Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Quarta edizione – 2001
Giorgio Gazzolo
Veni creator spiritus
…potrebbe l’antichissimo peccato di sodomia consumarsi in completa leggerezza? Tanto lievemente da non essere un episodio del corpo, ma piuttosto un evento dell’anima? In maniera tanto delicata da non esser quasi più nemmeno peccato?
Così scriveva sulle pagine di un quaderno con la copertina nera una elegante penna Aurora, stilografica d’oro tipico oggetto regalo di quegli anni. Una mano volitiva la impugnava, ma il tratto era indeciso, così come il pensiero che si faceva strada in modo tortuoso nell’animo dello scrivente. Un ragionamento da esaltare e da nascondere, di cui avrebbe potuto nutrirsi o pentirsi; ma era anche possibile mantenere tutto ai margini, come un desiderio che affiora nell’animo e tende, ma solo un poco, le fibre del corpo… Un salire e scendere…
“La nostra povera carne malata…”. Così aveva scritto anni prima, alludendo chiaramente a se stesso, e distillando le sillabe su una elegante carta da lettere. Frasi come viticci, aggrappate a stento, perse nella loro sottile eleganza. Molto ripensate, cancellate, riscritte in una trama confusa. Destinataria una attrice, bella e famosa, con la quale si era incontrato sul set di un film in lavorazione.
Quella posizione, semisdraiato su una poltrona relax di pelle bianco avorio, rendeva un poco difficile lo scrivere, ma certo più liquido e facile il pensiero. Anche il pennino d’oro della pregiata stilografica sembrava di tanto in tanto incepparsi. Singhiozzava il fluire di idee che la mano trascriveva su quella specie di diario segreto.
In quello studio avrebbe desiderato un organo Hammond. Lo avrebbe suonato lui stesso, nei momenti di riposo, e ne avrebbe apprezzato il timbro languido e struggente. Le sue capacità musicali erano limitate: ma poteva suonare piccoli pezzi di Vento o di Caccini. Non avrebbe mai affrontato Bach o Haendel, nemmeno nelle versioni facilitate. In Chiesa, durante la Messa, preferiva parlare al microfono oppure suonare, accompagnando all’antico organo i canti tradizionali, in latino. Sapeva di essere una figura di grande fascino: alto, capelli grigi e folti, una voce decisa e suggestiva.
Quella Adele era una vedova, proprietaria dell’antico palazzo che da alcuni mesi ospitava lo studio, l’emeroteca e una piccola sala conferenze, ancora da approntare. Lei viveva sola e un poco sfiorita nell’appartamento accanto, dove lui non sarebbe entrato mai.
Avvicinò le labbra al bordo sottilissimo della tazzina: il caffè gli avrebbe dolcemente sferzato le cellule del cervello. Forse avrebbe potuto pubblicare o esporre in una conferenza quei suoi pensieri sull’amore, sulla impossibilità di comunicare per le vie della sola carne… ma intanto si deliziava a scriverne, ad aggirare i rilievi più impervi del pensiero, luoghi dove passare era difficile e necessariamente occorreva lottare, districare la mente in un labirinto, sperdersi fra mille possibilità, illuminare l’intelletto… In questo suo fervore, quando realmente si accendeva, non poteva evitare di sentire nel suo cervello risuonare le note del “Veni creator Spiritus”. Ecco cosa lo affascinava del cattolicesimo: la forza elementare, l’ampiezza di un potere che si allargava ovunque, nelle anime come nelle architetture, nella tradizione come nelle prospettive, nel passato come nel futuro. Una energia universale che sapeva, ormai da millenni, prendere una forma necessaria e vasta, come le note semplici e poderose di quel canto ineguagliabile.
