Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Quarta edizione – 2001
Valeria Arnaldi
Anche quando mi tiene per mano
18 anni . Bionda, altezza media, indipendente – almeno così mi vedevo allo specchio. Dall’età di tre anni mio padre decideva le mie vacanze. Ogni estate lo stesso viaggio: 15 giorni a Merano, serate chiusi nel residence subito dopo la cena e passeggiate al mattino. Il massimo della vitalità era andare all’ippodromo, scommettere quelle 2-3.000 lire che erano la mia prima e ultima puntata – qualunque ne fosse l’esito. Mio padre adorava quel posto dove aveva trascorso parte della sua adolescenza. Per me era diverso. Erano 15 giorni in cui lasciavo gli amici di Roma, 15 giorni in cui non capivo la gente che parlava per lo più in tedesco, 15 giorni in cui la fiera donna che ormai sentivo di essere tornava una bambina, esclusivamente e irrimediabilmente “figlia”. Mi alzavo la mattina per andare nella pasticceria sotto i portici a prendere i biscotti al miele e spezie. Poi una colazione rapida e via, partenza per Avelengo. Le passeggiate le conoscevamo tutte e, alla fine, facevamo appena in tempo ad arrivare al primo rifugio che mio padre, accanito fumatore, si fermava e con l’appetito pronto decideva di aspettarci davanti ad un tavolo apparecchiato. Il gioco era tutto lì. In quei pranzi e quelle cene che lasciavano stremati tanto erano abbondanti e che riunivano i discorsi ed i pensieri di tutta la famiglia. Pochi secondi dopo ognuno si ritrovava solo, anche allo stesso tavolo. Mio fratello cominciava a cercare con lo sguardo scoiattoli sugli alberi o ranocchiette nello stagno, io sognavo Roma lasciata e gli amori lontani, mia madre ci guardava ed ascoltava crescere, silenziosamente, come gli alberi che ogni anno ci accoglievano più alti. Mio padre scordava la famiglia, il matrimonio, l’età e tornava con la memoria alla gioventù trascorsa. I cavalli – quell’amore che tante volte lo aveva e lo avrebbe sottratto a noi figli – la velocità in corsa e quel gioco che sembrava non finire mai: gli ostacoli, l’erba verde, Volpetto – il primo purosangue – e tante coppe. A volte ci raccontava, a volte invece si chiudeva in un mutismo felice che escludeva tutto il resto e che condannava ad essere appendici sgradevoli della maturità, conseguenze del trascorrere degli anni, come le rughe o i capelli bianchi. Dopo Avelengo si ritornava a casa , già progettando la cena della sera. Sarebbe Schenna, con champignons e carne fritta, spätzle e canederli, o Lagundo con i suoi stinchi e i polli sulla brace? Adesso, col senno dietetico di poi, mi chiedo dove andassero a finire tutti quei grassi, ma forse l’aria, forse la serenità li bruciavano prima che potessero depositarsi sui fianchi e sulle cosce… Chissà… Mio fratello ed io parlavamo poco , salvo che della libertà che sentivamo di non avere. Certo, potevamo andare in giro da soli, già da piccoli, cosa che a Roma non ci era permessa, ma senza gli amici che giri vuoi fare? Un salto in libreria, la prima dopo l’angolo, o a sognare davanti al negozio di giocattoli con tutti quei mobili di legno per la casa delle bambole e la stufa di ceramica per tenersi caldo…Oppure si passava per le Passeggiate, d’estate e d’inverno, lungo il Passirio, alla ricerca delle cascate in cui gettare una moneta per far avverare i desideri, e davanti alla statua di Sissi, a guardare la rosa rossa che ogni mattina, fresca, si trova tra le sue mani. Mio fratello mi tirava via annoiato, ma io sarei rimasta lì le ore, per scoprire il suo segreto. Di quale amore si può essere amate? Quale amore arriva al punto di lasciare eredi che ne continuino la storia? E quella rosa rossa, fosse stato un fantasma innamorato a lasciarla?. C’erano mille domande che avrei voluto fare e che restavano lì, nello spazio della fantasia. Chi avrebbe potuto rispondere? Sarebbe stato come chiedere perché gli gnomi nascondono le pignatte ai piedi dell’arcobaleno, o cosa fa piangere gli angeli quando piove. E perché mio padre non è con me, anche quando mi tiene per mano? Invidiavo quella sua capacità di estraniarsi, di cancellarci. Mio fratello stava male – si vedeva – lui avrebbe voluto un padre presente, complice, amico o anche padrone, come si dice, ma vero. Invece il nostro a Merano diventava l’ombra di qualcosa che non avevamo conosciuto mai. Gli sbocciava sul viso un sorriso che non ci apparteneva, e gli occhi assumevano un colore più vivace, brillante, che era il segno della libertà che andava riacquistando. A prezzo nostro. Ogni anno che perdeva nella memoria era un anno che toglieva a noi e alla sua vita di carcerato da famiglia e matrimonio. I “cavallari” sono così, cercava di spiegarci mia madre, ma non ci bastava. Cosa vuol dire? Vuol dire che non mi vuole, che non mi ama, che avrebbe preferito che io non fossi nata? E se sapessi correre veloce, se saltassi ostacoli , se vincessi delle coppe? I “cavallari ” sono così, tutti una razza… E doveva essere vero perché anche gli amici di mio padre avevano quello sguardo, quella capacità di assentarsi da ogni luogo. Nei pomeriggi di corse ci portava all’ippodromo. Io nascondevo un libro nella tasca, per far passare il tempo tra uno Start e l’altro. Mia madre faceva il doveroso salotto con le altre mogli, e mio fratello girava tra il tondino e le tribune alla ricerca di un perché, o forse solo di un modo per andare via. Mio padre passava dalla sala peso alla sala commissari, sempre in prima linea sui suoi sogni. Accanto a lui, Franco. Il migliore amico, compagno di giochi e di battute a circolo ristretto, anche lui appassionato, anche lui “finalizzato” a quel mondo. Franco giocava anche con noi, perché non eravamo figli suoi ed era divertente perdere qualche minuto con un gelato, una storia, un complimento buffo per “la signorina che stai diventando”. Non ci sembrava neanche più un uomo, era una parte di Merano, un “annessi e connessi”. Come le passeggiate ad Avelengo, il Kaiserschmarrn, le patatine fritte e i wurstel con senape al carretto. Come la stanza del residence dove ogni volta ci faceva trovare un benvenuto diverso – di frutta o cioccolata. Era il nostro gioco, sempre pronto a soddisfare ogni richiesta, per quel gusto narcisistico di potere tutto. Senza limiti agli occhi di un bambino. Ai miei occhi.
