Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Quinta edizione – 2003
Michela Torcellan
La livrea
All’epoca della Repubblica di Venezia, mentre le glorie coloniali stavano offuscandosi a causa degli scontri con l’impero ottomano, viveva in città un giovane della piccola nobiltà di nome Ludovico. Era bello, intelligente, cresciuto negli agi, curioso di ogni novità, ricco di mezzi: insomma non gli era stato lesinato nulla, né dalla natura, né dalla famiglia. Rimasto presto orfano aveva trascorso qualche anno in Oriente, sia per poter gestire gli interessi commerciali che il padre gli aveva lasciato, sia per il gusto di visitare paesi lontani e diversi, imparare le lingue, conoscere gli uomini. Compiute queste avventurose esperienze, Ludovico era tornato a Venezia portando con sé stoffe, oggetti, spezie, gioielli, tutto d’immenso valore e soprattutto meraviglioso a vedersi. Nel suo corredo di stranezze orientali spiccava una scimmia dall’intelligenza portentosa. Completamente addomesticata, obbediva in tutto e per tutto al suo padrone, mostrava di capirne gli ordini, soprattutto se venivano espressi in una strana lingua asiatica, e di eseguirli alla perfezione, anche i più difficili. Era insomma un animale a cui – si diceva – „mancava solo la parola“. Chi l’aveva visto, infatti, era disposto a sostenere „che era intelligente quanto un cristiano, se non di più“. Presto in città si diffuse una certa curiosità dì ammirare le prodezze che la scimmia di Ludovico era capace di compiere. Molti si presentavano a casa sua, anche perfetti sconosciuti, solo per vedere la scimmia. Questa attenzione gli valse la conoscenza di persone altolocate che si precipitarono dal giovane gentiluomo e presto una compagnia di amici ricchi prese a frequentare la sua casa, situata poco distante dalla Basilica di San Marco, anzi subito dietro di essa. Il giovane si trovò in tal modo introdotto presso le cerchie più ristrette del potere e del denaro e, curioso com’ era, ne fu oltremodo felice. Anzi per compiacere dì più i suoi nobili amici comprò una livrea verde con i galloni e le corde dorate, la fece indossare alla scimmia e la fece servire in tavola. Favolosi e famosi divennero i suoi banchetti notturni che avvenivano una volta alla settimana nel palazzetto dietro S. Marco.
Gli ospiti venivano fatti accomodare accucciati per terra, a gambe incrociate, tra cuscini di broccato e variopinti tappeti, attorno a una tavola molto bassa tutta in avorio intarsiato, le cui gambe erano lunghe a malapena un piede; questo, si diceva, era l’uso orientale. Tutti, perfino le signore avvolte dalle lunghe gonne a drappeggi e imbustate nei corpetti, acconsentivano volentieri a questa stravaganza, ridendo del nuovo gioco.
