Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Quarta edizione – 2001
Alberto Arletti
Il vento del ventre
Terminato il suono del campanello del duomo, detto di terza, e sino al compimento dell’ufficiatura del dopo pranzo, in ogni giorno festivo rimanevano chiuse tutte le bettole e le osterie e la piazza restava vuota da ogni genere di vettovaglie. Ma era il venti di maggio, ed eccettuati da tale disposizione erano appunto i giorni di S. Bernardino e i due successivi, come pure quelli di S. Bartolomeo e i quattro successivi, ritenuti, tanto quelli che questi, giorni di fiera. Era il venti maggio dunque, e la marchesa parlottava animosamente con il vescovo e il notaio, nella carrozza di quest’ultimo: procedevano lenti lungo le contrade della città, tra venditori ambulanti, bancarelle e mercanzie d’ogni sorta, scansando carretti, animali, donne e bambini. Il cocchiere, in livrea, aveva l’ordine di procedere piano, sostare in prossimità dei baluardi , indi uscire dalla Porta Mantovana e qui attendere ordini. I due palafrenieri in candide cappe parevano grossi ceri spenti della Quaresima.
” Abbiate la compiacenza di smetterla con questo vostro cincischiare : non temete – proseguì la marchesa rivolta al vescovo – resterà espressamente proibito qualunque giuoco nelle ore in cui si celebrano i divini uffizi, tanto all’interno della città quanto nel circondario, per non diminuire il concorso alle sacre funzioni ed il rispetto ad esse dovuto. Ma il problema è un altro: il nostro Principe Sovrano colla sua Augusta Sposa si degneranno di portare le loro regali presenze in questa nostra umile cittadina, anche se per pochi minuti. Saranno solo di passaggio e, nonostante i molti evviva del popolo ed il suono di tutte le campane della città, si renderanno ben presto conto di quanto misero sia questo gruppo di palazzi e quanto vecchia e muffita questa nobiltà. Potrebbero decidere di togliere il marchesato, e poi spostare funzionari, accorpare diocesi…e Voi, caro vescovo, dove andreste? Vorreste tornare al Rettorato delle Scuole Pie di Roccamonfina?” L’alto prelato impallidì portandosi una mano al cuore; spalancò la bocca come per prendere aria, ma intervenne il notaio per ricordare i tempi strettissimi ed indicare in suo fratello, giudice alle Vettovaglie, la persona più indicata ad organizzare e preparare la città all’arrivo del sovrano; sarebbero bastati pochi minuti, durante i quali dare un bel vedere agli occhi, e insieme una semplice nomina, peraltro meritatissima, ad Ispettore delle Fabbriche e Architetto della Comunità. ” Scavalcando i più titolati? Voi capite che ci esporremo così alle più dure critiche! – azzardò la marchesa. “Non abbiamo scelta: restano tre soli giorni. E poi ricordate: il sovrano è atteso a Modena, qui non potrà restare che il tempo d’una pisciata”.
In tutta fretta fu emanata una disposizione per la quale l’intera popolazione indistintamente era in obbligo di tener pulite la propria persona, le case e le contrade, con levatura dalle dimore di tutte le masse di concime, la vuotatura di latrine e pozzi neri ed il trasporto del materiale fetido fuori città in luoghi appositi e nascosti. Si indicava poi il nome dell’artefice del progetto: alla sua persona la popolazione avrebbe dovuto dare la massima collaborazione e disponibilità. L’allestimento in pompa magna delle macchine da festa in onore del sovrano doveva avvenire con celerità e con l’utilizzo di tutte le risorse disponibili, poche in verità: erano tempi di fame e di magra. In quei due giorni dati dall’ordinanza, per la gran quantità di concime levato dalle case, non fecero che sentirsi odori pestiferi e cattivi, odori di merda per ogni dove, per case, per strade, in barocci, in carriole, dappertutto. Il generale fetore fu dunque trasportato lontano più a nord, in zona protetta, dove il ristagno non arrecasse disturbo.