Per arrivare dove era arrivato, Marco Antonelli aveva percorso una strada non facile: la sua famiglia lo voleva prete e lui prete divenne, ma non uno come gli altri. Anche fisicamente si sentiva in alto, sopra la media. Vincere la mediocrità fu sempre il suo punto d’onore, la meta da raggiungere. Educare. Vivere accanto agli adolescenti, respirare il profumo di quelle anime in evoluzione, condurli verso le più alte vette: oltre la comune vicenda del vivere in modo banale. E fra di loro imparare a distinguere le anime superiori, gli eletti. L’esperienza di educatore gli suggerì presto che le vere anime belle, le autentiche ricchezze spirituali, gli sguardi magari sfuggenti, ma certo pieni di mistero e di promesse, sono quelli dei ragazzi che provengono da famiglie non avvezze al comando, non aristocratiche e non eccessivamente ricche. Il biondo e silenzioso Michele S., ecco… sì, lui poteva essere uno di questi, anche se sfuggente e timido. Frequentava il penultimo anno di liceo e da oltre sei anni prendeva lezioni di pianoforte. Gli aveva chiesto se sarebbe stato in grado di trascrivere per quattro mani il pezzo per l’Elevazione, di Francesco Feroci. Mentre Michele abbassava la testa sullo spartito lui aveva aspirato l’odore dei suoi capelli. I capelli hanno un loro magnifico profumo, ma solo in certi ragazzi un po’ diafani, piuttosto magri. Michele era così, e dopo aver letto e mormorato le prime note, come se si fosse trattato di una preghiera, aveva risposto con poca voce: “Ci si potrebbe riuscire.” Ecco che tipo era! Uno da incoraggiare, e così padre Antonelli dispiegò il suo accento più vibrante: “Tu, tu sarai quello che riuscirà! Ricordati! Niente forma impersonale, tu sei tutto, tu sei il centro, tutto è in te e solo in te dovrai cercare per trovare la strada che ti porterà lontano! Mi hai capito?” Mentre così parlava la bella mano stringeva e agitava l’album delle musiche per la Messa. E Michele rispose di sì, certamente attratto da quel calore improvviso.
Padre Antonelli si rendeva conto di conoscere troppo poco di quel ragazzo; forse per il fatto che lui stesso, pur mantenendo la sua posizione di prestigio come se parlasse da un pulpito d’oro, quando iniziava l’atteso colloquio con Michele si perdeva in osservazioni stanche e snervate: lo guardava come si guarda un mazzo di fiori, una farfalla; considerava come batteva le ciglia, come teneva le mani magre o come accavallava le gambe.
Una domenica, non durante la Messa, riuscì a suonare quell’adagio con il suo giovane musicista. Erano saliti assieme lungo la scaletta che conduceva alla cantoria, nel buio, fra gli scricchiolii del legno antico. Avevano aperto il coperchio delle tastiere del nobile organo settecentesco e si erano seduti uno accanto all’altro, sulla panca, evitando di toccare la pedaliera che nessuno dei due sapeva usare. Il sacerdote volle impostare i registri dell’organo secondo una sua idea, mentre Michele credeva meglio seguire le indicazioni segnate sullo spartito. A metà del pezzo però il sacerdote, distratto, aveva perso il segno e il ragazzo, non senza avergli rivolto un sorriso, aveva preso nelle sue dita magre tutte le voci musicali che lui stesso aveva divise per quattro mani, finendo di suonare quel brano mistico e perfino permettendosi qualche libertà, qualche abbellimento di troppo.
Poi erano rimasti lassù, vicino allo strumento muto a parlare un poco e Michele rispondeva senza alzarsi dalla panca, come se volesse suonare ancora, mentre lui si era appoggiato alla balaustra e osservava, così dall’alto, la navata della chiesa deserta.
Michele cercava di vestirsi sempre con una giacca quando prevedeva di essere chiamato nella saletta riservata ai colloqui col padre spirituale. A casa sua i genitori consideravano un privilegio che il ragazzo potesse frequentare una scuola che era ritenuta la migliore, retta dai Gesuiti, superiori per importanza e capacità agli Scolopi o ai Somaschi. Michele non riusciva bene negli studi: il greco rimaneva per lui un ostacolo insormontabile e non bastasse la timidezza lo impacciava nelle interrogazioni. Con padre Antonelli, grazie al suo interessamento particolarmente intenso, Michele riusciva ad esprimersi un po’ meglio.
“Tu sarai padre nella carne e io lo sono nello spirito”. Michele fu quasi felice di quelle parole, ma meno per quello che il padre gli chiese dopo, in quel pomeriggio caldo e piovoso. La domanda del sacerdote era piuttosto imbarazzante e lui rispose solamente un esitante “Sì”. Gli era parso un argomento da confessionale, e ancor più quando il padre, sorridendo, gli chiese: “E da quanto tempo?” Michele rispose: “Da due anni.” Da due anni conosceva Laura, da poco tempo si erano baciati, sulla bocca, e lui le aveva regalato un piccolo bracciale di ottone dove aveva fatto incidere il bellissimo nome “Laura”.
