Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Seconda Edizione – 1997
Milvia Tuveri Aru
Il Premio
Incominciò tutto una sera. Una di quelle sere vuote che ti fan venire ad uggia tutto e che, quando finalmente tutti sono usciti, ti fan finire in fondo ad una poltrona con una pila di giornali vicino e, a portata di mano, galeotta, la scatola dei cioccolatini. Fu così che, tra un attentato e l’altro alla mia linea, trovai in fondo ad una pagina l’invito fatale : “Scrittori e giornalisti invitansi a riabilitare figura ingiustamente screditata del lupo”. Riabilitare il nobile animale che ha offerto ai leggendari gemelli di Roma le sue mammelle turgide? Riabilitare l’animale fiero ed ardito vittima infelice degli scherzi feroci di tre terribili porcellini?
Davvero è un’impresa troppo allettante perché me la lasci sfuggire e così , piena di zelo, abbandono poltrona e cioccolatini per rifare il look al mio amato lupo. Il sacro fuoco dell’arte arde dentro di me ed in breve sono circondata da una marea di fogli da cui alla fine viene fuori una storia romantica di amicizia e di morte, (eh sì, il povero lupo finisce male come sempre, ma finalmente muore da eroe), che affido subito al ventre caldo della cassetta delle lettere: giornalista non sono, scrittrice tento di esserlo, chissà che la lupa non mi porti fortuna.
I giorni e i mesi trascorrono lenti ed ho quasi dimenticato la crisi letteraria di quella sera lontana , quand’ecco inaspettato e strepitoso arriva il bollettino della vittoria: il premio è mio, ho vinto. Mentre mi abbandono ai sogni di gloria travolta da mille emozioni, il tam tam familiare entra in azione e presto il parentado arriva per festeggiare convenientemente una così degna rappresentante della casata. Un brivido di eccitazione scuote le vecchie zie che, abbandonati gli annosi ricami a mezzopunto, rievocano con aria sognante lontane glorie familiari mentre tutti corrono, chiedono, suggeriscono, ed io, l’Autrice, m’affanno intorno alla valigia finché, davanti ai vestiti ammucchiati sul letto, un pensiero atroce non mi fa urlare angosciata : “Che cosa mi metto per la premiazione?” Consapevoli della gravità del problema, in un attimo mi sono tutti intorno e ha inizio il balletto delle prove e dei consigli : metti questo, no, è troppo corto. Indossa, togli, prova : non c’è nulla che vada bene per tutti e a me pare di esser diventata una pupattola di pezza sballottata come sono qua e là da mille mani.
Quando alla fine crolliamo esauste sulle poltrone la decisione è presa: metterò la solita tunichetta nera perché il nero, si sa, va sempre bene e poi …snellisce. L’ora della partenza arriva inaspettata e scappo via seguita da un corteo di macchine strombazzanti colme di parenti che sventolano forsennatamente i fazzolettoni bianchi della nonna. I passeggeri, dal parapetto della nave, guardano allibiti la scena chiedendosi chi sia la personalità che sale a bordo così perfettamente mascherata da sconosciuta. Lasciando inappagata la loro curiosità sprofondo nelle viscere della nave, in una scatola che ha il pomposo nome di cabina, e si trova esattamente sotto il più grosso Tir del garage sovrastante.
Inutile dire che trascorro la notte con l’orecchio teso ai sinistri scricchiolii che provengono dall’alto, perché eroi si nasce ed io voglio vedere la morte in faccia quando avanzerà alla guida del Tir. Ho gli occhi pesti e la faccia sbattuta quando finalmente salgo sul treno che mi porterà a Milano, ma che importa? La gloria mi attende. La città mi accoglie vestita a festa, con i platani dorati avvolti da leggeri veli di nebbia di un grigio delicato (proprio lo stesso grigio che si usa quest’anno, noto ammirata per tanta cura dei particolari) e le strade animate da una folla indaffarata. Tutti mi sembrano bellissimi ed elegantissimi mentre, senza badare a nulla, corrono verso qualcosa d’importantissimo che pare li attenda dietro il primo angolo.
Contagiata dal loro dinamismo mi precipito anch’io verso l’albergo ed il portiere , attribuendo la mia richiesta affannosa ad impellenti necessità fisiologiche, è fulmineo nell’assegnarmi la camera più piccola e buia dell’ultimo piano. Davanti ad uno specchio verdastro, mi ritrovo così a trasformare una rotondetta e colorita casalinga provinciale nella sofisticata e pallida intellettuale che vorrei essere, ma il compito è immane : la perfetta tunichetta nera pare ora un sacco informe e dell’elaborata messa in piega di ieri restano solo quattro riccioli mosci. Sto per pronunciare il fatidico “ab renuntio” ma un sussulto d’orgoglio mi scuote ed alla fine, dai e dai, con un po’ di trucco, un filo di perle ed un barattolo di lacca, eccomi pronta per il debutto nel mondo letterario.
L’Hotel dove avrà luogo la manifestazione è tutto uno sfavillio di luci, un via vai di persone dall’aria importante a cui oso rivolgere solo timidi sorrisi mentre m’aggiro con aria sperduta nell’atrio enorme, affondando sino alla caviglia nei tappeti rossi. Qualcuno alla fine s’accorge di me e m’accompagna nella sala dove avverrà la premiazione; poi, assolto il suo compito, se ne va incontro a nuovi arrivati. Sembra che tutti si conoscano già perché tra loro ridono e scherzano, ignorando l’intrusa che se ne sta seduta lì, rigida come una scopa, senza saper che fare.
Riconosco qualcuno dei miei idoli e vorrei avvicinarmi, presentarmi, parlare con loro dei miei sogni, ma come fare? Gli sguardi scivolano su di me come sul più terso dei cristalli, mi oltrepassano come fossi fatta di evanescente nebbia, mi convincono quasi di essere diventata invisibile ed io mi sento così fuori posto che vorrei davvero sparire. Finalmente la premiazione ha inizio. Il presidente pronuncia il mio nome ed io mi alzo irrigidita per l’emozione e la paura di cadere lunga distesa lì, davanti a tutti, rovinando irrimediabilmente il mio ingresso nell’Olimpo dei Grandi, ma per fortuna non succede niente.
La busta bianca con il sospirato premio passa dalle mani affusolate e curate del Presidente alle mie, una salve modesta di applausi sottolinea il passaggio, ed in men che non si dica sono di nuovo al mio posto, trasparente ed invisibile come prima : sic transit gloria mundi. Le chiacchiere intorno a me ricominciano ed i miei sorrisi, pure ma in tutta la sera non avrò pronunciato dieci parole. Che racconterò a casa? Anche la cena si svolge all’insegna del sorriso : sorrisino a sinistra mentre servono gli antipasti, sorrisetto a destra quando arriva il primo piatto, sorrisino circolare in attesa del secondo. Gli altri commensali, quando non sono occupati a parlare tra loro, cortesemente ricambiano.
Un mio disperato tentativo di parlare almeno del tempo cade in un momento di silenzio generale con il risultato di far girare tutti a guardare con tanto d’occhi la sprovveduta che annuncia con voce squillante : “Stamattina c’era un po’ di nebbia.” Meglio rinunciare e buttarsi sugli addobbi floreali, gli abiti delle signore, gli stucchi dorati : dovrò pur raccontare qualcosa a zia Bice. Pian piano la sala si svuota : la festa è finita ed anch’io raggiungo l’atrio. Sul taxi che mi riporta all’albergo sfioro con le dita la busta bianca : questo di “tanta speme” oggi mi resta. E’ poco? E’ molto? E’ quanto basta per sognare ancora.