora chiamato „prato della stazione“.
Arrivo e mi guardo attorno: come mi sembra piccolo ora quel prato!
Tutto, tutto è cambiato e per ritrovare qualcosa che mi rammenti quegli anni, è rimasto, come unico riferimento, il „chiosco“.
E’ di lì che cominciano i miei ricordi.
Era un chiosco in legno a forma ottagonale di quelli caratteristici delle località balneari del secolo scorso, terminanti in punta. Non ricordo bene, ma credo ci fosse anche una piccola bandiera in cima; un paio di gradini portavano nell’unico locale dove, su un banco di mescita vecchio stile, c’erano delle mensole con tante bottiglie allineate.
La mia mente sale quei pochi gradini, entra e vede la „Gnina“, la proprietaria, sempre con un ampio grembiale ed, assieme a lei, il marito “Noti“, uomo di poche parole, che portava sempre, in ogni occasione, il cappello in testa. Serviva al banco col cappello in testa!
„Un’s’se cheva gniach quand c’us va a let…“ (non se lo toglie nemmeno quando va a letto!) – mi diceva sua moglie.
Nelle sere d’estate, il chiosco era il ritrovo dei bagnacavallesi che uscivano per fare quattro passi. C’erano pochi diversivi allora, perciò i tavolini disposti intorno venivano occupati da numerosi clienti e da intere famiglie. Il plateatico, ben illuminato, era un angolo simpatico e allegro. Le bevande maggiormente richieste erano le bibite analcoliche: fino ad allora avevano primeggiato le „gazoze“, ma cominciavano ad apparire i primi aperitivi, le prime aranciate e, novità assoluta, le spremute. Le bibite erano sigillate con tappi metallici usati anche oggi, e io rimanevo sbigottito per la rapidità con cui Noti riusciva a stapparle con un particolare arnese.
Il tappo finiva per terra. Alla mattina mi alzavo presto per andare alla ricerca dei „coperchietti“: i „quarcì’’…Li raccoglievo perché venivano pagati un centesimo l’uno.
Si, allora c’erano ancora i centesimi (un giornale ne costava trenta). Io raccoglievo parecchi „quarcì“ e riuscivo a fare delle cifrette che servivano per i miei piccoli commerci: scambi di francobolli, figurine e giornaletti
Noti mi vedeva tutte le mattine intento al mio lavoro ed alla fine mi chiedeva quanti ne avevo raccolti; poi lui, con fare sornione, faceva cadere una frase ben precisa:“Quel prema a-d’te un’ha truve d’piò! (quello prima di te ne ha trovato di più!).
Quello prima di me? Come..qualcuno mi aveva preceduto?
„Chi e’l?… (chi è?) – chiedevo io.
Lui sorrideva e non mi diceva il nome. Si limitava a dire : “L’è o…“ (E’ uno…)
Il giorno dopo anticipavo l’orario ma c’era sempre quel „qualcuno“, a detta di Noti, che era già passato.
Il bar apriva alle cinque del mattino perché il primo treno partiva a quell’ora e, in estate, io ero giunto al punto di arrivare al chiosco quando Noti iniziava il suo lavoro dicendomi sempre la stessa frase. Così mi resi conto che si divertiva alle mie spalle.
„Com’ aviv fat a’v’del sa sivi ancora a let?…“ (Come avete fatto a vederlo se eravate ancora a letto?) – domandai una volta. Lui si fece una risata perché l’avevo scoperto.
Povero Noti, ora è una figura incorniciata in una ampia galleria di ritratti e di personaggi che ricordo con nostalgia.
C’era un motivo perché tanti clienti si riunissero al chiosco, ed è presto detto!
Tutto il piazzale della stazione e la via adiacente erano contornati da alberi secolari grandissimi, ai miei occhi da bambino, addirittura immensi. In questa mia carrellata di ricordi rivedo quegli alberi. Erano platani: grandi piante maestose che hanno larghe e robuste foglie palmate.