“Ah, devi lasciarla!”
Così, con il suo solito impeto spirituale, rispose il sacerdote. Sembrava molto deciso e non aveva smesso quel sorriso incoraggiante. Un sorriso che significava molto. Non si trattava di peccato veniale o mortale, no; lui era diverso dagli altri, più nobile, più in alto. Con lui la dimensione dell’argomento si innalzava. Vestiva la lunga tonaca nera e teneva le mani in grembo, sollevandole solo quando voleva rafforzare con un gesto solenne la forza di una sua idea: “Pensa, sei con lei da quando avevi sedici anni; ma lo sai come finisce? che con lei ti dovrai sposare!” Sembrava meno rapito adesso, quasi scherzoso: “Ah no! tu devi essere libero, conoscere la vita, il mondo… la strada che stai percorrendo si chiude, amico mio, invece tu devi correre lontano e libero. Mi hai capito?”
Michele aveva solo ricevuto una confusa somma di emozioni; una serie poco chiara di ondate trepidanti nelle quali aveva navigato per tutto il tempo in cui era rimasto in quella stanza riservata ai colloqui col padre spirituale. Una camera un po’ buia dove si diffondeva un odore di burro sul punto di decomporsi. Padre Antonelli si faceva trovare seduto su un divanetto scomodo, sorrideva immediatamente e invitava con un cenno della mano a sedersi accanto a lui. La scrivania era piccola e piena di carte; un crocifisso alla parete, ma del tutto identico a quelli che si vedevano in ogni locale della scuola.
L’idea di un breve seminario musicale gli passò per la mente in una notte di insonnia. Poi, il giorno dopo, preso da mille impegni, non ci pensò più. Dopo tre giorni rifletté che poteva essere una buona cosa. Avrebbe invitato alcuni giovani studenti in un piccolo convento dove abitualmente si svolgevano gli esercizi spirituali, e lui li avrebbe seguiti in questo percorso mistico e allegro insieme. Ma qualcosa lo tratteneva, benché i francescani del convento gli fossero amici. Non poche altre circostanze esistevano tali da favorire in tutto l’iniziativa: la primavera non poteva essere più tiepida, il posto non era lontano e nella piccola cappella del convento c’era un armonium a pedali in buone condizioni. Passarono ancora due settimane, finì l’estate, venne l’inverno: uno strano inverno mite, umido e grigio che pareva volesse risparmiare a tutti i rigori del gelo e le sferzate del vento. Fu giusto in novembre che padre Marco Antonelli iniziò ad avvertire i primi segni di una sindrome strana, un complesso di sintomi e sensazioni difficili da catalogare, impossibili da unificare in un quadro di malattia corporale o infermità dell’anima che fosse nota e descritta.
Apparentemente tutto era come prima, anzi, la salute fisica non sembrava in gioco, nulla almeno di insolito era apparso nel suo corpo; conduceva la consueta esistenza relativamente sobria, a parte qualche bicchiere di buon vino ogni sera. Malessere no, depressione nemmeno. Forse quello che potrebbe esser definito un leggero calo del senso vitale, una intima debolezza che comunque non riusciva ad intaccare la forza spirituale di quel sacerdote ancora indomabile. Le sue prediche erano vibranti ed eleganti come sempre. Le sue osservazioni apparivano acute e centrate grazie all’energia con cui venivano espresse. La sua fama di pastore di anime si era diffusa forse anche oltre l’ambito della città.
Michele si presentava ai colloqui col sacerdote sempre in quel suo atteggiamento sottomesso, pronto ad ascoltare tutto quello che gli veniva suggerito.
Laura non era più la sua ragazza. Lei gli aveva restituito il braccialetto di ottone. Era successo di mattina, con molta semplicità: “No, puoi tenerlo…” Ma Laura aveva insistito perché lo riprendesse, visto che non era più la sua ragazza. Quell’abbandono era stato naturale, avvenuto così, alla fine dell’estate, dopo che Michele ebbe partecipato al seminario musicale, in campagna, in un convento piccolo e bianco. Più che un seminario fu una breve vacanza, soli, lui e padre Antonelli: passeggiate lungo sentieri solitari, refezioni assieme ai francescani, un poco di musica all’armonium che aveva un registro di dulciana particolarmente espressivo.