Il fratello del notaio ricevette la notizia della nomina mentre si apprestava al rito mattutino del taglio della barba, che in verità aveva trascurato da alcuni giorni, preso com’era dall’inventario dei possedimenti di famiglia. Il barbiere ebbe parecchio da fare: gli legò un telo sul davanti e gli insaponò il viso con una schiuma densa.. La spalmò con mano morbida e calda sulle parti del viso che la peluria scura quotidianamente copriva, eruttando lucida dai pori. Arrivò fin su alle basette, e poi piano giù al mento, fin dentro la fossetta, e poi ancora su, sul labbro, lasciando libere le narici del naso, e poi di nuovo giù dietro e sotto il lobo, là dove la peluria è tenera e di schiuma ne basta l’odore. Si guardò allo specchio, facendo una smorfia grossolana con la bocca, una maschera bianca. Prese un po’ di schiuma e se la mise sul dorso della mano, lisciandoselo. Pochi minuti ancora e formulò compiacendosene la grandiosa idea per celebrare l’arrivo del granduca. Uscì in fretta, il tempo passava veloce, e lui aveva un sacco di cose da fare.
Cominciò col comunicare al notaio le proprie intenzioni. Questi non commentò, non c’era tempo; le mise su carta e le indirizzò alla marchesa, al vescovo per conoscenza.
“Di segnalazione del signor giudice architetto mi faccio carico e dovere di prevenirla che nelle scorse ore egli è venuto nella determinazione di abbellire l’area a ponente della Porta Mantovana all’esterno del Borgonuovo , atterrando quelle ruine che oggi servono ad uso di mercato bestiame. Necessita però che la S.S. V.V. Ill.ma abbia degnazione di dare le occorrenti Provvidenze onde per le prossime ore siano in libertà quei luoghi ed anzi si rendano disponibili braccia onde procedere alle lavorazioni convenute”.
Il vescovo smise l’ufficiatura dei vespri per leggere la missiva e alzando gli occhi al cielo si versò un bicchierino di alchermes, mettendosi nelle sacre mani del Divino Salvatore. La marchesa dal canto suo trovò l’idea buona, un po’ rischiosa forse, ma poteva funzionare.
L’ispettore della Fabbriche e Architetto della Comunità, con lo zelo ed il fervore del neofita, propose dunque l’atterramento del parapetto a mezzaluna che stava dirimpetto alla Porta, inviando la strada a diritta linea, levando una voltata che era a mano sinistra alla sortita della porta stessa. Indicò d’appresso il passaggio civile fornito da una parte di alte pioppe. La carrozza del Sovrano sarebbe transitata proprio lì, proveniente da Mantova, ed opportuni accorgimenti di lodevole scenografia avrebbero ben predisposto gli animi e gli intelletti, avrebbero consentito di vedere ciò che andava visto, ed occultato il resto. I lavori cominciarono: la povertà serpeggiante sortiva l’effetto di muovere un gran numero di uomini disponibili a tutto pur di ottenere la ricompensa a fine giornata.
La sera del primo giorno l’architetto osservò il nuovo anfiteatro di Porta Modenese: in mezzo avrebbero potuto ballare più persone e fare apparente allegrezza, con la speranza che il tempo lo permettesse e le nubi non grondassero pioggia. Pensò poi che di fronte a detta porta dovesse essere fatto in sagoma un tempio antico che facesse bel vedere.
La sera del secondo giorno considerò il risultato ottenuto, in scena, passeggiando sui bastioni, provando e riprovando il percorso del sovrano. Prima a piedi, poi in carrozza, prese appunti su grandi fogli che teneva arrotolati nella tasca della sua giamberga. Si presentò in tutta fretta alla marchesa durante l’ora della cena, presentandole ulteriori richieste: farina, tanta farina, e fanali, molti, specificando i termini in cui l’illuminazione doveva essere fornita, la posizione e l’orario di accensione, dell’Ave Maria della sera fino al Vespro. Annunciò l’idea, palesandola in bozza: la marchesa impallidì. “Indubbiamente interessante…e rischioso” – ebbe la forza di dire “…e se se ne accorge?”.