I „platani della stazione“ erano noti in tutta la zona come un’ attrattiva e d’estate facevano una grande frescura ricercata dai bagnacavallesi. Queste piante erano numerose, non so dire quante, ma più di cinquanta di sicuro! Avevano una circonferenza di base tale che noi bambini, in due, faticavamo ad abbracciarli. La loro altezza imponeva riverenza. Erano grandissimi e solenni.
Io abitavo sul tratto di strada che dalla stazione portava alla provinciale e vivevo sempre all’ombra di questi platani. Che sensazioni ricordo ancora!
Alla notte, quando tirava il vento, quell’agitarsi e rumoreggiare delle foglie conciliava il sonno. Mi piaceva quello stormire. Ora mi sembra paradossale, ma io cercavo di stare sveglio per prolungare il piacere di sentire quello strano, confuso e dolce rumorio frequente e prolungato. Mi dava una grande serenità, pace e sicurezza. Una strana sensazione di benessere interno. In quei momenti mi sembrava un luogo incantato.
Ho girato il mondo, tutti i cinque continenti, in età matura, ma non ho mai più trovato sensazioni così piacevoli in nessuna condizione ambientale.
Quando nevicava diventavano stupendi
Io penso che nessun pittore sia mai riuscito a dipingere e ad immortalare una scena come quei platani coperti di neve e di ghiaccioli.
La loro imponenza veniva guarnita, acconciata, ornata, da un manto bianco che dava loro un aspetto di regalità. Quante notti, prima di addormentarmi, ascoltavo il richiamo di una civetta appollaiata tra i rami. Il suo chiurlare, monotono e ripetitivo, mi procurava una specie di nervosismo, di apprensione, di ansia e poi mi rasserenavo pensando (se era vero non so!) che fosse un richiamo d’amore e, a quell’età, mi lasciavo cullare dai sogni. Come potevo fare io a richiamare l’amore?
Pensieri di ragazzo imberbe!
Sui grossi tronchi erano incise tante iniziali. Normalmente due lettere: l’iniziale del nome di „lui“ e del nome di „lei“. Spesso un rudimentale cuore a suggello di un amore eterno, finito forse dopo pochi mesi. Ma il platano era un „notaio“ e registrava a imperitura memoria! Tante di quelle lettere erano slabbrate dal tempo. Quante generazioni hanno documentato il loro amore su questi platani silenti, custodi di affetti più o meno sinceri!
No!…L’iniziale del mio nome non è mai stata incisa su quelle cortecce! Ero troppo timido: non riuscivo a trovare una „lei“ da abbinare alla mia iniziale!
Quanto ci ho giocato attorno a quegli alberi!… Il prato della stazione era il mio regno e ai miei occhi di allora sembrava immenso: una selva sterminata, un gran bosco!
La mia fantasia ampliava il paesaggio.
Cominciavo a sentir parlare, nei miei primi studi, della foresta amazzonica: ecco per me il prato della stazione, era quella foresta! Poi, ho visto la foresta amazzonica realmente e mi sono reso conto di quanto fosse diversa e sono rimasto deluso: aveva ridimensionato „quel mio mondo“ così meraviglioso.
Ma nel mio cuore, però, è rimasta quella „foresta“, quella della mia adolescenza! Che meravigliosa età, perché si deve perderla? Ne vale la pena?
Quei platani avevano radici molto ramificate infisse nel terreno, con propaggini che venivano allo scoperto come ornamenti e sembravano decorazioni. Ai lati dei platani scorreva un fossato, le radici si interravano nel suo fianco e ne uscivano mettendo a nudo tutta la loro struttura complessa; radici che si contorcevano più volte fuori del terreno, quasi membra che si dimenassero con dolore. Erano attorcigliate, avvolgenti, formavano grossi anfratti, specie di vani, di infossamenti. In queste cavità, noi bambini passavamo le nostre giornate giocando solo fra maschi e il divertimento preferito era fare la guerra!
Dopo pochi anni avremmo capito, proprio fra quegli alberi, che la guerra non era, affatto, un gioco!
