Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Seconda Edizione – 1997
Michela Deflorian
Ultimo atto
Non racconto quello che è successo, mi limito a rovistare nella memoria per fare un po’ d’ordine e buttare via poi quello che non mi serve più. Credo di non avere avuto alcuna colpa dell’accaduto (come se ora nulla di questo più mi riguardasse), ma la folla quel giorno urlava con rabbia l’esatto contrario. Forse mi sono atteggiato a persona arrogante, presuntuosa o magari distante e perciò non ho riscosso la simpatia del folto pubblico venuto ad assistere allo spettacolo. Però credo che chiunque al posto mio sarebbe stato un po’ smarrito: la vista di un omone con un cappuccio nero sulla testa ed una scure in mano impressionerebbe chiunque.
Eppure, in quel momento, mi sono sentito vivo come non mai. Gli odori erano più odori, i colori erano più colori, l’aria era veramente aria. Su quel palco mi sono sentito per la prima volta il padrone del mondo davanti ai suoi sudditi, ero il centro, il sole di quella loro gioiosa, feroce aspettativa. In quel momento, mentre mi guardavo attorno beato e smarrito, ho ripercorso gli strani avvenimenti del passato che mi avevano portato lì, sulla vetta del mondo.
Quando ero un bimbo, mi raccontava la mamma, avevo avuto una strana malattia che mi aveva cambiato, fatto diventare, così diceva lei , speciale. La mia andatura era divenuta traballante e facevo fatica a parlare con le persone, perché dalla mia bocca uscivano suoni strani, anche se dentro me le parole erano chiare; è da allora che incominciai ad osservare ed a gioire di tanti piccoli particolari del mondo che prima, con la mente piena di cose inutili, non avrei mai notato.
Questo è l’universo che da quel momento ho amato, e più di tutto ho amato il silenzio: quello sereno che sta alto sopra di te e ti fa respirare senza ostacoli, che ti fa sentire che il mondo è dentro e che tu sei un pezzo perfettamente combaciante del mosaico del mondo. Ma per tornare ai fatti che mi hanno portato qui, credo che sia accaduto tutto una mattina che, svegliandomi, trovai mia madre a terra, distesa, con la gonna tutta alzata; era la prima volta che le vedevo le gambe nude. La sua testa era reclinata di lato, accanto lentamente fluiva un liquido rosso e denso sulle tavole del pavimento.
Capii che da quel momento sarei stato solo, e ne fui triste; ma poi non ci pensai più. La mia esistenza da quel momento cambiò e mi trovai abbandonato, in una stanzetta piccola, sporca, con un letto scomodissimo e, soprattutto, con pochissima luce. Soffrii per tanto tempo. Fuori c’erano cose meravigliose che io non potevo più osservare, delle quali non potevo più stupirmi, la vita si spegneva piano piano e nuove strane sensazioni strisciavano nella mia mente. Erano angosce, buchi neri con voce di sirena, non potevo sottrarmi al richiamo.
E, risucchiato all’interno, l’orrore profondo che paralizzava, conteneva una gioia languida e malsana che mi tratteneva con le sue lunghe mani per non permettermi di scappare. Ieri (o forse un mese fa, un anno) finalmente una lama di luce, poi un fascio, finché il mio viso non ne è stato abbracciato. In un attimo riecco la gioia colmante ma rarefatta della libertà.
Le guardie mi hanno condotto in strada ed un’improvvisa cascata di voci mi ha riempito il cervello. Ecco la folla animata vociare, acclamare, infine urlare con voce trasformata, trasfigurata dall’ebrezza della vita. Mi hanno condotto su questo palco ad assaporare la mia onnipotenza. Mi sono inginocchiato, come mi hanno indicato di fare e, con la testa che rimbombava delle urla che quest’immensa folla lanciava solo per me, ho atteso, mai così felice e sicuro. Infine l’uomo incappucciato ha alzato la scure.