Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Quarta edizione – 2001
Secondo premio
Vittorio Cavini
Spina
D’inverno, quando la nebbia vela l’orizzonte, i villaggi turistici sul mare s’ammantano di fascino: stanno a metà fra le città fantasma dell’Ovest americano e i fondali, fantasma anch’essi, dei centri di produzione cinematografica a lavoro finito e abbandonato. Sono file e file di case e casette dall’architettura spaesata: messicana, africana, spagnola. Case che paiono sradicate dal loro ambiente e trasportate a riempire quella che fino a ieri era una plaga deserta lambita dalle onde nere del mare. Case vuote, con le porte sbarrate, le finestre sprangate, i cancelli chiusi. Strade sulle quali non passano pedoni, automobili, biciclette. Solo qualche cane e qualche gatto che hanno imparato a vivere nel vuoto invernale in attesa che, col ritorno del caldo, riappaiano i turisti.
Tutto sembra morto, abbandonato. Eppure è questo il momento di “vivere” questi paesi. Anzi: il momento di vivere con questi paesi, perché essi sono vivi di una esistenza invisibile ma salda, concreta. Respirano, lanciano messaggi, trasmettono emozioni.
Muoiono d’estate, sommersi da folle anonime, confusi fra migliaia e migliaia di villaggi identici sparsi nel mondo. D’estate è impossibile parlare con le case, con le insegne che vorrebbero ricordare il Messico in Romagna o la Spagna in Calabria; è impossibile seguire gli spostamenti cauti dei cani e dei mici, i soli ospiti permanenti di questi posti; è impossibile sedersi all’angolo di due strade vuote per respirare la nebbia e attendere invano il passaggio di qualcuno.
E le cabine che fioriscono sulla spiaggia, dipinte di rosso e di giallo, di blu e di verde, di arancione e di viola, seguono lo stesso destino. Quando il sole brucia, corpi seminudi le opprimono con la loro banalità , con la loro pelle scottata ; d’inverno sono le regine della sabbia, le amazzoni che vegliano sul mare silenzioso e ruggente mentre pochi “mosconi” che paiono dimenticati montano di sentinella.
E onde di sabbia intanto si ammucchiano contro le pareti di legno dalle quali cadono scaglie di colore e qua e là qualche tendone abbandonato pare uscire dalla terra.
Sulla riva, là dove l’acqua accarezza e sconvolge la sabbia, si arenano palle di gomma, giocattoli di plastica rotti, tronchi con rami che a volte paiono figure, pezzi di legno levigati dal continuo rotolare su e giù.
L’ anima dei villaggi, delle cabine, è silente, segreta. Bisogna spiarla da dietro un angolo remoto e allora, forse, ci sarà come un respiro, come un improvviso battito di ciglia difficile da cogliere perché i villaggi sono gelosi, non vogliono intrusi nella loro umida intimità nebbiosa. D’inverno sono posti per scrivere, pensare, restare con se stessi, godendo della sola compagnia delle case vuote.
Si arriva e le stanze sono gelide. Si accende la stufetta elettrica, ma il freddo non passa perché le pareti sono imbevute di mesi d’umidità. Ci vogliono ore e ore prima che il caldo pian piano le penetri. Si va a letto con le lenzuola che paiono bagnate e sembra che gocce d’acqua ti penetrino nelle ossa mentre il fiato si trasforma in nuvole di vapore che svaniscono nell’aria.
Al mattino, col freddo ancora nel corpo, si accende il fornello per mettere a bollire il caffè, ma le tazzine hanno cambiato posto, lo zucchero non si trova, tutto è scomparso. Poi, un poco per volta, la casa si scalda, le cose tornano dove sono sempre state, le lenzuola si asciugano e da fuori è di nuovo facile udire i rumori del vento fra i rami dei pini e del mare lontano.
E’ allora che, a volte, la tua vita si fonde con quella del villaggio. E poco importa che per comprare un po’ di pane si debba salire in macchina e guidare per alcuni chilometri o che il solo bar aperto sia in un paese lontano. Va bene lo stesso, perché a quel punto tu e il villaggio state diventando una cosa sola , vivete in sintonia con la nebbia, con i cani che abbaiano speranzosi di un vecchio osso, con i gatti che miagolano dall’altra parte della strada.
Così è Spina d’inverno, quando i turisti finalmente se ne vanno.