Ricordo Luciano, Vasco, Romualdo, Ermanno, Roberto, Giuseppe ed altri. Erano, a turno, i nemici o gli alleati in battaglie devastanti, fatte con le nostre armi che erano fucili e cerbottane di legno, elastici per proiettili, spari che uscivano dalle nostre bocche e biciclette usate come carri armati. Eppure quanto impegno mettevamo! Appostamenti fra gli anfratti delle radici, accerchiamenti, attacchi improvvisi, difese ad oltranza! E spesso ci buttavamo a terra come morti! Si moriva anche diverse volte in un giorno! Prima però si facevano lunghe discussioni! Si sceglieva chi doveva morire: non tutti accettavano questa soluzione. Quasi sempre si arrivava al compromesso: si accettava il ferimento che permetteva di continuare la battaglia, sia pure in seconda linea, senza diritto a compiere atti di eroismo! Quanti atti di coraggio in pochi giochi!
A scuola apprendevamo le gesta dei nostri eroi della prima guerra mondiale e imitavamo Toti (quel gesto con la „stampella“ come ci elettrizzava!), Battisti e Baracca. Ci sentivamo personaggi e gli atti di valore si sprecavano. Ma bastava un …topo (e ce n’erano tanti tra quelle radici!) per farci scappare tutti: italiani e austriaci! C’era solo Ermanno che non li temeva e per noi quello era eroismo vero!
I più agili di noi riuscivano ad arrampicarsi sui primi rami. Non era facile perché i platani ramificano molto in alto e il tronco grosso non permette una facile…scalata.
Qualcuno però riusciva, piantando chiodi ad altezze opportune, a raggiungere rami più alti e, in questo caso, era invidiato da tutti. Veniva considerato una vedetta, riusciva a scoprire i nostri nascondigli, le nostre…trincee! Lui fra i rami si sentiva una piccola „vedetta lombarda“ di deamicisiana memoria. E’ certo che, se non fosse stata per l’altezza notevole, chissà quante volte avrebbe accettato di cadere a terra, a corpo morto, fingendosi colpito dal nemico, con uno stoicismo e una mimica veramente commoventi.
L’ultima guerra combattuta dall’Italia a quel tempo era stata quella contro l’Austria nella prima guerra mondiale. Ebbene, i nemici erano sempre gli „Austriaci“! Quando all’inizio del gioco si stabiliva chi doveva appartenere all’uno o all’altro „esercito“, nascevano grosse discussioni. Alla fine gli Austriaci venivano impersonati dai più tonti o i meno…robusti.
Qualche volta dovevo adattarmi a fare l’Austriaco perché si era arrivati anche al sorteggio. Per il sorteggiato il gioco diventava, allora, meno divertente. Quando dovevo far…l’Austriaco le soddisfazioni si riducevano al minimo: in battaglia“ potevo gridare solo „Kaputt!“, l’unica parola di tedesco allora conosciuta.
Che meravigliosa età dove la fantasia, l’ingenuità, la spensieratezza si fondevano in un crogiolo che modellava la nostra vita e dava ad essa la gioia di viverla.
In questa gaiezza, in questa giocondità, si formava il nostro carattere: sereno, contento, lieto, vivace e spensierato. Gli anni passarono e logicamente questi divertimenti infantili cominciarono ad apparirci nella loro semplicità, nel loro candore.
Ormai non ci sentivamo Italiani o Austriaci, non ci sentivamo più capaci di fare finte battaglie. Cominciavamo ad avere altri istinti più consoni alla giovinezza.
Allora i platani ci vennero ugualmente incontro, ci dettero una mano per le nuove esigenze. Le panchine, rese ancora più gradevoli dall’ombra del loro fogliame, erano i luoghi dei primi contatti con un mondo ancora sconosciuto : le „ragazzine“. Gli appuntamenti di solito erano fissati al prato della stazione perché lì c’erano quei meravigliosi alberi.
Quante frasi d’amore hanno sentito in tanti e tanti anni, in tante e tante generazioni! Ma sono stati sempre discreti, segreti e riservati…
Ora, con i ricordi, abbandono, per un attimo, i „miei“ platani.
