Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Seconda Edizione – 1997
Primo Premio
Stefano Perricone
Un giorno nella Merano onirica
La visita si stava per concludere e – come sempre accade quando ci mostrano un antico maniero – l’ultimo grido di ammirazione era riservato alle sepolture degli antenati. Secoli di storia di quella nobile famiglia longobarda mi sfilavano davanti nella cripta umida: guerrieri, vescovi, dame bellissime marcivano in tombe che tradivano il gusto o il malgusto del momento, semplici pietre gettate al suolo su cui poche, rudi incisioni ricordavano le gesta dell’ischeletrito occupante o sontuosi sepolcri barocchi, dove scheletri dorati e angeli i cui modelli erano state certo vanitose cortigiane indicavano pomposamente la vanità di ogni pompa, fino al freddume delle sepolture neoclassiche e all’eclettica insignificanza delle più recenti.
Persino lì l’età nostra denunciava la sua mancanza di punti di riferimento, di un centro. Tutto era bello, ma, se devo essere sincero, un po’ prevedibile, almeno se ci si mette nell’ordine di idee di considerare passabilmente prevedibile e normale una visita a una cripta secolare. Stavo dunque già pensando al generoso bicchiere di vino che la cortese ospite non avrebbe mancato di offrirmi al ritorno nel mondo dei vivi per risollevarmi dallo spettacolo di tanta morte accatastata quando, mentre mi sfilavano innanzi gli ultimi, moderni sepolcri pieni di genietti alati, sculture babilonesi, colonne doriche e sfingi etrusche, m’imbattei in una camera mortuaria in perfetto stile egizio. Repressi a stento un grido di stupore.
La padrona del castello, la gentile Eva K., esitò un momento di fronte a quella tomba inusitata. Mai avrei pensato, in un turrito castello tirolese, di trovare qualcuno che avesse scelto una sede di tal genere per il suo riposo eterno. “E’ mio zio” disse con dolcezza. Non ci fu bisogno di farle domande che, data la situazione, sarebbero parse senz’altro indiscrete. Sedutasi sul basamento di un leone assiro che difendeva i resti di non so quale zia da improbabili oltraggi, l’affascinante ospite prese a parlare e mi spiegò lo straordinario destino di quel suo zio. “Era archeologo, e non c’è bisogno che le dica quale fosse la sua specializzazione.
Fin da piccolino aveva provato un interesse grandissimo, quasi morboso, per tutto ciò che veniva dal Nilo. Non voleva, come regali, che libri sull’Egitto e devo dire che la famiglia, ammirata da tale precoce passione, non glieli lesinò certamente. Presto quelli in circolazione qui non gli bastarono più e se ne dovettero chiedere a Parigi, a Londra, a Berlino, dovunque la scienza egittologica avesse raggiunto sviluppo e splendore. Era lui stesso a preparare le liste da inviare alle più importanti librerie e a scrivere le richieste di prestito da inoltrare alle principali università. A un età in cui un ragazzo non ha ancora deciso che fare del suo futuro, mio zio aveva acquisito una preparazione che non la cedeva in nulla a quella di un libero docente. Si metteva a studiare proprio qui, dove ora vede la sua sepoltura e dove prima c’era solo una rientranza vuota della cripta che, per un’antica superstizione, una maledizione lanciata da un antenato vescovo con fama di negromante, era sempre rimasta libera da ospiti.
Questa sua abitudine era stata in principio ostacolata dalla famiglia, ma alla fine si era pensato che, mettendosi a studiare là, Boris – questo era il nome dell’eremita sotterraneo – non faceva del male a nessuno e si educava a una sana razionalità. Si era in pieno positivismo: il movimento filosofico era pressoché scomparso ma, come Lei sa, l’influenza dei grandi movimenti culturali arriva sempre con un ritardo di qualche decennio nella vita di ogni giorno e i severi padri degli anni Venti ne risentivano in pieno l’influenza – e la facevano risentire nell’educazione che impartivano ai figli – anche quando Bergson, Croce e Husserl avevano detto la loro parola più alta e l’astro di Heidegger sorgeva all’orizzonte della filosofia.
Lo studio, a Berlino, col grande Sethe, principe degli egittologi, perfezionò la sua preparazione e quando partì per l’Egitto nel 1931, zio Boris poteva dirsi a ragione uno dei più preparati studiosi del mondo nel suo settore. Sembrava dischiudersi per lui una carriera folgorante, gloriosa, che lo avrebbe portato in breve tempo al possesso di una cattedra prestigiosa, alla fondazione di una scuola i cui discepoli avrebbero gelosamente conservato e sviluppato il suo pensiero scientifico, quando…” “Quando?…” chiesi curioso all’affascinante ospite che volgeva sognante gli occhi in quella penombra sepolcrale come se si fosse in un giardino in primavera. “Quando… Sa come vanno queste cose. Se si è giovani, è facile essere distratti nei propri progetti, scientifici o altro, dall’amore. E mio zio s’innamorò.” Repressi a stento un moto di delusione.