Non sentiva la mancanza di quella Laura. Si vedevano ancora e lui la salutava cortesemente, ma niente di più. Michele aveva gettato in mare quel braccialetto durante una passeggiata da solo: era arrivato in un punto molto in alto, una piccola strada fra le scogliere. In basso si vedeva l’onda arrivare negli anfratti e rumoreggiare rompendosi in bianca schiuma. Il braccialetto era volato giù e Michele aveva cercato di seguirlo con lo sguardo mentre rimbalzava sulle rocce.
Poche settimane prima di Natale padre Antonelli fu sul punto di farsi visitare da un medico. Ma, ragionando, si chiedeva cosa mai gli avrebbe raccontato; non avrebbe saputo come cominciare. Il fatto è che il malessere continuava: no, così non poteva andare avanti. Occorreva chiarire, capire, individuare la radice di quello stordimento. La sua stessa carriera – lo capiva benissimo – poteva essere rallentata da quello stato di incertezza, di vuoto.
Un giorno (la stanza dei colloqui era più buia del solito) Michele gli confessò con noncuranza che si era lasciato con Laura.
“Hai fatto benissimo…” rispose subito il sacerdote, e gli venne istintivo stringergli le due mani. Era la prima volta che lo toccava, che lo stringeva con quella intensità. E tenne per più di un istante quelle mani magre e sottili nelle sue, avide e forti. Ma non appena Michele se ne fu andato, padre Antonelli provò più intensamente quel senso di nulla, di vuoto, di spazio annientato; il malessere stava prendendo una sua forma speciale, un poco meglio definibile: si trattava di una assenza.
A digiuno, dovendo celebrare la Messa, padre Antonelli stava scendendo la scala di marmo che conduceva alla cappella della scuola. Nessuno studente, visto che era la vigilia di Natale. Prima di salire all’altare lanciò uno sguardo alla navata: nelle panche solo tre persone, tre ombre scure e isolate. Meglio, avrebbe fatto più presto. Il freddo era arrivato e in quella chiesa si gelava. Quando fu il momento versò nel calice il doppio del vino necessario: lo avrebbe aiutato a vincere quel tremore.
Quasi immediatamente, nel silenzio della chiesa fredda, udì il primo accordo dell’adagio per l’Elevazione di Francesco Feroci… e fu sul punto di svenire per l’emozione. Le mani gli tremavano, e anche la voce. Terminò tutto nel pensiero che lui, Michele, sapendo che avrebbe celebrato Messa praticamente da solo, era venuto a porgergli quel dono, quel pensiero meraviglioso. Inconfondibile il suo modo di suonare quel brano edificante e delicato, dove lui tuttavia introduceva dei brevi trilli, delle acciaccature che potevano quasi sembrare blasfeme. Per tutta la durata del pezzo la sua mente restò incatenata al succedersi delle note. Voltandosi verso i fedeli cercò di distinguere Michele lassù, nel buio della cantoria, senza vederlo. Non aveva acceso la piccola luce elettrica che serviva per illuminare lo spartito. Non aveva suonato niente altro.
Il solo tempo per togliersi i paramenti e già saliva la scaletta di legno: nel buio quasi si scontrò con Michele che stava scendendo. Lo abbracciò a lungo e mormorò senza fiato: “Grazie, grazie…” Ma il ragazzo restò stupito di tante effusioni, non se le aspettava, non aveva suonato per sentirsi abbracciare; la sua voce, anzi, fu piuttosto fredda: “Non le pare, padre, che mettendo il cromorno a otto piedi e la vox humana il pezzo venga meglio?”