Guardo alla sinistra della stazione, c’è una palazzina ristrutturata sulle fondamenta di quello che fu il mio rifugio nel periodo bellico. Era incastonato anche lui fra gli alberi, tra quei platani. Vado con la memoria al periodo 1944-1945. Quanta diversità dagli anni appena descritti! La guerra infuriò in maniera terribile fin dal dicembre 1944. Noi vivevamo come talpe nel sotterraneo di quella villetta. Fame, paura, stenti di ogni genere. I platani ci diedero il loro primo aiuto. Tagliati alcuni rami ci servirono come impalcature di sostegno per rendere più sicura la struttura del rifugio.
Quando cominciarono i bombardamenti terrestri e aerei, la loro mole ci protesse: migliaia di granate e centinaia di bombe esplosero a contatto dei loro rami prima di raggiungere l’obiettivo a terra. Ai loro piedi si ammucchiarono cataste di rami schiantati da schegge Quella legna, fornita gratis, ci servì per il riscaldamento.
Quando cominciò ad essere necessario uscire di notte per andare alla ricerca di cibo e medicinali, la „nostra foresta“ ci apparve in una nuova prospettiva. Io uscivo dal rifugio e, al primo impatto con l’esterno, erano i tronchi dei platani che costituivano un buon riparo per il tempo necessario a studiare e decidere la direzione da prendere nella perlustrazione.
Tanti pensieri affollavano la mente in quei momenti! Rivedevo le cavità, gli anfratti delle radici dove pochi anni prima mi rannicchiavo a fare la guerra per gioco.
Ora vi stavo rannicchiato per „subire“ la guerra sul serio!
Non vi erano più nemici con gli elastici, non si poteva più scegliere diplomaticamente di essere morto o ferito; qui, senza discutere, si moriva per davvero!
Le poche parole di tedesco conosciute da bambino erano aumentate, ma la parola „Kaputt“ era più che mai valida ed attuale. In queste condizioni non era prudente fermarsi toppo sotto i platani. Bastava una scarica di artiglieria ad „alzo zero“ perché le granate esplodessero a contatto con i rami e allora la rosa di schegge e gli stessi rami spezzati, ti avrebbero investito in modo estremamente pericoloso. I nemici non si chiamavano più Luciano, Romualdo, Vasco o Ermanno: avevamo nomi esotici e non permettevano il rumore dello sparo con la bocca perché sparavano senza pietà con armi vere!
Era inverno. Gli alberi così spogli avevano i rami tanto protesi che sembravano bracci imploranti. Nella loro lunga vita non avevano mai assistito a spettacoli così orribili. Ma erano sempre muti testimoni.
Una sera uscii e, passando da un albero all’altro, vidi un corpo immobile. Era un soldato tedesco morto. Si era riparato, anche lui, come noi bambini, fra quelle radici ma non era servito a nulla. Quelle cavità non erano più il palco delle nostre commedie infantili, ma ospitavano la tragedia finale di una giovane vita e il suo gioco era finito per sempre! Passai oltre tremando e buttai l’occhio dove c’erano i chiodi che servivano a Vasco, ora sacerdote, per fare la „piccola vedetta lombarda“! C’erano ancora, ma come erano cambiati i tempi!
Ora i compiti delle vedette lombarde venivano espletati dagli aerei, le cosiddette „cicogne“.
Nei primi mesi del 1945, quando le pattuglie alleate e tedesche si scontravano di notte sul prato della stazione, gli anfratti naturali furono campo di furiosi combattimenti. I platani, silenziosi ed imparziali, assistevano a questi giochi pericolosi. Molti militari delle due parti furono sepolti, temporaneamente, ai piedi degli alberi. Sulle croci le generalità dei caduti non ci erano familiari, si chiamavano : Albert, Alfred, Berthold, Leonard, Rudolf oppure Charles, Denis, Edward, Michael, Oliver. Tedeschi e Inglesi avevano finito di „giocare“ ed ora si riposavano sotto lo stesso platano, senza astio. Non più nemici ma involontarie vittime di un gioco più grande di loro. Ricordo che da bambino, nelle notti buie, avevo paura delle ombre di rami che si proiettavano a terra come enormi tentacoli, ora avevo paura di quelle croci, lo confesso. Quelle ombre spettrali avevano distrutto, per sempre, i miei giochi da bambino e mi avevano proiettato nella realtà della vita! Abbastanza velocemente mi allontanai dai platani e passai a fianco del „chiosco“: era tutto una maceria. Le pareti esterne di legno e le travi di sostegno erano crollate, sfasciate. Su queste, decine e decine di rami d’albero erano caduti tranciati di netto dalle schegge. Un ammasso confuso e informe di ruderi spesso coperti di neve.