” E se piove?” – balbettò il vescovo: tremante, di fronte alle poche ore che rimanevano, decise di indire una giornata di adorazione e preghiera, riservata a tutta la popolazione non coinvolta nei lavori fuori porta, per tenere lontana la pioggia ed ingraziarsi il Santo Redentore.
La mattina l’architetto si recò sul cantiere, all’ingresso della città, là dove il transito del sovrano avrebbe sfiorato il nuovo anfiteatro e le pioppe. Radunò uomini , giovanetti, e poi donne e bambine : promise al tramonto mezza oncia di farina a persona , un quarto di oncia ai fanciulli. Il loro compito sarebbe stato quello di stare immobili, nella postura concordata, assolutamente fermi, al segnale convenuto: per nessuna ragione, un movimento. Le minacce impaurirono gli astanti, ma la paga era allettante, la fame troppa. Istruì i suoi fedeli collaboratori, dando una immediata dimostrazione: fece spogliare un giovinetto e cominciò a spalmargli sulla pelle un morbido impasto bianco. Il silenzio era totale, il rossore delle donne e l’imbarazzo degli uomini si mescolavano ai brontolii delle pance vuote. Pochi minuti ed il corpo divenne statua, gesso, marmo. Ne regolò la postura, soppesandone l’effetto, squadrandolo su ogni lato. Poi soddisfatto disse: “Bacco, questo è Bacco! Un ritocco alla capigliatura e ci siamo. Dovete restare immobili, ognuno al suo piedistallo, nella posa che io indicherò e che proveremo, dal momento in cui sentirete i rintocchi dell’Ave Maria della sera fino ai tre rintocchi secchi del Vespro. Passerà il Sovrano, in carrozza, mi raccomando, non un gesto! E’ una forma di rispetto che gli dobbiamo, non deludete la marchesa ed il nostro vescovo” Proseguì così per ore la difficile arte di plasmare pietra sulla carne. A labbra strette e pancia tesa levigò questi marmi, accarezzandoli prima duramente, poi morbido e docile, svelando la forma carezza dopo la carezza, mai estraneo. Sentì scoppiare le tempie e ribollire il cuore, tra quelli esseri dagli sguardi neri e dalle mani umide. Trecento figure da posizionare, istruire, imbellettare e nominare: una lunga processione di corpi, ai quali improvvisati scultori conferivano le opache sembianze di eroi greci e santi, pietà e glorie, tagliando lenzuoli a strisce là dove il rossore vinceva la biacca. Come le acque del torrente flagellano i massi che incontrano sul loro percorso o li accarezzano lisciandone la superficie, così la mano si faceva morbida, là ove trovava lineamenti armoniosi su cui indugiava la grazia dell’adolescenza o l’esuberanza della maturità.
Riprese le immagini stivate nella memoria, od altre su libri d’arte a stampa: proprio all’inizio del percorso collocò un gruppo raffigurante Il Ratto della Sabina del Gianbologna. Scelse l’uomo più possente, Bernardo il fabbro, e la femmina più delicata, dal corpo acerbo: ne modellò le rotondità, offrendo la luce tersa del pomeriggio alla carni di gesso. La presa era forte, guidò l’espressione ed il grido. Giunto alla terga l’occhio si soffermò, indugiando, dubbioso. Accasciato, tra le gambe, un’altra figura virile, il padre. Il sangue e il colore sembravano scorrere nelle vene del marmo, dalla morbidezza della carne nasceva il rigore gelido della morta pietra. Ne fu soddisfatto: il volto di lei tradiva paura intrisa di ritrosia e ribrezzo per la presa delle forti braccia dell’uomo. Bernardo rigido la guardava, pensando alle sue mani grandi di uomo premute sul corpo esile e senza veste. Il riflesso delle loro pupille si fece presto opaco, il silenzio totale.
