Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Quarta edizione – 2001
Guido Giampietro
La vacanza
Quando, tra il rumore assordante delle turbine ancora in movimento, incominciai a scendere dalla scaletta dell’aereo, mi colpì subito lo schiaffo dello scirocco palermitano. Istintivamente accelerai il passo verso la navetta che, sull’asfalto arroventato del piazzale, appariva e spariva come il miraggio di un’oasi nel deserto. Rincantucciato nel fondo dell’autobus, osservai che tutti stavano precipitosamente attivando i cellulari rimasti solo per un po’ spenti, dando sfogo ad una loquacità forzatamente repressa. Era la conferma di quanto andavo ripetendomi da tempo: che si parla sempre di più con chi è lontano e sempre meno con chi ci sta vicino. Ma poi, che pena vedere persone che, sole in mezzo ad una folla, parlano con altre, anche loro sole in mezzo ad un’altra folla.
Odiavo i telefonini e tutti coloro che, usandoli, ne abusavano. E quando Carla, la mia segretaria, m’implorava d’accettarne uno in regalo “perché, avvocato, così posso rintracciarla quando ci sono casi urgenti”, le rispondevo che fino a dieci anni addietro le urgenze si risolvevano senza il telefonino, con buona pace di tutti.
Una volta nell’aerostazione, controllato l’orario del volo per Pantelleria, mi diressi verso il più vicino apparecchio telefonico . Naturalmente era talmente libero che per un istante temetti che fosse fuori servizio. D’altro canto, perché dovrebbero mantenere in servizio simili pezzi di modernariato dal momento che forse sono rimasto l’unico italiano ad usarli? Funzionava. Dall’altro capo mi rispose la voce rispettosa di Francesco ed in quel rispetto c’era tutto un mondo che non esiste più.
“Arriverò in orario. A presto” gli telegrafai, a conferma della mia avversione per tutto ciò che aveva a che fare con le comunicazioni telefoniche.
Conoscevo Francesco da una quindicina d’anni e gli volevo bene come se ne può volere ad un padre. E’ un uomo dalle mani d’oro ma, soprattutto, fornito di tanto buon senso che non gli deriva dai capelli bianchi ma da una saggezza dalle origini più complesse. E quando hai la fortuna d’incontrare una persona di tale fatta, ti è stato fatto un dono, un grande dono. E poi è grazie a lui che avevo conosciuto Claudia, pediatra a Milano, oltre che proprietaria di un dammuso che ormai da alcuni anni mi ospitava con monotona regolarità ogni seconda quindicina del mese di giugno.
Lo sbirciai tra una folla ondeggiante come una gelatina appena preparata. E come fare a non distinguere in quella massa disordinatamente colorata uno che indossava dei pantaloni blu da operaio, una camicia a righe con maniche lunghe rimboccate sull’avambraccio ed un basco anch’esso blu ? L’avevo ormai raggiunto, quando tra noi due s’infilò di prepotenza una donna che correva sbracciando verso qualcuno o qualcosa. L’urto, violento, fu inevitabile.
Pardon, disse la colpevole prima di abbandonarsi tra le braccia dell’amica. In mezzo a quel frastuono infernale, quella voce mi arrivò senza interferenze, come uscita da un apparecchio digitale.
“Chi è quel ciclone? Una straniera?” – chiesi a Francesco che finalmente avevo raggiunto ed abbracciato a mia volta.
” Mai vista. La bruna è di qui” – rispose laconicamente lui dirigendosi verso la zona destinata al ritiro dei bagagli.