Ai commensali venivano serviti piatti esotici dagli aromi forti: cannella, garofano, zenzero, rafano, per non dire di quelli meno noti che pareva provenissero addirittura dall’India e dalla Cina. La cosa più stupefacente era che a servire gli ospiti si presentava proprio la scimmia in livrea, chiamata dal dolce tintinnio di un campanello d’argento posto sulla tavola accanto al padrone. Ludovico con parole incomprensibili le diceva che cosa portare ed ecco l’animale in livrea arrivare poco dopo con il vassoio e servire i commensali, cominciando dal più alto in grado, proseguendo con le signore, concludendo con gli uomini e soprattutto posando delicatamente il cibo nei piatti da sinistra e togliendo i medesimi piatti da destra. Questi banchetti proseguirono con successo per mesi e i personaggi acquattati attorno alla tavola di Ludo-vico divennero sempre più autorevoli, mentre anche la sua carriera prendeva una piega sempre più favorevole, agevolata dagli illustri commensali che, ormai divenuti amici, proponevano al giovane di ricoprire cariche pubbliche, amministrative o politiche. Ludovico mirava in alto, come sempre, e quindi tutto ciò rappresentava il coronamento dei suoi sogni. L’ambizione tuttavia non era in lui frutto di vanagloria, ma scaturiva dalla vivacità del carattere e dall’intelligenza pronta: era ovvio che un gentiluomo così brillante, colto e di bell’aspetto mirasse ad emergere nella città che gli aveva dato i natali. Così le più rosee aspettative di successo -e successo meritato! -stavano per realizzarsi, quasi che tutto fosse favorito dalla presenza della scimmia, alla quale il giovane si affezionò sempre di più. Anche le nobili dame che affollavano la sua casa facevano a gara nel dimostrargli la più grande simpatia e a contenderselo per farsi accompagnare in vanitose passeggiate che terminavano con il listòn in piazza e la cioccolata calda sorbita nei caffè. Ludovico cercava di essere prudente quando, durante i banchetti, furtive o focose occhiate di belle signore si posavano su di lui. Non voleva, infatti, compromettere la propria amicizia con nessuno e accettava gli inviti solo se era sicuro che il marito non se ne sarebbe dispiaciuto. Insomma cercava di frequentare solo donne che avessero mariti vecchi e rugginosi o quelle il cui rapporto coniugale si era stabilizzato su una cordiale indifferenza. In questa maniera le sue relazioni con il gran mondo erano regolate dalla gentilezza e dal buon gusto e di lui per le calli di Venezia si diceva un gran bene.
Una sera di dicembre Ludovico stava in compagnia di ospiti di rango eccelso, convenuti per il banchetto settimanale che si presentava più che mai sontuoso: sedevano, anzi si accoccolavano, alla sua tavola addirittura il doge in tenuta di gala e la dogaressa sua moglie con tutti i ninnoli che era riuscita a indossare. Sua Serenità si era tolto il tricorno, il cappello a tre punte che portava nelle cerimonie, e si era aperto la larga veste dorata foderata dì cremisi per sedersi come un cammelliere alla tavola del suo anfitrione. La dogaressa faceva tintinnare i suoi orpelli quasi ad ogni battito di ciglia e sembrava l’icona di una chiesa greca. Attorno alla serenissima coppia ondeggiavano, malfermi sui cuscini, illustri sederi di senatori provenienti dalle famiglie più nobili: i Diedo, i Loredan, i Sanudo, i Morosini, i Querini, i Tiepolo, tutti con le rispettive, spesso splendide, consorti. Un profluvio di colori decorava la stanza: dall’ oro e cremisi del doge, al rosso del procuratore di San Marco, dai toni pastello dei vestiti in velo e broccato delle signore, all’azzurro dell’abito di Ludovico, fino al verde smagliante della livrea della scimmia che aveva fatto regolarmente la sua comparsa in un tripudio generale. Intanto all’esterno si era scatenato un furioso temporale che faceva aumentare sempre più il livello del mare e dei canali.
„Ci sarà acqua alta stanotte“ commentò la dogaressa, ma l’augusto consorte la rassicurò: non avrebbero corso pericoli, loro. Il popolo certo si sarebbe trovato a mal partito, specialmente nei quartieri „bassi“ – bassi in tutti i sensi, precisò qualcuno – ma, tutto sommato, erano già state date disposizioni per gli eventuali soccorsi. La casa dava su uno stretto canale e si sentiva quasi l’acqua crescere, mentre torrenti di pioggia si rovesciavano dal cielo. Furono portate altre candele per riempirne, i lampadari di vetro a lunghi bracci in modo da illuminare a giorno quella stanza chiusa al resto del mondo, dove sfolgoravano tutti i colori dell’arcobaleno e si diffondevano tutti gli aromi dell’Oriente. Ad un certo punto, mentre spezie e vini stavano predisponendo gli animi alle più dolci conversazioni, si udì un colpo alla porta, poi due, poi tre, poi una gragnuola. Erano colpi forti, decisi, dati forse con il battente di ferro, colpi che chiedevano udienza subito e senza possibilità di replica. „Cosa succede?“ domandò il Procuratore rimettendosi subito il cappello per rientrare nelle proprie funzioni, quasi che quei tonfi volessero richiamarlo all’ordine. „Vado a vedere!“ esclamò Ludovico che si alzò di scatto e uscì dalla stanza dicendo agli ospiti di continuare tranquilli, Scese le scale portando una torcia seguito da due valletti.