L’avventura di quello zio misterioso sembrava ridursi a una banale scappatella giovanile. Già mi sembrava di sapere il resto della storia: una ragazza civettuola – una ballerina, magari, o qualcosa di quel tipo – l’opposizione dei genitori, il matrimonio clandestino, l’inevitabile delusione, il ritorno a casa pieno d’amarezza, il ripiegarsi su se stesso, l’abbandono autodistruttivo delle illusioni giovanili e poi, quasi in punto di morte, il pentimento e la costruzione di quella buffa cappella ramsetica a ricordare, nella morte, quella che sarebbe dovuta essere la sua ragione di vita. Stavo addirittura – dimentico del luogo ove mi trovavo – per accendermi una sigaretta, quando un delicato gesto della mia ospite mi fermò. “No, non è come pensa” mormorò. Aveva indovinato quel che mi era passato per la mente. Arrossii lievemente. “Non fu di una donna che s’innamorò.” La guardai confuso. “Non di una in carne e ossa, almeno. Mio zio – bisbigliò – s’innamorò di una mummia.”
Era troppo. Credetti che la principessa – perché la mia amica era una principessa e di una famiglia antica – si stesse prendendo giuoco di me con quel sottile umorismo macabro che ha spesso chi vive in luoghi dove la polvere della storia si è accumulata abbondante. Feci un gesto di diniego, come a dire che non ci credevo. La principessa non si scompose. Sorrise dolcemente e mi prese per mano e, confesso, provai un ben piacevole brivido mentre i suoi delicati polpastrelli principeschi sfioravano la meno morbida e nobile pelle della mia mano. Entrammo nella camera mortuaria. Alla luce di una lampada rossastra e, devo dirlo, un po’ sinistra, scorsi le decorazioni mirabili e, almeno al mio giudizio di profano, impeccabili che coprivano le pareti. “Stanno là” disse a bassissima voce indicando due sarcofagi di pietra. “Quello” riprese “è zio Boris e quella è la regina Nadjme.” “Una regina?” feci io, poco convinto. “Ventunesima dinastia. Sa come la conobbe?” Allargai le braccia, come a dire che era ovvio che fossi curioso di sapere come un egittologo del ventesimo secolo avesse conosciuto una regina della ventunesima dinastia.
Cose simili non accadono ogni giorno, perbacco. La principessa era rossa per l’eccitazione. Non doveva avere svelato il suo segreto di famiglia mai a nessuno e mi strinse la mano con più forza, come a comunicarmi le sue emozioni. “La comprò da un mercante clandestino di mummie – c’erano e ci sono, sa, coloro che si dedicano a questa poco nobile professione – e se la portò in una carriola, protetta da un mucchio di stracci gettati sopra la sua pelle nerastra e sfilacciata – perché fa quella faccia? – fino alla casa che aveva affittato, lungo la vecchia via Darb el-Gamamiz. Lì la liberò dagli improvvisati veli e l’adagiò su un lettuccio. Fu durante la notte…” La principessa si strinse con le sue braccia alle mie e fissò i suoi occhi nei miei. Pian piano, timidamente, strinsi anch’io le sue braccia candide.
Sudavo… “…una notte d’oriente, piena d’inebrianti profumi sconosciuti. Mio zio la vide – vide, capisce, non sognò – nel suo splendore eterno. La regina non ebbe neanche bisogno di parlargli: egli seppe chi era stata nel mondo e seppe ciò che era ora e sarebbe stata sempre: la Dea stessa, la luce increata che sta oltre il velo e sentì ciò che gli si chiedeva: strappare, strappare il velo, squarciarlo, spogliare la Dea, denudarla, farla sua, unire se stesso a quella luce infinita e perdersi, volare, espandersi nella tenebra infinita che ne sarebbe scaturita – l’abisso, l’abisso, l’abisso!” La principessa s’avvicinò ancora a me. Sentivo il suo fiato profumato, simile, se è lecita la contraddizione, a quello che potrebbe avere una bestia infinitamente soave, sentivo l’umidore della sua pelle sulla mia. Anche la principessa sudava.
Io, ero tutto bagnato. “E così fece. E’ inutile che le racconti in dettaglio tutto il resto – il viaggio di ritorno in Europa con tutti gli accorgimenti che dovette prendere per nasconderla da sguardi indiscreti e volgari, la follia che simulò per convincere la famiglia a farlo vivere qui sotto e a costruirgli questa camera mortuaria secondo le precise indicazioni avute per via onirica, la vita passata qui dentro, senza mai muoversi di qui, in continuo, mistico amplesso con la regina…” Ci ritrovammo, non saprei dire come, per terra. Ci ritrovammo nudi.
È inutile che narri il resto – il sagace lettore avrà già capito il motivo per cui io oggi vivo qui, nel castello di X e la principessa è la mia sposa. Tutto sembra chiaro. Ma a volte, quando rivado con la memoria a quegli attimi, una domanda conturbante mi si affaccia dispettosa nella mente: di chi erano quelle mani nerastre che – così mi parve – sfilarono a me e alla mia sposa gli abiti, uno dopo l’altro, senza che noi, quasi ipnotizzati, potessimo far niente?