Arrancai nel seguirlo, concentrando tutta la mia attenzione sul nastro che stancamente aveva preso a muoversi cigolando in maniera lamentevole. Di lì ad un po’ riconobbi il mio borsone coricato sopra un valigione rosso e tra spinte ed urla, mi preparai all’arrembaggio. Qualcuno però fu più lesto di me e tirando via con violenza quella valigia rossa provocò la fuoriuscita dai rulli del mio bagaglio che, a quel punto, mi rovinò addosso. Al mio gemito seguì, coprendolo , un altro squillante pardon. Ed alle stelle che in quel momento stavo vedendo, se ne aggiunse un’altra: il volto solare della donna di prima. Francesco che, non appena mettevo piede sull’isola, aveva l’abitudine di licenziare subito il mio angelo custode sostituendosi in tutto per tutto a lui, vista la piega che stavano prendendo le cose, afferrati contestualmente me ed il borsone, ci trascinò fuori da quel caos.
Percorrevamo in auto la perimetrale dell’isola ed il mio sguardo si spostava alternativamente dalla nera roccia del litorale, alle cupolette bianche dei dammusi, alla fitta macchia mediterranea. In un punto della costa in cui il colore del mare degradò dal blu al turchese e poi, sempre più sfumando, divenne prezioso smeraldo, mi lasciai sfuggire un piccolo grido. Era esattamente quella tonalità di colore degli occhi della straniera. Francesco rimase impassibile, ma la sua mal dissimulata contrarietà si manifestò con uno scalamento di marce che quel tratto pianeggiante di strada non richiedeva. Subito dopo, abbandonata la perimetrale, prese per Kamma e , dopo due chilometri, voltò a destra per la contrada “Favarotta”.
“Perché Favarotta, se non ci sono coltivazioni di fave ne qui ne altrove?” – gli chiesi pensando di essere spiritoso e di stabilire così uno straccio di conversazione.
“Siamo arrivati; ecco ora potrete riposarvi” – eluse Francesco che nella sua vita non aveva avuto molte occasioni per dedicarsi alla pratica dell’ironia.
L’abitazione, con un nucleo centrale costituito da un vecchio dammuso accuratamente ristrutturato ed una parte nuova anch’essa in linea con l’architettura locale, si trovava in una zona accessibile solamente da un viottolo difficilmente individuabile. Tutt’intorno un’esplosione di colori e profumi: fughe di oleandri rosa si alternavano a macchie di buganvillea lilla e rosso scarlatto. E, naturalmente, il verde argentato degli ulivi bassissimi e quello più vivo della vigna semi nascosta nelle fosse antivento del terreno.
“Qui – indicò Francesco – ci sono i pomodori, le zucchine, il finocchietto selvatico, le melanzane ed i peperoni che ho raccolto questa mattina; il basilico, la menta e la citronella li trovate lì, mentre la frutta è in quel cesto”. Poi, un po’ titubante aggiunse: ” Ma avvocato, siete ancora convinto di mangiare qui, tutto da solo? Perché ho detto a mia moglie…”
“Francesco – lo interruppi – va benissimo così, dì a Rosaria che tra qualche giorno verrò da voi per gustare i ravioli”.
Quando rimasi solo, corsi a vedere la “mia” pianta di cappero incastonata in un vecchio muretto a secco e, come sempre, rimasi per non so quanto tempo rapito dalla visione di quei delicati fiori lilla che, nati dai capperi, gridavano al vento la loro gioia di vivere. Anche se per un solo giorno. Poi mi colpì il silenzio del posto rotto solo dalle cantilene della cicale e dallo stormire del vento.
Entrai un momento in casa per prepararmi una tisana di citronella, l’unica cosa al mondo che riusciva a rilassarmi completamente. Pensai che dovevo farmi indicare da Francesco l’angolo dove cresceva perché io, in mezzo ad un milione di profumi, non riuscivo mai a rintracciarla. Dopo, con la mia pozione di citronella, tornai fuori a guardare quel cielo trasparente. C’erano delle bianche nuvole che s’inseguivano velocemente lasciando ampi spazi d’azzurro in cui s’affacciava un sole ancora caldo anche se ormai prossimo al tramonto. Fissai le nuvole e ne rimasi incantato. Toh, mi dissi, quella è la faccia sputata del giudice Aliquò. Stesso mento sfuggente , stesso occhialino scivolato sul naso, stessa capigliatura alla Einstein. Impressionante. Poi Aliquò sparì sospinto dal vento e venne a trovarmi la signora Adele, con la sua impeccabile permanente ed il naso a patatina. La portiera più discreta del mondo, oltre che ottima pasticcera a giudicare dalle mille leccornie che mi faceva assaggiare “perché, avvocato, la vedo sempre più sciupato e poi, fare le torte per lei è come farle per il mio figliolo che è tanto lontano da qui”.
