Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Quinta edizione – 2003
Primo premio
Fabio Franzin
La storia dell’orsa Brunda
Contàr la storia dell’orso: raggirare , darla a bere ( 1 )
L’orso in casa no regna (l’orso in casa non regna) ( 2 )
Qualcuno, da qualche parte, ha scritto e detto, più o meno, che una persona non può mai considerarsi veramente fregata finché gli rimane, sotto il polsino, una buona storia da raccontare e qualcuno a cui raccontarla.Vedi nota
Io le mie le ho già consumate tutte, raccontandole a quei cinque – sei psicologi che da circa vent’anni hanno tentato di scandagliare gli incagliamenti che, sempre più frequentemente, frenano ogni mio entusiasmo, soffocando le emozioni sotto una cappa di tensioni e paure. In quei periodi – in questo periodo – per allentare la pressione delle storie contorte che cozzano nella mia mente, non vivendo che un apatico tirare avanti che sminuzza, che sbriciola ogni mia storia che un vento buio di tristezze spazza via, lontano, non avendo quindi una storia – non dico buona, ma nemmeno intera – da raccontare e, non avendo più voglia di raccontare ad altri le mie bufere, mi aggrappo all’antica Shahriyarica ( 3 ) strategia di farle raccontare agli altri, di farmi raccontare ciò che io, in quel segmento di tempo non riesco a produrmi.
Sono un cercatore di storie, di aneddoti, curiosità, congiunzioni del destino.
Ed è chiaro che la posta in gioco in questa ricerca è così alta, da averla condotta, ormai, a scivolare lungo il crinale d’una vera e propria dipendenza; da essermi ridotto a diventare un ricercatore febbrile, mai pago.
Così mi trovo a divorare romanzi, ad aver fatto delle sale cinematografiche, delle librerie, video e biblioteche la mia vera casa. Così mi faccio ospitare fra le pagine di uno scrittore, fra le immagini e le voci di registi e attori per ascoltare e leggere quelle storie che fanno vivere ai loro personaggi per illuderci, sembra, di poterle poi vivere, così intensamente, anche noi; che si rifrangono in noi come un salice verdissimo nell’acqua increspata e torbida d’uno stagno. Le cerco nelle opere perché mi pare che nessuno abbia più voglia di raccontarmele di persona, non so se per pudore, per timore di privarsi di qualcosa di prezioso o, semplicemente, perché quasi nessuno ne vive più, per davvero, di storie tutte proprie.
A volte le storie se ne stanno nascoste, in attesa di un cenno che forse, mai, ci verrà di compiere; a volte ti avvertono che sono lì, vicine, con un soffio d’aria improvviso fra le foglie di un pioppo, per esempio; a volte, come è capitato a me per la storia che desidero trascrivere per donarla a chi soffre, o gode, della mia stessa dipendenza, è il suono d’una fisarmonica l’ammiccamento e, a volte – alludendo ancora a questa – ti chiamano in extremis, dal luogo in cui ci sei passato davanti molte volte, a due passi da dove, per una vita o solo per una settimana, ci hai vissuto.
Ma devo compiere un altro piccolo sforzo all’indietro prima di raccontarvela – portate pazienza – devo, dopo questo preambolo che sento non aver soddisfatto del tutto le mie intenzioni riguardo i perché dell’aver deciso di trascriverla, introdurvi un po’ dentro la storia reale di me stesso. So che non è necessario, che è forse un di più che rischia di stancarvi, che non è poi così importante. Ma è che non so proprio come cominciare per dirvi perché mi trovavo nel Parco del Triglav, la scorsa estate, se non raccontando a voi la storia dell’orso che mi trovavo lì per passare una settimana di ferie – anche perché, in fin dei conti, è anche quello un luogo di villeggiatura, trafficato da turisti – in realtà non ci si può prendere una settimana di ferie dalla depressione, non si va in un parco immenso per poi sedersi in una piccola panchina a cercare quella tranquillità che la panchina spaziosa nel pur più piccolo parco paesano non è riuscita ad evocare, con il sovrappiù dell’ansia che suscita sempre, in chi vive la mia stessa condizione, un luogo estraneo, lontano dalle piccole-grandi cose ed abitudini di casa. Chi sta male sta male ovunque e, tanto varrebbe – per chi non dispone di chissà quali risorse finanziarie, poi – star male accanto alle proprie cose, risparmiandosi, almeno, i soldi necessari per cambiare aria quella settimana all’anno. Ma ho una moglie e un figlio che, per fortuna loro e, di conseguenza anche mia, hanno ancora, intatta, quella smania, quella curiosità di visitare luoghi nuovi, di evadere, almeno, da questo sottovuoto colmo di fabbriche e ottusità e malcreanza che è diventato, ormai, questo nord-est venetico, grasso e volgare. Necessità che avverto anch’io, peraltro, ma più come un’opportunità mortificante, che comporta, che ha comportato, sempre, il rendere ancora più amaro il ritorno fra queste buazzhe ( 4 ) trasformate nel covone di soldi di Paperon de Paperoni.