Ma Spina non è un villaggio come tutti gli altri: ha qualcosa in più, ha le “valli”, le paludi di Comacchio nelle quali nuotano le anguille e sulle quali volano gli aironi. Al di là della grande strada che porta a Venezia ed a Ravenna , si stendono le “valli” con le loro acque stagnanti, le canne gialle e verdi, le stradine sterrate che corrono alte sugli argini. E sempre centinaia di uccelli bianchi e neri , grigi e blu: aironi, avocette fagiani, cavalieri d’Italia. E poi, poco più in là, la baracca dove è morta Anita, nascosta fra i pini.
Era terra di etruschi che hanno preceduto romani, barbari, bizantini. Teodorico, signore degli ostrogoti , come tanti altri re, principi e guerrieri, qui ha lasciato le sue ossa.
” Teodorico di Verona dove vai, sacra corona?”
E’ venuto qui, tra queste paludi, queste pinete. E qui è morto.
E’ un villaggio di oggi, Spina, o forse un villaggio senza luogo e senza tempo che vive nel ricordo di un misterioso passato nascosto nell’oscurità di un alfabeto ignoto sepolto nel fango della palude che molto ha lasciato scoprire, ma altrettanto e forse più trattiene immerso nell’acqua solcata dalle anguille.
A Spina vado spesso in dicembre, gennaio o febbraio quando la nebbia nasconde le case e le cupole tonde dei pini, per respirare il villaggio e immergermi nel suo passato e nel suo presente. Ci vado da solo, a volte. Altre con Silvia. E ce ne stiamo lì a far niente o a fare quei lavori inutili che riempiono le giornate senza lasciare tracce.
Silvia fa lunghe passeggiate sulla spiaggia deserta, solo una distesa di sabbia battuta dal vento, coperta di gelo e velata dalla nebbia che sale a ondate come le onde del mare che, col ritmo monotono di un orologio, vengono a scandire l’eterno trascorrere del tempo là dove l’acqua lascia il posto alla terra.
Io me ne sto in casa a leggere Tex o a scrivere. Oppure scatto foto qua e là: cerco i ricordi nascosti del villaggio, angoli di case, muri sbrecciati, cancelli, scritte.
E il ritmo delle ore prende una cadenza nuova: diventa il tempo del villaggio, non il mio o quello di Silvia: se ne va, ritorna, si ferma nella nebbia che copre la spiaggia o sulle pagine di Tex.
Non esistono fatti, o punti fermi, o scadenze: è solo un lento fluire di ore e di minuti scanditi da un sole invisibile e dal ricordo di etruschi, romani, barbari e bizantini.
Solo alcuni gesti rituali danno sostanza concreta alla vita del villaggio: il fuoco sotto la griglia, ad esempio. Se ne sta lì da mesi, la griglia abbandonata, umida per la nebbia che da giorni e giorni l’accarezza. Il fuoco pare non voler accendersi mai. Si accende e si spegne. Si accende di nuovo e di nuovo torna a spegnersi. La carta brucia con una fiammella incerta, ma la fiamma non intacca la legna. La carbonella resta nera.
L’accensione della griglia è un rito, un sacrificio pagano da fare allo spirito del villaggio e allora sempre altra carta pur se i rametti di pino restano umidi. Poi, di colpo, le fiamme passano dall’ultimo foglio d’un giornale dell’estate scorsa ai bacchettini ancora verdi che scoppiettano fumando e la carbonella diventa rossa e dal caminetto esce il calore del fuoco che arroventa il maglione sul petto lasciando la schiena umida e fredda. A quel punto la carne sfrigola sulla gratella, diventa nera, si brucia, ma poco importa: l’antico rito è compiuto.
Basta farlo una volta sola, il primo o il secondo giorno. Dopo non serve più. E’ come dire a Spina: “Ecco, sono arrivato. Quando mi vedrai passare sappi che sono io. Ho acceso il fuoco, ho cotto la carne. Sono io. Tu mi conosci e io ti conosco”.
E’ come una preghiera alla quale non ci si può sottrarre.
Forse è il fuoco che trasmette il messaggio: le fiamme rischiano la nebbia e le loro voci luminose si allargano sul villaggio deserto per dire che sono arrivato.
Da quel momento io e Spina siamo una cosa sola e la sua voce nascosta diventa palese e respira, proprio come torna a respirare il piccolo toro di plastica senza un corno trovato da Silvia nella sabbia là dove la sfiorano le onde. E così anche il grande toro è di nuovo vivo, lontano, dall’altra parte del mare, sui sassi bruciati dal sole dell’isola di Minosse e mille fantasmi vagano nell’aria sciogliendosi in grigie spirali di nebbia.
E allora mi stendo e leggo Tex.