Gli anni passavano. Mio fratello non veniva più in vacanza con noi e le mie lamentele si facevano più insistenti. Mia madre era stanca, anche se non lo diceva, di quella ripetitività che era solo uno specchio del suo quotidiano. E tutti seguitavamo a malincuore a recitare la parte che mio padre aveva scritto per noi. Mio padre, l’assente, che di quelle stesse recite poi non si curava. Ci vollero anni perché capisse. Anni in cui crescemmo ed invecchiammo tutti quanti, anni in cui facemmo scelte, o solo seguimmo la corrente. Mio fratello cominciò ad appassionarsi di vela. Gli sembrava un modo per evadere, per essere diverso da “lui”. Io lo guardavo e mi chiedevo quando i suoi figli gli avrebbero detto “basta”, quanto sarebbe mancato loro. Sulla barca lui perdeva la percezione del reale, diventava Tutto, senza i limiti della pelle, fatto di sole e di vento, un orizzonte illimitato davanti. E sulla terra poi, gli veniva il mal di mare. Faceva regate, vinceva e passava tutti i week-end lontano da casa. Ad ogni suo ritorno lo vedevo diverso, e mi chiedevo se quell’assenza di poche ore fosse incolmabile come sembrava. Io continuavo con i miei libri nella tasca, pronti ad ogni occasione, che di vuoti da uccidere ne avevo molti. Mio padre…mio padre era rimasto schiacciato dai suoi sogni. Il suo amico Franco, escluso dall’ippica cui si era consacrato, non aveva retto all’emozione. Un colpo di pistola, senza un annuncio , un segno, un contatto. Chiuso in se stesso e nella sua stanza. E poi uno sparo. Un colpo secco. Bang.: finisce una vita. Bang: non una sola. Ci fermiamo a riflettere. Mio padre invecchia di colpo, perché quegli stessi sogni frustrati gli stanno succhiando la linfa vitale. Non c’è speranza per chi nello specchio cerca ancora una giubba ed un corpo da ragazzo, per chi insegue “Il re del vento “come se invece di un libro per ragazzi fosse la terra promessa. Mia madre lo guarda, impaurita da quella vecchiaia che, come condanna, ci aspetta. Come se per tutti fosse uguale. E si estranea. Anche lei adesso . Nei suoi libri, nelle sue passioni che ha imparato ad avere per contrastare quell’esclusione. Mio fratello disegna vele su fogli di carta con cui fa barchette di pensieri, progettando la prossima partenza. Non c’è realtà al di fuori di noi. Di nessuno di noi. E di Merano non è rimasta traccia. Un colpo di pistola ci ha tolto l’infanzia proprio mentre cercavamo di cancellarne le tracce. Ma gli anni hanno riportato alla luce la malinconia. Così Merano resta la terra al di là delle colonne d’Ercole. Terra di fate a cavallo di purosangue, di gnomi, di folletti e cantastorie. La terra in cui un vecchio torna ragazzo con la forza di tutte le sue speranze ed un ragazzo diventa uomo, con le incertezze che lo fanno fuggire da se stesso. La terra in cui una bambina diventa donna che quel trucco in più sugli occhi non aggiunge granché al suo viso ed una donna giovane scopre la solitudine degli anni che verranno. Merano è la terra del gioco, dei bretzeln in fila sui legni, della feste di birra e di musica alta, suonata da orchestrine per serate danzanti. La terra di mele verdi e rosse, tutte d’ugual misura. La terra magica dell’infanzia, dove si imparano le cose prima che si possano capire, dove si trovano serenità e bellezza quando non le si sa apprezzare. Mio padre si guarda alle spalle e non vede nessuno di noi. Mio fratello ci vede e si volta. Noi donne restiamo da sole a raccontarci storie d’amore. Storie di rose rosse, fresche ogni mattina, e di ragazzi innamorati che cercano di far avverare i sogni gettando in acqua una moneta.
I “cavallari” tutti una razza… guardo me e mio fratello e mi chiedo: che ne resti qualcosa nei geni? Ma queste sono domande che restano nella fantasia . Chi potrebbe rispondere? Sarebbe come chiedere perché gli gnomi nascondono le pignatte ai piedi dell’arcobaleno, o cosa fa piangere gli angeli quando piove. E perché mio padre non è con me, anche quando mi tiene per mano?