Cercai di andare oltre. Mi trascinavo carponi perché c’erano in giro pattuglie tedesche e alleate: quella era „terra di nessuno“! Non potevo essere molto veloce nei movimenti perché avevo una ferita sullo stinco della gamba destra, non di quelle ferite che ci elargivamo gloriosamente per gioco.
Com’era cambiato quel „mondo“ che „abitavo“ da bambino! Allora tanta serenità, gioia di vivere, speranza nell’avvenire, ora dolore, morte, disperazione.
Solo i platani potevano essere indifferenti agli eventi: loro avevano secoli alle spalle di avvenimenti e potevano guardare l’avverarsi del futuro con impassibilità!
Ma le cose andarono ben diversamente! Passarono i mesi. Si arrivò al marzo 1945.
Un giorno, all’improvviso, arrivarono nel prato della stazione numerosi carri attrezzo, di ogni tipo. Era il „genio militare“ alleato, una forza organizzativa imponente e funzionale. Incominciò con grosse seghe circolari, installate su mastodontici autocarri, a tagliare alla base i platani riducendo i fusti e i rami in tasselli. Potenti gru provvidero a trasportare tutto il legname altrove. Gli operatori furono di una rapidità impressionante, di un’abilità sconcertante. La „foresta“ diminuì rapidamente.
I Tedeschi trincerati a un paio di chilometri con i cannocchiali seguirono l’operazione, ne intuirono subito il motivo e tentarono, in tutti i modi, di ostacolarla.
Cominciarono un fitto fuoco di artiglieria concentrato…sul prato! Noi, nel rifugio, sentivamo le granate caderci addosso. Era un inferno perché gli scoppi dei proiettili si confondevano con lo schianto dei rami. In un paio di giorni l’operazione fu conclusa, ma il prato della stazione appariva diverso! Il paesaggio era completamente cambiato. Era irriconoscibile!
La „necessità“, filosofia dominante della guerra, aveva reso necessario questo orribile attentato alla natura perché l’orizzonte doveva essere completamente sgombro da ostacoli naturali. Il fuoco delle artiglierie alleate sarebbe stato ostacolato dai platani per il tiro ravvicinato ad „alzo minimo“!
Si radunarono nelle campagne migliaia di carri armati e si disposero a semicerchio in tutta la zona di Bagnacavallo. I loro cannoni dovevano essere puntati ad „alzo zero“ per annientare le prime linee nemiche. L’offensiva era in preparazione: l’attacco decisivo vicino! E gli alberi, quegli alberi secolari, sarebbero stati di impedimento alla strategia militare. Logico, no? Una filosofia che non ammette repliche. Al sentimento, poi!
Ora i famosi platani non ci sono più perché sono valorosi „caduti di guerra“! Allora salvarono tante vite umane sicuramente, e furono il nostro scudo fino a quando qualcuno volle farli morire!
I giovani di oggi non li hanno mai visti, forse non li hanno neanche sentiti nominare. Solo chi, come me, li ha amati fin da piccolo, vivendo in simbiosi con loro, quando va in pellegrinaggio alla stazione, li rivede sempre lì!
Il loro ricordo sarà sempre in me per tutta la vita!
Ancor li vedo quando ritorno e, nei momenti di tristezza, di malinconia, di avvilimento, vorrei ritrovare serenità e pace come allora , riascoltando il loro stormire, il loro frusciare, il loro mormorare, così carico di dolcissima e struggente nostalgia!