E la carrellata di personaggi continuò ancora per un po’. Sembrava che tutta la città mi avesse seguito fin lì, a mia insaputa. Poi scorsi un volto a cui non riuscii subito a dare un nome. Aveva corti capelli riccioluti, occhi grandi di bambina ed un sorriso pieno di gioia. Dovevo far presto perché tra pochi istanti quel volto sarebbe sparito dietro la collinetta. Chiusi gli occhi e l’immagine combaciò esattamente con quella della straniera vista poco prima. Ma certo. Come avevo fatto a non arrivarci subito? Era proprio lei. Bastava colorare i capelli di un biondo oro e stendere su quelle labbra un bel rosso acceso e …insomma bastava restituirle i colori per vederla in tutta la sua bellezza. Perché poteva essere maldestra ed invadente, ma bella era bella. Avrei voluto fermare il vento, avrei chiesto alle altre nuvole di rallentare la loro corsa, avrei voluto volare fin lassù e invece… Invece mi ritrovai a rimirare il volto dell’usciere Pasquale Santaniello di Torre Annunziata. Ormai l’incantesimo era rotto. Mi alzai , andai in cucina a prepararmi una profumatissima insalata pantesca, sbocconcellai due albicocche ancora calde di sole e decisi di chiudere con un po’ d’anticipo quella mia prima giornata di vacanza.
Per i successivi due giorni rimasi in casa. Raccolsi altri pomodori con i quali preparavo una salsina che poi spalmavo su fette di pane abbrustolito. Bevevo il bianco dell’isola e mangiavo frutta a volontà cogliendola direttamente dagli alberelli. E leggevo. Al terzo giorno ruppe il silenzio di quell’incanto la telefonata, preoccupata, di Francesco.
“Avvocato, state bene?”
“Avvocato, mi avete fatto prendere uno spavento…Comunque volevo dirvi che domani Rosaria fa i ravioli. Se volete onorarci…”
“Giusto i ravioli di tua moglie mi possono indurre a lasciare questo eremo. Sarò da voi per l’ora di pranzo”.
“Grazie , avvocato…allora, a domani”.
Per Francesco ero l’avvocato e basta. Per anni avevo cercato di farmi chiamare per nome e farmi dare del tu, ma poi avevo finito per rinunciarvi. Con la moglie succedeva invece il contrario: io a darle del voi e lei a chiamarmi per nome considerandomi a tutti gli effetti come il suo quarto figlio.
Per Francesco ero l’avvocato e basta. Per anni avevo cercato di farmi chiamare per nome e farmi dare del tu, ma poi avevo finito per rinunciarvi. Con la moglie succedeva invece il contrario: io a darle del voi e lei a chiamarmi per nome considerandomi a tutti gli effetti come il suo quarto figlio.
Il desiderio di fare due passi in paese c’era comunque. Andai per primo a trovare il mio amico in un Municipio che diventava, anno dopo anno, sempre meno sgangherato. Dopo gli abbracci ed i reciproci scambi d’informazioni, il dono dell’ultimo volume sull’isola. Mi congedai promettendo che sarei andato a cena da lui, ma sapevo che così non sarebbe stato E anche lui sapeva che ci saremmo rivisti l’anno dopo.
Lasciai l’aria condizionata del suo ufficio per quella frizzante e profumata del molo che percorsi tutto, da un capo all’altro, fermandomi ogni tanto per ammirare le colorate barche dei pescatori o per controllare la trasparenza dell’acqua che lasciava vedere nitidamente i ciottoli del fondale. Lungo il percorso incontrai tanti amici e di altri chiesi notizie. Poi, dopo aver dato un’occhiata all’orologio, mi diressi verso un market per comprare qualcosa da portare a casa di Francesco.