Il cielo rumoreggiava movendosi veloce sui marmi silenti. Minacciava la pioggia quando l’Ave Maria riempì l’anfiteatro. I fanali vennero velocemente accesi: avrebbero infastidito lo sguardo del sovrano, al suo passaggio, confondendo la nitidezza dei contorni. I sudditi di pietra si bloccarono: il Laocoonte, exemplum doloris, gelò.
E fu così che la città, in una giornata con minaccia di pioggia, su strade infangate e profumate di fosso, fra fumi fetidi di letame nascosto e strida arroganti di stormi, accolse Francesco, principe ereditario, e la giovane consorte Aldegonda di Baviera. Erano accompagnati da un giovane straniero in viaggio, sua era la testa che avidamente scrutava dal finestrino, irrequieta. La carrozza passò veloce, sembrò rallentare in prossimità del Ratto, poi entrò in città e si fermò innanzi al Palazzo Bonasi, ove era stato preparato un superbo banchetto: furono ricevuti allo scalone di detto palazzo dalla marchesa, dal vescovo e dal notaio, più altri personaggi agghindati a festa. Nel palazzo gli sposi si fermarono dodici minuti, ritirandosi buona parte del tempo negli appartamenti all’uopo approntati per rinfrescare le membra indolenzite, per poi ripartire alla volta di Modena.
“Ooh…domine! Opus mirabile! Un materiale ricchissimo, una straordinaria testimonianza di sorprendente realismo che merita il nostro elogio. Una piatta città di nuvole, di bianca pietra e di acqua!” Così lo straniero in viaggio riuscì a dire al vescovo, salendo i gradini, al seguito del Sovrano.
“Insomma una cittadina davvero accattivante – relazionò entusiasta alla marchesa, pallida – La si vede d’un fiato, ti intenerisce e ti emoziona, Il forestiero è accolto come un ospite raro e benvenuto. Mi ha lasciato senza fiato quella deliziosa teoria di opere allineate sul perimetro di una sorta d’anfiteatro di classica fattura, alti pioppi tremuli come fondale, sul quale si staglia tale e tanta arte, sovente di un erotismo crudele, che attanaglia la mente. Ricorda all’uomo che la scultura è prima di ogni altra cosa piacere, piacere di guardare e il ricordare, di sfiorare…. Betsabee e Susanne, Veneri al bagno, giovani figure che si lavano dandoci la schiena, splendore di spalle e di seni, di ascelle: il repertorio è affollato. Si continua con gli eroi ed i martiri, imperatori ed illustri sconosciuti, un groviglio di morenti e cadaveri, santi e beati, terga maschili, volti virili: dubito possano essere dei capolavori…, ben lontani son dai Michelangelo e Donatello che tutti noi ammiriamo, ma certo sono intrisi di una tale verace forza che li fa palpitare di reale vita.
