Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Quarta edizione – 2001
Ferruccio Masci
Oniro
“A certuni non devi dar la mano, ma soltanto
la zampa ed io voglio che la tua zampa abbia gli artigli”
Così parlò Zarathustra, Friedrich Wilhelm Nietzsche
L’allucinazione è infinitamente più vera
Di come appare la realtà comune”
Antonin Artaud
“Perché tu sei una mia creatura,
ed io mi devo difendere da te”
Riflessioni oniriche
Un battito di palpebre e l’occhio si apre sull’immagine…
Il luogo, a prima vista potrebbe sembrare una stanza di soggiorno, ma solo se riusciamo ad immaginare come avrebbe potuto sognarla un pittore surrealista dell’inizio secolo.
Voglio essere più preciso, un pittore surrealista d’inizio secolo ma mediterraneo.
Sì! Penso che forse uno così avrebbe potuto…forse!
Ma i colori pastello di quel sogno originario si sono ancor più caricati, nel silenzio intimo della visione onirica, di assonanze e rinvii assolutamente impossibili, eppure necessari, inevitabili…potrà apparire retorico il termine, ma non mi soccorre uno diverso, per cui dirò: archetipi.
Le tende, di un vibrante rosso carnoso e cruento, gocciolano lentamente sul pavimento dove le immense piastrelle ottagonali si intervallano con quadri più piccoli che ne ritmano le intersezioni in un andamento musicale settecentesco.
Se ne avverte il calpestio di walzer istericamente chiassosi.
Il colore?
Non mi è facile definirlo: potrei rimanere su un “variazioni di beige”? a.
Ma , ad essere fedele ai miei occhi, meglio farei a dire “antica camomilla grigiastra”, sì, trovo l’espressione più appropriata.
Una credenza, che pare respiri sonnacchiosa, lì, alla sinistra del divano, si solleva ancora più in alto ad ogni istante ed ancora più incerta su quelle zampette sottili, ma è così prossima al soffitto, peraltro inaccessibile al mio sguardo, da confessare immediatamente la propria incongruenza, o più precisamente, l’incongruità di sé in quella forma.
Insomma: ogni cosa è sicuramente altro da ciò che appare, ma perfettamente si colloca nel gioco di luci e riflessi che immillano il luogo in una caleidoscopica teoria di stanze che ricordano l’inspiegabile logica di una matrioska. Ma il divano, il divano, affogato in quell’ocra denso e compatto, invaso dall’inarrestabile fioritura di enormi corolle dai cromatismi instabili…ebbene, il divano appare inquieto.
Lo si direbbe in attesa.
Sì, parrebbe che almeno lui sia consapevole di essere diverso da ciò che potrebbe e forse vorrebbe sembrare.
Oppure è semplicemente in attesa che l’occhio ultimi ed interi la visione, intanto freme dell’incompletezza dell’immagine che lo rappresenta.
Rifletto… lascio fiorisca un pensiero: gli universi non sono paralleli ma coincidenti come diversi spazi possibili nell’unità dell’infinito, è questa la forma dell’idea che potremmo battezzare la simultaneità dell’eterno.
E’ l’estrema inadeguatezza del nostro occhio, i tempi lunghi della nostra percezione che consentono alla visione di ristare fino a divenire presente, così che la ragione reinventi ed ordini tale inganno che chiamerà memoria o sogno o, nei casi più ottusi, allucinazione.
Fragile invenzione di un caduco animale, ti chiamano il presente: un attimo prima ancora non sei e l’istante successivo non sei più.
Un battito di palpebre ti rinvia al tuo nulla.
Un battito di palpebre e l’occhio si apre sull’immagine…
E di nuovo tutto appare com’era, come è sempre stato poiché non potrebbe essere diverso , tutto è come l’occhio ha deciso che fosse o come è stato in grado di vedere…oppure…: ma i contorni divengono spessore e ciò che era materia pare esserne espulsa, l’ocra denso e fiorito scompare inghiottito dagli interstizi del pavimento, al suo posto inquietanti presenze che alcuni chiamano colore, altri corpo, altri ancora fenomeno, ma che, a ben vedere, meglio si direbbero sorrisi.