Optai per una torta gelato. Pagai e, facendomi largo tra la folla, mi diressi verso l’uscita. Lì per lì non mi resi subito conto di che cosa avesse potuto travolgermi, ma certo doveva essersi trattato di un colpo violento se, in un attimo, persi il contatto con la torta.
Mi rincresce…Anche se tutto è contro di me, le giuro che non ce l’ho con lei…” Era lei , la straniera. Anzi adesso scoprivo che non era nemmeno una perfida albionica e glielo dissi. Rise di cuore ed io con lei.
” Mirella – disse l’onnipresente amica – andiamo via perché siamo in ritardo”
E lei candidamente, a me: “C’è niente di rotto? Posso fare qualcosa?
Certo che avrebbe potuto fare qualcosa, ma dovevo parlarle. Ed invece l’altra la strappò via. E mentre si allontanava, magari per andare a franare, di lì a poco, su qualche altro malcapitato, riuscii a vedere ciò che a quel viso si associava. Un corpo delizioso, dalle giuste misure e dai giusti volumi. Una gonna svasata e molto colorata fermata in vita da una cintura verde, una maglietta maliziosamente aderente…In un niente sparì, inghiottita da un vico del borgo vecchio.
Dei ravioli riuscii ad apprezzare solo il sapore, superbo, essendo la loro vista nascosta dal volto di questa Mirella. Che era anche nel bicchiere e sulla parete di fronte. Ovunque. La cosa cominciava a diventare imbarazzante anche perché mi trovavo sull’isola per riposo e non in cerca d’avventure che, in questo momento della mia vita, erano l’ultima cosa che avevo in mente.
Ma poi, quello che ci appare in un posto così bello è veramente bello? Voglio dire: è troppo facile incontrarsi e piacersi a Pantelleria o a Capri o alle Maldive, sotto il sole d’estate. Ed invece, per essere sicuri della validità di un innamoramento bisognerebbe trovarsi in un luogo brutto, il più brutto possibile. Così – pensavo – se incontrassi questa donna in un cunicolo di fogna ed alla fioca luce di una torcia il suo volto mi apparisse bello come lo vedo ora, allora sì che potrei scomodare per lei gli aggettivi più belli e le citazioni più autorevoli. Ma, senza la fogna tutto doveva essere ridimensionato. E quel ragionamento dovette funzionare dal momento che nel piatto tornai a vedere i ravioli. Più esattamente, l’ultimo rimasto.
Nei giorni a seguire, nella quiete della Favarotta, completai la lettura di un libro che avevo lasciato a metà, per poi abbandonarmi ad un riposo forzato ma necessario.
Francesco si presentò puntualissimo, prese il borsone e , borbottando, lo caricò sull’auto.
Qualcosa non va?” gli chiesi mentre mi sistemavo accanto a lui.
“Mia moglie è dispiaciuta perché non siete venuto ad assaggiare il suo cuscus . E poi dovevamo fare l’uscita in barca; l’avevate promesso…”
Conoscevo Francesco e non erano certamente quelli i veri motivi del suo magone.
