Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Seconda Edizione – 1997
Giovanna Venditti
Via Col di Lana
Che cosa era venuta a cercare? Malgrado avesse continuato a chiederselo per tutto il tragitto, ripetendosi che era stato soltanto un interesse per così dire antropologico-culturale a spingerla, sentiva dentro di sé che quella risposta non era del tutto convincente. Non era del tutto sincera. Non era lì per caso. Avrebbe potuto barare con gli altri, ma non con sé. Aveva calcolato bene i tempi in modo da arrivare con il moderato ritardo che le permetteva di sfuggire a ogni inchiesta, chi fosse, da dove venisse, perché era lì.
Domande cui neanche lei avrebbe saputo rispondere. Sarebbe entrata con l’aria stupita di chi si trovi in un posto nuovo e sconosciuto e nelle stesso tempo in qualche modo familiare. Perché in fondo si somigliano tutte. Hanno tutte la stessa aria familiare, pensò. Ma lei sapeva di non essere lì per caso. Sapeva che se qualcuno due giorni prima fosse uscito da una di quelle villette circondate da giardini ordinati e cancelletti bassi avrebbe potuto sorprenderla a interrogare perplessa le targhette agli incroci delle strade. Sapeva che per poter arrivare lì oggi a colpo sicuro aveva dovuto perdersi due giorni prima nel dedalo di viuzze tra le ville e i parchi, girando tutt’attorno al campanile che pur non aveva perso di vista neanche per un istante.
Perché era lì? Se lo chiedeva ancora mentre saliva i pochi gradini che la separavano dal portone, mentre si attardava con curiosità esagerata a osservare gli opuscoli esposti su uno scaffale per nascondere un’ultima esitazione. Se lo chiedeva ancora quando spinse il pesante battente di legno ed entrò. Fu avvolta dalle note conclusive dell’inno che andava spegnendosi. Le voci erano sicure e ben armonizzate tra loro, come raramente accade in un coro non professionale, L’insospettata ampiezza della sala e la sua luminosità la sorpresero. Si sedette sull’ultima panca accanto all’ingresso, si lisciò la gonna e gettò un’occhiata davanti a sé. C’era molta gente, molte teste grigie. Soltanto la chioma bionda di un ragazzo interrompeva quella monotonia.
Stava domandandosi se il suo ritardo fosse ancora nei limiti dell’accettabilità quando la porta accanto a lei si aprì di nuovo e lasciò entrare una coppia di anziani che venne a sedersi proprio davanti a lei. Questo bastò a tranquillizzarla sulle capacità di tolleranza di quelle persone a lei estranee, amanti, come credeva, dell’ordine e della precisione. Dopotutto erano tedeschi, sì, ma in vacanza. Un po’ come me, pensò. In quel momento il pastore salì sul pulpito e si accinse alla lettura del testo scelto per la predica domenicale.
Devo stare attenta, si disse. Devo cercare di capire il più possibile. Scacciò dalla mente il pensiero che era ormai da quasi un anno che non entrava in una chiesa, scacciò pure l’idea dell’incongruità della sua presenza lì. Pensò solo che un sermone era la situazione ideale per esercitarsi nell’ascolto di una lingua straniera. In tutta la sua vita non aveva mai sentito un pastore che non parlasse in modo semplice e chiaro e che non si sforzasse di rallentare il ritmo delle proprie parole. Per essere certo che tutti potessero seguirlo e capirlo o forse perché, dette le cose essenziali, non restava più molto da dire. Scacciò dalla mente anche quei pensieri insolenti e si dispose all’ascolto. Man mano che la sua mente decifrava le parole lei si accorse di riuscire a farlo senza sforzo.
Dopotutto erano racconti che conosceva bene. Li aveva ascoltati tante volte da bambina alla scuola domenicale, quando ancora le era facile credere alle storie e all’immediatezza dei sentimenti. Poi, col tempo, l’ingenuità aveva fatto posto alla disillusione e allo scetticismo dell’età matura. Si accorse pure che, come tutte le volte in cui in passato si era trovata più o meno casualmente in una chiesa non sua, avvertiva quelle parole come definitive, come se l’occasione particolare desse loro una pregnanza al di là dei significati più immediati. Non solo.
Le parve di riuscire addirittura a ricordare la disposizione delle panche, le vetrate, il pulpito, le voci. Ogni volta che era in viaggio aveva sempre provato il bisogno di far visita a una chiesa come la sua, anche se dalla sua era fuggita ormai da un anno. Perché? Il pastore aveva terminato la sua meditazione e subito le voci intonarono un altro canto. Lei riconobbe la melodia ben nota fin dall’infanzia, nonostante le parole ora le fossero sconosciute. Cercò di seguirle sull’innario, ma non si sentiva abbastanza sicura nella lingua per cantarle con gli altri. E forse non avrebbe cantato neanche nella sua chiesa. Qui però non si alzano, pensò, restano seduti.
E’ più comodo e di certo più ordinato dello scomposto scalpicciare quando ci si alza in piedi da noi, sfogliando rumorosamente le pagine. Questi innari tedeschi invece hanno le pagine così sottili, quasi trasparenti. Al termine dell’inno il pastore salmodiò qualche versetto di preparazione alla Santa Cena e a lei sembrò più simile a un rabbino che non al suo pastore. La gente delle prime panche cominciò ad alzarsi e ad andare verso il fondo della sala. Lentamente si misero in cerchio attorno al pastore che prese a dispensare il pane e il vino.
Poi tornarono ai propri posti e si alzarono gli altri, tutti tranne lei, e tutto si ripetè come prima. Sapeva che in qualche modo la sua estraneità le dava una sorta di immunità da ogni giudizio, eppure si sentì a disagio. Come sempre, come quando era nella sua chiesa e il calice passava tra le panche, non come qui tra le mani dei celebranti in piedi attorno al pastore, ma il disagio era lo stesso. La sensazione di essere fuori. Di essere un clandestino. Di non avere le carte in regola per stare lì. Di non avere una giustificazione.
Il culto stava per finire. Prima dell’ultimo inno durante il quale, come lei sapeva, il pastore si sarebbe avviato verso la porta per salutare i fedeli che uscivano, lei era già fuori. Le parve all’improvviso di riuscire di nuovo a respirare con facilità. Forse era il sole. Forse era l’aria frizzante dell’autunno. Si avviò verso casa mentre alle sue spalle risuonava l’eco dell’inno di chiusura. Tutto bene. Era andato tutto bene, aveva capito quasi tutto quel che era stato detto. Lo scopo era raggiunto. Non era forse per fare esercizio con la lingua che era venuta fin lì? Mentre i passi si susseguivano velocemente ai passi sentì confusamente che quello che cercava non l’avrebbe trovato in nessun luogo. Non tornerò più, si disse.