Dopo un lungo silenzio padre Antonelli riuscì a parlare: “… Sì, certamente, avevi ragione tu, tu sei un vero musicista, non io, non io povero prete…” E intanto erano arrivati presso il portale semiaperto da dove entrava aria fredda, e Michele se ne sarebbe andato. Padre Antonelli, nel frattempo, aveva ritrovato il giusto respiro e riguadagnata tutta la sua dignità. Mosse con un gesto solenne la mano in segno di saluto; stava per augurargli buon Natale, ma preferì restare in silenzio e vedere il ragazzo che si allontanava; fissò lo sguardo finché distinse un’ombra scura e il riflesso dei capelli biondi. Poi provò della rabbia dentro e pensò vocaboli e bestemmie, tutto mescolato, come un rigurgito di furori intimi: cose come vattene, non ti far vedere mai più. Ho altro da pensare io, géttati nella fornicazione, annega nella volgarità comune, ingravida una donna qualunque e facci dei figli. Non importa… non mi importa più nulla…
E si ritrovò solo a metà della navata, si reggeva ad una panca. Tremava di rabbia, non più per il gelo. Nessuno era rimasto, tutta la Chiesa fredda e vuota. E ancora negli occhi la visione del ragazzo, esile e biondo che si allontanava. Tornò verso l’uscita, si appoggiò al fonte battesimale, le spalle volte all’altare e lo sguardo fisso verso un punto lontano, oltre il portale di legno scolpito.
Qui comprese finalmente quello che era successo, ma non volle ancora accorgersene. Provava la sensazione di trovarsi in un edificio malaugurante, tetro, un ospedale, un lazzaretto. Si sentiva immerso in un buio freddo, inutile; aveva perduto il senso dell’orientamento: la navata, l’altar maggiore, le panche deserte… le statue, tutto si era disposto in un modo inconoscibile e disordinato. Non restava che fuggire da quel posto. Sentiva un impellente bisogno di recarsi nel suo studio, voleva distendersi nella sua poltrona, sentirsi il prete importante che era.
Peccato non poter contare sulle cure di Adele. Un tassì lo condusse nel centro storico, quasi alle porte del palazzo. Aveva le chiavi. Entrò nello studio; anche qui freddo. Adele, prevedendo una settimana di vacanza, aveva spento il riscaldamento. Prese in mano il quaderno nero, cercò la penna; scrivere qualcosa gli avrebbe fatto bene, lo avrebbe aiutato a capire. Ma per molto tempo nessuna frase fu vergata su quelle pagine. Forse padre Antonelli riuscì a dormire un poco, disteso sulla poltrona, con il cappotto come coperta. Più tardi, ma non avrebbe saputo dire se era sera o già notte, si sentì un po’ meglio: la penna era caduta sotto la poltrona. La raccolse, era gelata.
Dapprima scrisse tre parole, in latino: “perinde ac cadaver” poi delle tracce leggere come un pianto, o pioggia sui vetri, la predizione, l’idea, un sospetto che diventa realtà tangibile: Lui era sparito. Più nulla della Sua presenza nei luoghi dove abitualmente Lo si ritrova, si pensa possibile la Sua esistenza. Nel pane e nel vino… non basta, anche altrove, nell’aria, nelle nuvole bianche e ferme che annunciano la neve; niente, perduto per sempre. Forse era molto tempo che Lui se ne era andato, senza che i segni fossero così evidenti, così duri da sopportare; perché solo adesso, solo in questi giorni la somma del dolore per la Sua assenza gli negava poco per volta la vita?
Dopo queste parole la penna, che nella mano del sacerdote aveva ritrovato un certo calore, scrisse delle note musicali, a caso, fa, sol, la…, poi ancora delle linee confuse e leggermente ondulate che scendevano in basso, come se la pagina rifiutasse altre parole. Niente; non Lo ritroverò mai, non mi ero accorto che Lui se ne fosse andato, o forse non volli accorgermene e questa Sua definitiva partenza è la mia punizione, per la mia cecità, per non averGli obbedito, per non averLo ascoltato. E ora?
Le due parole “e ora?” sono ripetute varie volte e danzano sulla pagina successiva, scritte in varie dimensioni, con lettere in stampatello, grandi e tremule. Non più in Chiesa, non più nell’Ostia consacrata, non più in me. Da nessuna parte, lontano da me, inafferrabile, irraggiungibile, almeno con le mie deboli forze. Non mi posso sbagliare, nemmeno invocare una sorta di perdono: so che nulla Gli farà cambiare opinione, ha deciso di allontanarsi in modo che io non Lo possa più né vedere, né percepire, né intuire… via da me per sempre. Non avrò nemmeno più la possibilità di invocarLo in una preghiera, lo so, lo sento… mi ignorerebbe, mi volterebbe le spalle, si metterebbe a ridere.
Poi una pagina saltata. Nella successiva, in stampatello, con una grafia più calma e leggibile, la frase: “L’uomo pensa e Dio ride” e fra parentesi la chiosa: “antico detto ebraico”.