Che siano il parto ipnagogico di un folle futurista che, una volta reciso il cordone ombelicale che lo legava al proprio egocentrico e dispotico creatore, vive di sé stendendosi al posto della stoffa granulosa del divano, così da partecipare , inatteso , al gioco libero dell’immagine onirica definendo sempre nuovi e mobili assemblaggi di anime e forme?
Ma l’immagine reclama di essere osservata, quasi a dichiararsi più nuova, ancora e sempre diversa: nell’abito scuro da dandy adolescente certo respira un gioioso efebo, ma la sua mano sinistra (mano sinistra?) che pare da sempre posata sulla gonnellina a balze che è ora ben visibile al suo fianco, è mano di uomo (mano? uomo?)
Perché è mano di uomo? Dove i segni virili della fatica?
E le tracce di manipolazioni che hanno impiegato muscoli e tempo?
Dove le ferite dall’azione?
Non mano di uomo perché esprime vita, né per le vene gonfie di desideri e passioni segrete, o tendini tesi al possesso ed a nascondere la brama ad occhi incapaci di amare le assenze, le faticose rinunce, le egoistiche agonie con prede abbandonate.
Forse è aggettivo più adatto: antica, già, si direbbe più antica che non virile.
E’ vero , quella mano ha percorso infinite distanze, secoli e istanti, è mano che sa e per questo è bella del suo silenzio. ”
Quelle dita non intendono spiegarsi, sono la cerimonia del mistero, così lo sguardo le percorre risalendo alla stoffa trafitta di arabeschi che si palesa come gonna ma già parla di sé , sfacciata nell’ostentata pudicizia, e proclama “sono l’abito della prima volta, dell’ultima”
Ma è breve il tragitto che subito l’occhio s’arresta su di una nuova presenza, ancora una mano, la mano di lei, piccola da fare tenerezza, chiara da provocare un profondo turbamento, afferma con orgoglio e malizia la propria verginità.
Ricami appena intravisti gli azzurri itinerari delle vene che s’occultano e si svelano sotto il falso inganno della pelle, forse l’attesa sognata è sincera, ma che importa, è sicuramente vera.
Una vertigine e si accelera la corsa dello sguardo, le forme si abbracciano ai profumi, il respiro che s’è fatto veloce solleva i piccoli seni, già prossimo è il viso a definirsi allo sguardo, ma l’occhio, invaso di linee e pulsare inatteso, si sfianca ed esausto implora l’asilo di palpebre note.
Un battito di palpebre ed è ombra ed è ristoro.
Un battito di palpebre e l’occhio si apre sull’immagine…
Un collo da far rabbrividire la tela e il pittore: troppo sottile, troppo insistente, pressante, capace di .farsi udire nel frastuono tiepido del sangue che percorre la giugulare celebrando la vita.
Quasi timore, che altro?
Altrimenti lo sguardo curioso già si direbbe inerpicato al mento ed alla labbra, già avrebbe sostato sui denti, assaporato l’umido della lingua, il rossore pudico che chiede di essere assaggiato.
Ancora un poco, sollevati ancora un poco, ecco che si incurva il sorriso sul calore del labbro, l’accenno di fremito s’imperla , di certo è respiro, ma l’occhio non coglie che il tremito.
Il viso ha chiamato lo sguardo ad altezze eccessive, oppure….ma certo, la carta alla parete s’è fatta più prossima, che più non sapeva ristare silenziosa sul fondo, ora è a un passo che quasi è possibile udirne il gracchiare antico e polveroso.
E’ sete di vita?
Più triste la risposta: è invidia davanti alla sorpresa per quel miracolo, per il fiorire di guance appena rosate d’attesa.
Occhi bassi? Pudore? Promesse?
Non c’è tempo che già l’occhio risale alle tempie: non poteva che essere ricciuta e rossa l’attesa dei capelli: eccoli, non sono venuti meno alla propria impronunciata promessa.
Ora il momento è pronto ad esplodere nel gesto, e l’esplosione più assoluta è nella negazione dell’atto, nel contenere in sé come in un ventre gravido, l’azione che troppo svelerebbe, fino alla umanizzazione di qualcosa di ulteriore all’uomo.