Se partire è un po’ morire, come dice il detto, per me, tornare, è morire un po’ di più.
Insomma, alla fine la ho progettata io, comunque, questa vacanza fra le Alpi Giulie della Slovenia; non così distante da casa da mettermi angoscia e non così vicina da avvertire ancora quei miasmi di lavoro quale unica ragione di vita e di discorsi che, quale unico comune denominatore hanno sempre, e solo, il conseguente dio denaro.
Così una domenica mattina uggiosa siamo partiti verso il parco Nazionale del Triglav. Dopo due-tre tentativi a vuoto nel suo interno, a Trenta, abbiamo trovato una sistemazione più che soddisfacente ritornando quasi alla sua periferia nell’abitato di Soca, il paesetto che prende nome dal nome dell’Isonzo in sloveno. Da lì abbiamo girovagato, fra auto, mountain-bike e a piedi, visitando un po’ tutti i luoghi più caratteristici della zona, percorrendo quello che è chiamato sentiero smeraldo, che si dipana lungo il corso del fiume che è davvero un incanto smeraldino.
Dalle sue sorgenti, ala fortezza di Kluze; al lago di Bled; ai prati coriandolati dai fiori; alle forre sotto i ponticelli dondolanti di Koritnice, Velika e a quelle sulla Tolminka che, si dice, abbiano ispirato a Dante, esule da Firenze nel 1319, gli orridi dirupi nell’Inferno della „Divina Commedia“.
E’ stata una settimana ricca di bellezza, davvero, anche se sono stato oppresso da tensioni e stati d’animo a volte quasi insopportabili; ma ho visto mio figlio e mia moglie contenti e sereni, entusiastici nell’esplorare ogni anfratto di quella zona quasi incontaminata. E questo, per me è già molto.
Ma pur avendo vissuto tanti bei momenti, a me mancava il souvenir di una storia da portare a casa, una storia che fiutavo, che sentivo sussurrare, lì, da qualche parte.
L’ultima sera di permanenza, dopo cena, decidemmo di recarci al ponticello sulla forra di Velika, che distava due chilometri circa dalla pensione, per prendere congedo, nel modo che ci parve più appropriato, da quel bellissimo, impetuoso fiume, ed anche per cercare di scorgere qualche stella cadente da applicare ad uno dei nostri tanti desideri; anche se a me ne sarebbe bastata una sola, lunga, che con la scia si portasse con sé, per sempre, questo mio ostinato, assurdo, male.
Andando verso il ponte, a trecento metri dalla pensione dove avremmo passato la nostra ultima notte slovena, siamo passati davanti ad una sua gemella che più di una volta, in quei giorni, arrivando da quella direzione, mi aveva tratto in inganno, facendomi entrare nel suo parcheggio credendolo il nostro; un’altra pensione che era la sua copia spiccicata e che portava lo stesso nome: da Julius; passandoci accanto, dicevo, udimmo le note da vecchia sagra di una fisarmonica e notammo una tavolata di anziani allegri che cantavano.
Rimanemmo più di un’ora nel buio sospeso sopra lo scroscio ed io continuavo a far rintoccare dentro di me quelle note di mazurca.
Non scorgemmo nessuna stella cadente.