Mentii spudoratamente quando, nel salutarlo, gli gridai: “Prima o poi ti farò una sorpresa, vedrai”. Lui girò i tacchi senza aspettare che salissi sulla scaletta dell’aereo. In realtà faceva sempre così. Odiava i saluti. Dopo qualche minuto ero in volo per Palermo e l’isola era ormai un piccolo punto verde nell’azzurro di un mare graffiato dalle creste delle onde. In un’aerostazione affollata fino all’inverosimile incominciai a vagare in attesa del volo che mi avrebbe riportato a casa. Qualcosa mi sfrecciò davanti creandomi una piacevole sensazione di fresco. Poi, la stessa scena mi si ripropose al rallentatore. Vidi un giovane di colore, che mi passava davanti lentissimamente tenendo stretta nella sinistra la tracolla di una borsetta ondeggiante al vento. E vidi che la folla tutt’intorno si apriva a ventaglio come a volergli agevolare la corsa. Insomma, una classica fuga da scippo. Girai istintivamente il capo e dalla parte opposta vidi lei, Mirella, che si sbracciava e gridava. Mi parve del tutto normale che tra mille persone quella coinvolta dovesse essere proprio lei. Avevo tutto il tempo di pensare al da farsi dal momento che la scena continuava al rallentatore ed il ladruncolo non aveva fatto che pochi decimetri di fuga. Dovevo intervenire? Nessuno tutt’intorno si muoveva e perché avrei dovuto farlo io? Guardai di nuovo dalla parte di lei. La vidi piangere di rabbia e mi parve ancora più bella. Presi la rincorsa, feci due lunghi passi , poi la battuta con il sinistro e spiccai il volo per un salto triplo a cui il mio fisico non era più abituato. Inquadrai nel mirino lo scippatore e preparai le braccia per la presa.
Ebbi l’impressione che queste avessero raddoppiato la loro originaria lunghezza. Mi concentrai sul placcaggio. Nel frattempo l’effetto rallentatore era terminato e le due scarpate che mi colpirono, rispettivamente, al mento ed al naso avvennero quindi a velocità normale. L’avevo bloccato o almeno così credevo fino a quando il giovanotto, continuando a scalciare, si divincolò riprendendo la corsa per poi cadere definitivamente tra le braccia di due poliziotti. La folla plaudiva, ma nessuno che pensasse a me che ero rimasto a terra con la borsetta stretta nelle mani. Fu un terzo poliziotto quello che mi aiutò a rialzarmi. Subito dopo sopraggiunse lei e fu la prima volta che non la vidi sorridere. Mi parlò con i suoi grandi occhi e fu un discorso lungo fatto di ringraziamenti, di ammirazione, di paura. Ma non pronunciò una sola parola. Seguimmo il nostro uomo verso il posto di polizia. Mirella si era attaccata al mio braccio facendosi trascinare come un peso morto. Ci accolse un loquacissimo ispettore che per prima cosa si congratulò con me stritolandomi l’unica mano buona rimastami. “Signora – disse poi a Mirella – lei è fortunata ad avere un marito così coraggioso e fa bene a tenerselo ben stretto. Fa benissimo”. Anch’io – disse invece a me – avrei fatto la stessa cosa per la mia signora…ma la prossima volta sia più cauto. Lo sa che il giovanotto aveva un bel coltello in tasca?” Rimasi impietrito. Mirella, dal canto suo, mi strinse ancor più il braccio aggiungendo dolore a dolore. Per il resto furono quindici minuti di ordinaria burocrazia: generalità, descrizione degli eventi ed altre noiosità del genere. Il tremore di Mirella si era nel frattempo attenuato e lasciò un attimo il mio braccio per pulirmi con un fazzolettino mento e naso. “Avvocato – tagliò corto l’ispettore – non voglio rubare altro tempo alla vostra vacanza, ma capirà, ho bisogno che mi diciate dove siete diretti perché è probabile che il magistrato abbia bisogno di voi…”
Guardai Mirella e lei guardò me. “A Pantelleria” – urlammo all’unisono ed il diligente funzionario ne prese nota, aggiungendo: “In quale albergo?” “Contrada Favarotta – risposi sicuro – senza via e numero civico: sono conosciuto”. Nel congedarmi evitai accuratamente di dargli la mano ed invece presa quella di Mirella, mi precipitai a fare due biglietti per Pantelleria. Il volo era già stato chiamato ed il velivolo era lo stesso con cui, entrambi, senza accorgercene, eravamo arrivati lì. Senza scambiarci una parola, corremmo verso il piccolo aereo che, con i motori accesi, aspettava solo noi.
Due minuti dopo eravamo in volo. Guardai l’azzurro del cielo e poi il verde degli occhi di lei e conclusi che per questa vacanza non avevo bisogno d’altro.