Senza che i visi alterino del più minuto spostamento, gli sguardi, comunque fissi, pare s’accostino e si intreccino in tortuose sinuosità: timore, attesa, consapevolezza.
E’ profumo di sesso e sangue che gronda dallo sguardo di lui.
E’ attesa di sangue e sesso che palpita nello sguardo di lei.
Ora è possibile ricordare, così che letto in un tempo passato il tabù infranto sia come cicatrice che duole solo al passaggio di polpastrelli distratti, celando sotto la piaga ricomposta tutto il piacere che s’è dovuto tacere.
Forse è troppo anche per un occhio assuefatto al canto della luna.
Un battito di palpebre ed il tempo scompare.
Un battito di palpebre e l’occhio si apre sull’immagine…
Nessuna parola, affinché sia il silenzio poiché la parola non suona che falsa nell’aria così nuova ed il silenzio è l’unica possibilità di parola.
Si ascolta il silenzio mentre questo dona voce ai colori e forma ai profumi.
Non mi resta che lasciare che il luogo divenga la valle dell’eco, così che i pensieri possano iscriversi nel mio misero tentativo di farli prigionieri all’inchiostro:
in nessun altro maschio ho incontrato quegli occhi d’animale, o meglio, quello sguardo era nascosto nello sguardo di ognuno di loro, oh, quegli occhi che ti scavano dentro, che penetrano, rovistano, mettono a nudo, dicevano del suo corpo nel mio, già avevano assaporato in sogno i miei umori più intimi, non mi era possibile negarmi, ma ero a conoscenza dell’antico divieto , sapevo che non mi era concesso di darmi al mio consanguineo, non mi era consentito, ma nemmeno mi era consentito il rifiuto. Il senso di colpa mi attendeva da sempre e non mi restava che raggiungerlo, sono nata per essere la sua preda, ho assaporato il cuore pulsante nella fuga, il terrore della cattura, l’orgasmo delle fauci che affondano nelle viscere, ricordo che urlai, urlai la disperazione e la gioia mentre mi riflettevo nel suo urlo che inghiottiva il mio, un urlo assoluto, definitivo, che udivo per la prima volta riconoscendolo, poi il suo ansare, il suo odore preciso come una lama, i suoi umori tra i miei, non so perché piangevo, forse perché avvertivo la sua mano sul mio piccolo seno, quella mano che non avevo veduto, quella che aveva tenuta nascosta, ora finalmente sapevo.
Lo desideravi anche tu, e tuo è stato il coraggio di darti forte all’olfatto come il mio desiderio di averti.
La mano? è questa che temi?
Ora che hai lasciato che il mondo sapesse anche se solo in cifre, da dietro il tuo sogno spiato da un poeta, ora sarò io a tracciare l’ultima immagine per l’occhio indiscreto.
Ancora un istante e sarà il tempo di svelare il mistero.
Un battito di palpebre e l’aria s’è fermata.
Un battito di palpebre e l’occhio si apre sull’immagine…
la stessa stanza, la medesima carta da parati, ancora l’assurda credenza ed il divano, la stessa folle cartolina compare allo sguardo che pure ha paura.
Risale ai due corpi , immobili, tutto appare immutato, ma la mano di lui, l’altra, quella che prima era forse nascosta da un cuscino o che altro (perché non ricordo?) ora è ferma in un gesto inatteso, s’è arrampicata fin sotto i bottoni dischiusi della leggera camicetta di lei, si inoltra tranquilla fra le stoffe e la carne : si ferma.
Mi è possibile allargare lo sguardo ed osservare per intero i due corpi seduti, lenta la mano si sfila e lui pare ostentarla.
Ecco la ragione di tanta attesa…la mano è una zampa.
La zampa dell’animale che sai, il più forte, il più libero, il primo.
La zampa si allunga verso il mio occhio , l’artiglio si apre a mostrarne il palmo: un palmo senza linee.
Il pugno si richiude, di nuovo si apre ed ora le linee son ben visibili, le riconosco, indietreggio ma solo di un passo, alzo lo sguardo verso di lei, che strano sorriso, e quegli occhi di lago.