Quando tornammo indietro, quella fisarmonica continuava a incitare quei commensali al canto. Sterzai di colpo e ci sedemmo ad un tavolino, fuori, accanto a loro. Ordinai una pelinkovec, un caffè e un succo di frutta. Quando il fisarmonicista, che si chiamava Rudy, capì che eravamo italiani, ci coinvolse, con grande cortesia, a cantare con lui l’odiatissima O sole mio. Ma io sapevo che lui era il folletto che mi stava accompagnando dentro alla storia che cercavo, e allora lo assecondai di buon grado, con trasporto, fra il battimani generale di quella tavolata di gente semplice e cordiale.
Quando entrai per pagare le consumazioni, notai che accanto alla sala da mescita, dove il vecchio bancone terminava, si apriva una stanza ove si intravedevano le teste di alcuni trofei di caccia appesi alle pareti. Vi entrai e mi trovai in una specie di triste museo della fauna del Triglav, dove teste di camosci si alternavano a martore e volpi imbalsamate; a galli cedroni, teste di daini e caprioli; dal soffitto pendevano tre lampadari composti da palchi di corna di cervo enormi intrecciati fra di loro; poi , nell’angolo più lontano, come la statua di un Tito più massiccio lo scorsi, scorsi la storia che andavo cercando.
L’orso bruno era ritto in piedi, con una zampa anteriore appoggiata ad un tronco nel quale sembrava sostenersi; l’altra sospesa come in un saluto unghiato, o in un gesto di scusa; il muso dolce proprio come quello degli orsi di peluche. Sfiorai il pelo ispido del suo manto e corsi fuori a chiamare mio figlio e mia moglie che, forse più ancora di me, amano gli animali e sono ghiotti di poter vederne esemplari delle specie meno comuni pur anche se immobili dentro la teca di un museo di storia naturale.
Entrarono e, mentre ammiravano i tratti delicati del muso della bestia entrò anche la proprietaria dell’albergo. Le chiesi chi avesse preso quell’orso, e qui incomincia la sua storia che dopo questa lunga introduzione vedrà il suo sviluppo in poche, ma credo emozionanti, righe.
L’orso era un’orsa, ci disse. Si chiamava Brunda e, quando era solo un cucciolo di quattro mesi, il defunto marito della donna – che fu il grande cacciatore che quei trofei continuavano a dimostrare – durante una delle sue battute fra i monti, passando in un costone soprastante i binari della ferrovia, vide il treno travolgere l’orsa grande, vide quel cucciolo aggirarsi sperduto intorno a quella carcassa maciullata. Lo portò a casa e Brunda visse per quattro anni dentro il recinto del loro orto. Poi, un giorno, chiamata dal suo istinto naturale, sventrò la rete del recinto e vagò fra i boschi e i prativi finché, dopo tre giorni di ricerche, la scovarono accanto ad una pozza d’acqua. Nonostante fosse sempre stata innocua, per paura che potesse far male alle persone o attaccare qualche bestia al pascolo, venne abbattuta.
E ora è lì, da vent’anni. Immobile, a testimoniare il suo bisogno di spazi, l’insorgenza , improvvisa o forse covata per mesi o anni, di quell’istinto di libertà insito in ogni creatura, a dirci la breve stagione del suo respiro.
Mi sembrava, guardandola, di vedere me stesso, in Brunda, imbalsamato nel mio sogno di libertà fra un lavoro e un orto sempre più stretto e il male che mi avviluppa.
Ho trovato la storia che cercavo.
Prima o poi troverò anch’io la forza disperata di squarciare il recinto che mi imprigiona.
Prima o poi resusciterò dalla mia imbalsamazione, uscirò dalla pelliccia di Brunda per andarmene libero, nella vita, anche per Essa.
Note
Chiaro riferimento al monologo teatrale „NOVECENTO“ di Alessandro Baricco, 1994; ed alla trasposizione cinematografica del suddetto: “LA LEGGENDA DEL PIANISTA SULL’OCEANO” di Giuseppe Tornatore, 1998, per voce dell’attore P. Taylor Vince.
(1) dal „Dizionario del dialetto trevigiano (di destra Piave)“ di Emanuele Bellò, Editrice Canova di Treviso
(2) da „Proverb del Veneto“ a cura di Gian Antonio Cibotto, Giunti 1995
(3) Shahriyàr è il sultano che „incatena“ l’astuta Shahrazad a raccontargli le storie de „Le Mille e una Notte“
(4) Sterco bovino, nel dialetto della destra Piave