Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Quinta edizione – 2003
Terzo premio
Paola Testa
L’altro
Quella mattina il risveglio fu brusco. Un raggio di sole filtrato tra le stecche della serranda non completamente abbassata aveva trafitto i suoi occhi come una lama. Sollevandosi con l’aiuto dei gomiti appoggiati sul cuscino si era guardato intorno. La stanza era in penombra, ma si distingueva agevolmente un volto che lo fissava dal fondo del letto. Quel volto era senza possibilità di dubbio il suo stesso volto. Si strofinò gli occhi con forza per vedere meglio e alla ricerca di uno specchio. Ma nella stanza, abbastanza disadorna, non c’erano specchi. Tuttavia il volto che gli stava di fronte era il suo. Lo guardò di nuovo. Incredulo: era il suo eppure non lo era. Anche l’altro, una specie di mezzo busto fluttuante nell’aria, sembrava penetrarlo con gli occhi. Si guardavano l’un l’altro senza pietà né benevolenza. L’uomo del letto, sempre sorretto dai gomiti che, in verità, cominciavano a stancarsi, cercò di figurarsi il proprio viso come era abituato a vederlo nello specchio del bagno quando si faceva la barba: era diverso da quello a capo del letto. Le differenze non erano fondamentali, ma piccoli particolari come gli occhi che nello specchio apparivano grandi e quasi stellanti con un sopracciglio leggermente sollevato, la bocca con un lieve sorriso pieno di affetto e di sottintesi, morbida e tumida. Quello che gli stava di fronte, che era in definitiva un altro se stesso, aveva un’espressione dura, diversa da quella a cui era abituato. Si adagiò di nuovo sul cuscino e socchiuse gli occhi continuando, però, a fissare l’altro di sottecchi come per non farsene accorgere. Si guardavano quasi in una specie di sfida per vedere chi si sarebbe stancato per primo in quello strano gioco. Dal letto continuava a studiare i lineamenti di quella faccia così nota eppure così estranea. L’esame non diede risultati soddisfacenti: la bocca era la sua, la stessa, ma con una smorfia più debole all’angolo destro, quasi lasciva, mentre le pieghe ai lati erano profonde come quelle di un vecchio. Il naso poi era grosso, dominante il viso per cui gli occhi venivano quasi privati della loro luminosità a favore di quel promontorio cosi accentuato. Le guance erano più scavate di quelle nello specchio e leggermente cadenti verso il collo che si intravedeva appena nella luce incerta del giorno incipiente. Non si piacque. Non era quello che credeva di essere, anzi che sarebbe voluto essere. Si chiese quale dei due fosse quello vero, reale, insomma a cui prestar fede, se quello riflesso nello specchio del bagno così bonario e gentile o quello che gli stava di fronte. La persona che sembrava dominarlo con la sua freddezza analitica, non poteva essere lui stesso anche se apparentemente era uguale tranne per quei piccoli particolari, in fin dei conti abbastanza trascurabili, che aveva riscontrato nell’esame non certo esauriente di poco prima. Pensò che potesse trattarsi di un sosia. Ma come era potuto arrivare fin dentro la sua stanza? E se non era un sosia chi era? Si rifiutò di considerarlo una parte sia pure anomala di sé. Lui era bello o perlomeno, se non proprio bello, piacente. Un tipo che ispira fiducia con quella espressione aperta e serena. Il naso, sì, il suo naso era abbondante, ma non così invadente. Si domandò che cosa potesse celarsi dietro il volto appeso nell’aria. Pensò che forse, studiandolo meglio, ne avrebbe carpito l’oscura personalità. Gli parve, a un esame più attento, un tipo duro di quelli che non si fanno metter sotto da nessuno, con qualcosa in aggiunta alla durezza: una specie di menefreghismo per tutto ciò che lo circondava che lui non si era mai sognato di avere. Ancora una volta ebbe dei dubbi sia sulla presenza di quel qualcosa che poteva anche essere un ectoplasma poiché la sua stranezza lo rendeva simile a un fantasma, sia sul fatto che gli somigliasse tanto da essere addirittura uguale a lui. Il mezzo busto continuava a fissarlo senza muoversi né cambiare l’espressione di quegli occhi freddi, quasi vitrei. Riflette di nuovo sulla presenza di quello strano essere. Se fosse stato un fantasma, ragionò, ciò avrebbe significato che lui, lui stesso, era morto poiché, che sapesse, non esistevano fantasmi di persone vive. A questo punto cominciò a tastarsi diverse zone del corpo per accertarsi di far parte ancora del regno degli esseri viventi. Decise, dopo essersi pizzicato in più punti e aver avvertito dolore, che non vi poteva essere dubbio alcuno: era vivo e vegeto! Tale certezza lo rassicurò per cui si abbandonò con maggior rilassatezza sul cuscino