Bussavano, anzi martellavano, dalla porta in calle, non da quella sul canale da cui si arrivava in barca: il viandante per fare questo doveva avere l’acqua almeno fina alle ginocchia. Ma nessuno andava in giro a piedi in una notte come quella! Chi poteva essere? Ludovico fece aprire la porta dai suoi domestici e, mentre l’acqua, scavalcando la paratia di protezione, ricadeva a cascata dentro l’androne, vide un uomo di alta statura pararsi davanti a lui. „Entrate, presto!“ disse, non senza un sottile senso di disagio: ma non si poteva lasciare un essere umano fuori con quel tempo. L’uomo scavalcò la paratia e la porta fu subito chiusa. Ludovico lo guardò. Era di un’altezza vertiginosa, che doveva superare i sei piedi, aveva folti capelli neri che gli ricadevano a riccioli sulle spalle e neri erano anche gli occhi, profondi, inquietanti nello sguardo fisso che pareva trapassare l’anima. Nero era anche il mantello e, sotto di questo, l’abito che tuttavia, nonostante il nubifragio che stava abbattendosi ovunque, appariva perfettamente asciutto. Pallidissimo era, invece, il viso di un bianco accecante, uguale al merletto della gorgiera che gli girava attorno al collo. Ludovico ebbe l’impressione di trovarsi di fronte a un eretico, forse un ugonotto o un giansenista, insomma uno di quei fanatici protestanti d’oltralpe che fanno vita austera, non si concedono nulla, pregano sempre, vestono a lutto e cospirano contro il papa. Ma lui era uomo di mondo, aveva viaggiato e superato certi schemi mentali, anzi era disposto a riconoscere molte buone ragioni a questi eretici e non ne avrebbe di certo abbandonato uno sotto l’acqua alta.
„Posso esservi utile, signore?“ chiese compito, da vero gentiluomo che accoglieva chiunque in casa sua.
„Ho sentito parlare della vostra scimmia in livrea e vorrei vederla“ spiegò l’altro venendo subito al sodo.
Sì, aveva un vago accento francese; doveva essere proprio un giansenista.
„Non stasera, ho ospiti. Ma sarò lieto di mostrarvela domani all’ora che vorrete“ rispose Ludovico.
„Domani sarà troppo tardi, signore! Parto stanotte stessa per un paese lontano. Voi che avete viaggiato dovreste capirmi. Sono uno straniero di passaggio e questa è l’ultima occasione“ spiegò, gentile ma determinato, l’uomo gigantesco.
„E sia!“ concluse Ludovico „Venite con me, di sopra. Ma vi prego di non turbare in alcun modo i miei ospiti che sono i maggiorenti della città“.
„Non preoccupatevi. I vostri illustri ospiti non avranno di che lamentarsi“ spiegò lapidario il nuovo venuto. Ludovico fece, strada portando la torcia. L’idea di uno sconosciuto che si invita da solo non lo attraeva, non era proprio il massimo della cortesia, specialmente di fronte al doge e a tutti quei nobili senatori. Decise quindi di presentarlo come un suo vecchio amico di passaggio e così fece di fronte agli ospiti che restarono costernati alla vista di quella figura lugubre, anche se molti ne avvertirono come un inspiegabile fascino. Visto alla luce delle decine di candele che smoccolavano sui lampadari lo straniero apparve di una bellezza ammaliante, languida e severa insieme, ma un paio di occhiate di quegli occhi cupi furono sufficienti a stroncare gli sguardi di ammirazione che si erano levati da parte di molte signore.