Il volto tradiva entusiasmo, la marchesa immobile lo guardava negli occhi, sorridendo vitrea, la bocca semiaperta. L’artista – proseguì accorato lo straniero – ma chi è l’eccelso? – è riuscito a creare un autentico gioiello dell’arte statuaria. L’insieme è stupefacente! E gli si perdonano a volte le cadute di gusto nei particolari, le rotondità dei fianchi, anca possente, gamba pesante, le pudende orrendamente protuberanti, od i lineamenti tarchiati, i seni grandi e cadenti: sembrano riportare sui volti i segni impietosi di vite piene di crucci. Bella la copia del Bacco del Buonarroti, scolpita per Jacopo Galli, la copia in scala ridotta del David, copia ingrandita dell’Ercole e Caco del Buonarroti…e del tutto simili agli originali Il Crepuscolo, il Giorno, l’Aurora e la Notte, come son sulla tomba di Lorenzo De’ Medici! Che dire del Il Ratto della Sabina di Jean de Boulogne, Ah, quale potente e meravigliosa scultura…l’ attrazione diviene rapina e virile violenza. In questa galleria di sofferenze, ho amato per il solo attimo in cui ho potuto, il Galata morente, il virile combattente accasciato a terra con vistose ferite, ed il figlio di Niobe, ferito a morte, e Pilade che sostiene per le ascelle il matricida Oreste, e via di seguito, passando per corpi defraudati dalla magrezza o deformati dall’obesità o dai tumori, o da terribili patologie della parte davanti di sotto, disonesta a nominare. Ho amato il Laocoonte al culmine della scena indimenticabile del padre e dei figli avvolti insieme nelle spire mortali delle serpi…E nel mio pellegrinare, signora marchesa, tra dirupi precipitosi e baratri spaventevoli, abissi ribollenti d’acque e tetri precipizi, paesaggi sublimi, qui, in questo quieto panorama palustre intriso di luce limpida e serena, ho aperto lo spirito, elevandolo, arricchendolo di conoscenza per guarirlo da pregiudizi.” La marchesa ascoltava, terrea, inspirando aria. “Ho passato il San Gottardo, con il Ponte del Diavolo avvolto nei gelidi vapori della cascate della Reuss, e gli orridi alpini e poi i distesi slarghi , orlati di flora già mediterranea, ma mai ho visto una tale ricchezza d’espressione artistica: centinaia di opere scolpite dove l’uomo è testimone della tappe della storia. Nel desolante paesaggio di deserta pietà e selvaggio squallore, ho qui intravisto la luce fulgida dell’arte di grande rigore ed eleganza che eleva lo spirito. Ho avuto la sensazione che il marmo delle figure più prestanti in certe parti ardesse, vibrando di generosa spavalderia. La rigidezza del marmo sembrava sciogliersi. Non ho che questi appunti visivi, né uno schizzo né un disegno, non c’è stato tempo. Forse altre occasioni si presenteranno, spero. Arrivederci”.
Raggiunse velocemente gli Sposi, buttando l’occhio ancora una volta sulle cento e cento opere al di là della Porta, ai pioppi.
“E’ andata, grazie a Dio, speriamo che non tornino”. La marchesa salì rapidamente le scale s’affacciò dall’altana del Palazzo, verificando la scia della carrozza reale ormai lontana. Inspirò forte l’aria umida della sera, gonfiandosi, ” è andata!” disse, mosse le pesanti vesti ed unì la sua lunga aria sonora a quella del vento che, mutando direzione, aveva raccolto da nord il tanfo del ristagno: avvolse la marchesa, ed il Palazzo, scese nella corte, per le strade e s’introdusse nella dimora del vescovo, pronto ad accoglierne il padrone, in un generale e pesante fetido soffio del ventre.
I rintocchi del Vespro coincisero con le prime gocce di pioggia. Scesero tutti piano dai piedistalli, piano perché anche la farina sul corpo poteva essere recuperata , meglio fare movimenti lenti dunque, che non crepasse e cadesse.
Bernardo posò la fanciulla a terra , guardandola finalmente negli occhi opachi. Le sorrise timidamente e pronunciò poche parole a copertura delle loro vergogne: “Domani vado alla funzione in duomo”. Lei non volle abbassare lo sguardo e fissò il suo sorriso giallo. Una lacrima grigia le rigò il volto, impastandosi.
In fila, lungo il semicerchio dell’anfiteatro, a riscuotere la giornata e poi, in processione lenta, ognuno procedeva verso la propria dimora: un’umanità nuda, perlacea, come smarrita, dispersa, sull’orlo. Una scia di bianco silenzio nell’aria greve di merda.