tentando anche di riprendere il sonno interrotto, ma dopo un poco ricominciò a sbirciare l’altro che pareva non volersene andare. Tentò di cambiare posizione nel letto e si rivoltò sul fianco destro, ma molto lentamente senza smettere di guardare di sottecchi il suo doppio per vedere se anche lui si fosse girato, nel qual caso ciò avrebbe significato che, da una qualche parte e posto in posizione nascosta, ci doveva essere qualcosa di simile a uno specchio. L’altro sempre fermo. Nella stessa posizione con caparbietà e protervia. Lentamente lo sbigottimento che lo aveva colpito alla scoperta di quella specie di mezzo busto che lo sovrastava, cedette il posto alla collera. Quello non se ne voleva andare, ma lui, lui che era forte e volitivo, lo avrebbe cacciato via con le buone o con le cattive maniere. Per giunta quel tipo non gli piaceva neppure un poco con quell’aria prepotente che gli si leggeva in faccia. Niente a che vedere con lui che in fondo era un mite. Incapace di far male a una mosca, come ripeteva sua madre. Per un attimo aveva persino pensato di poterci convivere con quell’affare lassù, ma adesso proprio no. Aveva capito che sarebbe stato del tutto impossibile. Troppo diversi l’uno dall’altro per poter pensare di trovare un accordo. Si rivoltò di nuovo nel letto e riassunse la posizione supina. Così almeno stava più comodo. Cercò di fissarlo negli occhi per avere un rapporto più diretto con lui, ma l’altro niente. Sembrava sfuggire il suo sguardo, non per paura bensì per superbia quasi per altezzosità. Rimase perplesso sul da farsi sembrandogli vano ogni sforzo per comunicare con quello che ormai considerava il suo antagonista. Allungò una mano, ma anche questo gesto non sortì alcun effetto. Anche la collera svanì di fronte all’indifferenza dell’altro che pareva non accorgersi di lui come se fosse un’entità troppo trascurabile per essere presa in considerazione. Tutto ciò era offensivo nei suoi riguardi, ma decise di non dare importanza alla cosa e in definitiva di assumere un comportamento simile a quello dell’altro. Si rese però conto che in questo modo stava adeguandosi in tutto ai presunti voleri di colui il quale gli era capitato così inopinatamente di fronte e proprio nella sua stanza e dentro la sua casa. Chiuse gli occhi di nuovo e rimase a lungo supino e forse dormì. Quando li riaperse la stanza, invasa dalla luce del giorno che stava avanzando rapidamente, non aveva più angoli d’ombra. Con un rapido sguardo si rese conto che il suo dirimpettaio era sparito. Frugò ogni recesso ogni più piccolo spazio dietro i mobili, si sollevò a sedere e sbirciò sotto il letto: nulla di nulla. Il suo doppio non c’era più. Pensò allora di aver sognato tutto quanto. Forse era stato un incubo come a volte gli capitava specie se aveva mangiato troppo la sera precedente. Comunque decise di archiviare la cosa e di non pensarci più se non per raccontarla agli amici. Con uno sforzo di volontà, poiché si sentiva mortalmente stanco come dopo una lunga camminata, scese dal letto e si avviò verso il bagno. Il bagno prendeva luce da una piccola finestra posta in alto vicino al soffitto. Non accese le luci perché gli occhi ancora colmi di sonno rifiutavano il riverbero delle lampade.
Cominciò a togliersi il pigiama e rimase nudo in piedi in mezzo alla stanza. Si guardò le gambe magre e pelose e quella mattina gli sembrarono più magre e pelose del solito. Gonfiò il petto e irrigidì i muscoli delle braccia in un accenno di ginnastica, ma la sua mente navigava ancora nell’incubo di poco prima. Non riusciva a convincersi che potesse essere stato un incubo, ma nemmeno un fatto realmente accaduto per la sua totale assurdità. Ne allontanò il pensiero cercando di distrarsi nell’esame del proprio corpo come faceva ogni mattina. Non era male, decise, e la magrezza delle gambe che sarebbe potuta essere considerata un tantino eccessiva, veniva compensata dalla loro muscolosità, il torace era decisamente gradevole né troppo forte né troppo esile. Prima di accendere le lampade che contornavano lo specchio, come quelle del camerino di una diva, estrasse dall’armadietto il rasoio elettrico per procedere alla noiosa operazione di rasarsi, poi si avvicinò allo specchio. Spinse l’interruttore e il bagno sfolgorò di luci. Si carezzò il viso come d’abitudine per stenderne le pieghe e con un sorriso di segreto compiacimento si specchiò. Le luci abbaglianti delle lampade lo costrinsero per un attimo a stringere gli occhi. Li riapri strizzando le palpebre. Pronto per la rasatura accostò il volto allo specchio. Di fronte a lui l’altro lo fissava con sconcertante e gelida indifferenza.