„Allora, caro amico, mi fate vedere la vostra scimmia in livrea? Volete proprio farmi partire senza averla vista? La mia nave parte stanotte, lo sapete, e lì dove andrò potrò parlare molto di questa serata“ spiegò lo straniero con voce grave dopo essersi accomodato secondo l’uso della casa.
Ludovico prese il campanello d’argento e lo fece tintinnare nel silenzio generale; da fuori si udivano gli scrosci d’acqua e i tuoni. Subito arrivò la scimmia portando una torta glassata ricoperta di confetti che depose sulla tavola davanti al padrone. Tutti osservarono le prodezze dell’animale, ma nessuno rise o fece commenti. Tuttavia la bestia aveva colto una presenza sgradita e giratasi di scatto ringhiò contro l’ultimo arrivato, mostrandogli i denti con espressione di odio. Allora lo straniero si alzò in tutta la sua altezza, anzi parve levitare fino a ergersi tutto e guardò la scimmia con quegli occhi cupi e fondi. Tra i due si svolse una dura battaglia di sguardi mortali, fino a che un sottile fumo si alzò dalla scimmia che cominciò ad accartocciarsi su se stessa lanciando strida acutissime. La livrea verde scivolò, ormai vuota, sul pavimento, mentre qualcosa di strisciante ondeggiò e un odore nauseabondo si diffuse nella stanza fino a poco prima olezzante di spezie e di rose. Un urlo lacerante tagliò l’aria, nello stesso momento in cui la cosa strisciante si gonfiò prendendo una forma orrenda di pipistrello cornuto, di cui molti scorsero i lunghi denti affilati e arcuati e una lunga coda. La forma diabolica a questo punto si lanciò verso la parete e la sfondò lasciando uno squarcio dagli orli fumiganti e precipitò ululando di rabbia nel canale sottostante. Tutti i presenti rimasero sconvolti di fronte a quel muro sbrecciato. Solo Ludovico si volse con sgomento al suo ospite e gli parve di scorgere qualcosa di colorato attorno ai suoi abiti neri, come se avesse ai lati due enormi ali fatte di piume piccolissime tutte di colore diverso, come gli arcangeli dei mosaici bizantini. Lo sguardo buio, a sua volta, era diventato limpido come un cristallo, attraversato da tutti i colori della luce. Non ci volle molto al giovane a riconoscerlo, anche se non brandiva la spada fiammeggiante. Fu invece il dito indice a essere puntato su di lui, con una raccomandazione: „Attento, Ludovico! E ricordati. Mai più!“, dopo di che lo straniero svanì nell’aria.
Dicono che dopo di allora il giovane Ludovico abbia completamento cambiato vita, smettendo di dilettarsi in cose bizzarre. Qualcuno sostiene che si fece monaco, altri dicono che si sposò e proseguì la sua attività di mercante diventando un agiato padre di famiglia. Si sussurra anche che la livrea verde sia rimasta per molti anni nella sua casa, esposta in una vetrina a muro, a monito per tutti coloro che si trovassero, anche senza volerlo, a frequentare il demonio. L’unica cosa certa è che Ludovico divenne molto religioso e per tutto il resto della sua lunga vita si recò a messa ogni giorno nella vicina Basilica, dove da sempre le ossa dell’Evangelista Marco vegliano sulle sorti della città.
Chi oggi si reca a Venezia e ha in mente questa storia può ancora notare sul muro di una casa dietro San Marco il segno di un vistoso rattoppo e un piccolo ponte sul canale, uno come tanti, che però conserva un nome apparentemente inspiegabile per una costruzione così modesta: „Ponte dell’Angelo“.