Rimase per un lungo attimo immobile. Allibito. Quando ormai si era convinto che la presenza dell’altro non fosse che un sogno, un orribile sogno, un incubo dal quale si era svegliato, proprio adesso ecco ricomparire quell’orrendo se stesso nel quale non si riconosceva per niente! Gli fece uno sberleffo, ma l’altro non diede vista di accorgersene e non rispose alla provocazione. Cercò di concentrarsi e, per farlo con maggiore impegno, strinse gli occhi facendoli quasi lacrimare e infine si decise: avrebbe fatto finta di niente e si sarebbe rasato. La cosa migliore era certamente ignorare la presenza inopportuna di quello che aveva preso possesso del suo specchio. Non gli avrebbe permesso di alterare per niente le sue abitudini. Grattandosi il mento riaprì gli occhi: lo specchio era vuoto. Fece un sorriso al suo proprio volto riflesso e cominciò a radersi canticchiando un vecchio motivo. Dunque si trattava di una specie di sogno di un’allucinazione dovuta, come aveva pensato precedentemente, alla cena pesante della sera prima. Si lisciò il volto con cura con una crema emolliente, tornò nella stanza da letto, aprì l’armadio e ne estrasse un abito sportivo elegante, ma non troppo impegnativo. Giusto per la mattina. Si sentiva euforico. La presenza di quella specie di doppio lo aveva stimolato, aveva rotto la monotonia delle sue giornate sempre uguali. Uscì di casa senza fare colazione. Poteva permettersi un cappuccino al bar.
Magari con un cornetto. Si chiuse la porta alle spalle e uscì fischiettando. Proseguì la strada sentendosi quasi felice. Il passo lungo, elastico e leggero. Lanciò uno sguardo fuggevole alle vetrine più per osservare la propria figura riflessa che per vederne il contenuto. Si sentì soddisfatto di se stesso come da lungo tempo non gli capitava. Ripensò all’incubo di poco prima quasi con un senso di gratitudine, attribuendo il suo stato d’animo attuale all’avventura vissuta. Tuttavia ogni volta che volgeva gli occhi a una vetrina il suo cuore aveva un leggero balzo. Un battito più affrettato, e il timore di vedere il suo doppio lì dentro, affiorava facendolo sobbalzare lievemente. Cominciò quindi a camminare più velocemente e le occhiate lanciate ai negozi che fiancheggiavano il marciapiede erano più rapide e timorose. Quanto gli era successo gli rimuginava in testa provocando in lui una certa inquietudine. Soprattutto non riusciva a spiegarsi la presenza dell’intruso dentro lo specchio. Mentre l’apparizione a capo del letto non poteva essere stata che un incubo che lo aveva sorpreso quando ancora si trovava tra la veglia e il sonno, l’altra era cosa diversa. Lui era ben sveglio e occupato in una funzione normale, abituale, di tutti i giorni. Continuò a camminare, ma sempre più velocemente come spinto da una forza interiore. Spesso si fermava un attimo e girava leggermente la testa per guardare dietro di sé. D’un tratto gli parve di essere inseguito e l’inquietudine che piano piano si era impadronita di lui si fece più acuta. Tentò di scacciare dalla mente il pensiero dell’accaduto che poi, cercò di convincersi, non era nemmeno sicuro che fosse veramente accaduto. Poteva essere stato un parto della sua fantasia sovreccitata dalla cena pesante della sera prima e dalle abbondanti libagioni. Sì, era certamente questa la verità. Aveva bevuto troppo e nei fumi dell’alcool aveva sognato cose dalla parvenza reale. Se ne convinse e adeguò il passo alla nuova visione della cosa. Si sforzò di camminare più lentamente e prese a canticchiare tra sé e sé. Fece alcuni passi e sostò dinanzi al bar nel quale spesso si fermava a far colazione. Stava per entrare, ma si accorse di non aver alcun desiderio di mangiare. Qualcosa nel suo stomaco non funzionava. Sentiva come un blocco che partiva dalla gola estendendosi all’esofago e pareva aver preso possesso dell’intero suo addome. Si sentiva sovraeccitato. La presenza di quell’intruso prima nella stanza e poi, con una sfacciataggine inaudita, nel suo stesso specchio, lo aveva destabilizzato. Riesaminò da capo tutta la cosa dall’inizio alla fine senza omettere alcun particolare, ma più procedeva nell’analisi e più si convinceva che l’accaduto non poteva essere vero per la sua totale assurdità. Ancora una volta estromise dai propri pensieri il suo presunto doppio e riprese la passeggiata con maggior scioltezza per liberarsi dall’incubo, ma l’inquietudine che poco prima si era impadronita di lui andava aumentando. Era come se quel fosco individuo apparentemente così simile a lui gli fosse entrato dentro. Così come era entrato nella sua stanza e poi nel suo specchio e tutto ciò era insopportabile. Non si sentiva più padrone di se stesso. Quel suo doppio, che forse non esisteva nemmeno, anzi, era sicuro che non esistesse, non poteva esistere, era un incubo da dimenticare, si stava impadronendo della sua mente con un’insistenza inadeguata alla sua irrealtà. Se ne sarebbe liberato, decise per la seconda volta, con ogni mezzo.
Intanto avrebbe pensato a qualcos’altro, e dato che ogni cosa esiste nel momento stesso in cui la si pensa, lui non avrebbe più pensato all’altro e così lo avrebbe distrutto. Morto e sepolto! Riprese a camminare questa volta con più lena a fronte alta e spalle diritte come ogni uomo libero. Per un po’ tutto andò bene, non si guardava più nelle vetrine, perché non si sa mai, ma era più tranquillo. Stava vincendo la partita. Dopo un po’, però, si domandò perché mai avesse ingaggiato una così furibonda tenzone contro un tizio che non esisteva. Infatti non poteva aver vinto nulla di nulla poiché mancava un antagonista. Quell’altro era frutto della sua fantasia e niente di più! Perciò ora basta! Era ora di finirla con questa stupida cosa! Gli stava montando la rabbia e il suo passo divenne irregolare e concitato. Camminava tra la gente urtando i passanti e la sua andatura si fece sempre più rapida finché si fermò di botto, restò fermo impalato per alcuni secondi, poi, come per una inderogabile decisione riprese il cammino in senso contrario. Il suo passo si fece irregolare, privo di ritmo. Quasi incerto sotto la spinta della rabbia che lo divorava. Doveva tornare a casa senza alcuna indecisione e sgominare definitivamente l’orrendo figuro che si permetteva con la sua irreale presenza di rovinargli la vita. Il suo appartamento sembrò lontano, quasi irraggiungibile ai suoi passi strascicati. Nonostante la collera che gli dava coraggio in fondo in fondo temeva di trovarselo di nuovo davanti, quel mostro di freddezza. Perché ormai non aveva più dubbi, inutili i filosofeggiamenti di poco prima: lui esisteva, era inutile nasconderselo, e giunto a casa se lo sarebbe trovato di nuovo di fronte con quel volto impenetrabile e sardonico. Davanti al portone di casa estrasse le chiavi, aprì con mani tremanti e prese a salire la prima rampa di scale. Non era più così sicuro e la paura stava riprendendo il sopravvento, tuttavia si fece forza ed entrò nell’appartamento. La rabbia scoppiò di nuovo improvvisa anche contro se stesso e le proprie paure, gli si gonfiarono le vene del collo e il volto si arrossò per l’aumento della pressione sanguigna. Si diresse a un piccolo armadio nel quale erano riposte le mazze da golf, ne afferrò una ed entrò nel bagno. Accese le luci che sfolgorarono con violenza aumentando la sua aggressività. Dentro lo specchio 1’orribile volto gli si parò dinanzi. Fu questione di un secondo e la mazza da golf si abbatté con forza contro il cristallo che franò a terra con un fragore assordante. Si sentì finalmente calmo. Ai suoi piedi innumerevoli frammenti di vetro. Sollevò gli occhi verso la parete dove prima c’era lo specchio. Un piccolo pezzo era rimasto attaccato alla cornice. Da quel minuscolo frammento un occhio impenetrabile lo fissava con indifferenza.