Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Seconda Edizione – 1997
Terzo Premio
Luigi Baldassarre
Violetta
Certamente era un inverno insolito. Mesi e mesi che il tempo si manteneva bello. Un sole che si ostinava ad esibire la sua luminosa bellezza, un cielo quasi mai annuvolato. Ogni tanto un lembo di nuvola s’alzava dietro le guglie dei monti ed allora tutti i valligiani a scrutarne i movimenti; tutti, una barriera di trepido silenzio, a esorcizzare la neve. Essi, delusi, a testa bassa, ripercorrevano il quotidiano di una vita rallentata, ora che le stazioni climatiche giacevano deserte, ora che i campi di sci avrebbero meglio ospitato una distesa di grano con rosolacci e fiordalisi. Seduto sopra un masso affiorante dal terreno, nonno Carlo fumava con le spalle alla casa, un intreccio preciso di legni ricavati dal bosco, che si era costruito nei tempi lunghi del riposo, da quando cioè aveva messo i cavalli nello stallo a figliare, da quando aveva fermato la sua diligenza rossa nel deposito della legna. Spesso andava a fumare lì dentro, sedeva allora nel posto dei passeggeri a ripetere le storie vissute.
Nessuno aveva più bisogno di lui. Ora a percorrere il corridoio fra le minacce dei picchi incombenti che strozzavano in due la valle, c’erano gli autobus. Il suo, allora, era divenuto un servizio tutto speciale: quando la neve bloccava ogni transito, c’era nonno Carlo a ripristinare il contatto, a collegare i monconi della valle. Nonno Carlo, con la diligenza rossa ormai fuori dalla storia, i sei cavalli scalpitanti con il fuoco nei garretti, lo schiocco della frusta, che sapeva imbrigliare al volo ogni evenienza funesta. Allora, da conquistatore, attraversava il corridoio della morte, e le montagne quasi si ritiravano, rispettando il suo passaggio sicuro. Violetta la videro subito. Impossibile mimetizzarsi tra i volti del luogo, né c’era, del resto, la folla dei turisti in cui confondere la stravaganza di un’immagine. Violetta aveva lo sguardo di una zingara : capelli neri di notte lunghi di nostalgia, labbra d’ibisco schiuse per fugaci paradisi. L’avevano vista spostarsi di qua e di là, poi prendere diritto verso il pianoro dove abitava nonno Carlo.
Aveva un incedere svogliato, si sdraiava tra l’erba e rideva al sole, si bagnava al ruscello e giocava con l’acqua, si nascondeva dentro la linea compatta dei larici al margine del bosco. Nonno Carlo da lontano seguiva ogni mossa. Inconfondibile quella macchia di colore nel verde del trifoglio; il nero dei capelli, il rosso della camicia, il verde della gonna sfrangiata. Non veniva certo per fermarsi. Così nonno Carlo l’aspettava, ma senza l’ansia della curiosità. Giunse l’indomani. Violetta sedette a cavalcioni sul muretto di recinzione, si chinò sino ad immergere il suo viso nei cuscini di Dafne fioriti fra gli interstizi, ne respirò a polmoni pieni il profumo e, con il tono dell’incontro fortuito, sussurrò : “Salve”. Nonno Carlo guardò attonito e per la prima volta conobbe la sorpresa. “Salve” rispose fra i denti. Cupo, nettamente in contrasto con la radiosità di lei, che gli portava il dono di una bellezza spensierata.
Lo guardava dritto negli occhi, dondolava con impertinenza infantile la provocazione delle sue gambe nude. Vide che era scalza. Ripose gli arnesi di lavoro con la cadenza solenne di un rito, poi entrò in casa. Violetta gli fu subito dietro. Ai piedi aveva passi di danza. Mangiarono con la voracità dei poveri. Con il gusto dei poveri. Davanti al fuoco. Guardando il fuoco. Poi Violetta si rannicchiò, un giro di braccia attorno alle gambe, la testa china sulle ginocchia. E allora fu un solo colore. Il nero dei capelli chiudeva il rosso della camicia e si mischiava al verde della gonna. Un intreccio di colori che il fuoco del camino arroventava con lingue di sangue. E nonno Carlo per la prima volta sentì la paura . Non dormì per tutta la notte, al risveglio Violetta era sparita. Dileguata, come un sogno. O un incubo?
Nonno Carlo non possedeva ancora la risposta. Ma ebbe sconvolgente l’intuizione dell’infinito. Lui stesso era l’infinito. Pensò di accendere il fuoco e quando andò nella legnaia, la vide. Dentro la diligenza rossa, fra le labbra un filo di trifoglio, lo sguardo predatore. “Ah, è qui che eri nascosta?” “Non ero nascosta” corresse Violetta “ti aspettavo”. Calma, sicura. “Che vuoi da me?” si decise a chiedere nonno Carlo. “Mi devi portare dall’altra parte”. Non sapeva perché, ma nonno Carlo si scoprì di respirare sollievo. “Ci sono gli autobus per questo” la voce quasi cantava. “Non te l’hanno detto?” Violetta scosse la testa in un diniego lento. “Mi servi tu”. “Ma tu non servi a me”. Brusco, per allontanare l’irrazionalità di un presagio funesto. “Presto sarai tu a cercarmi, a volermi portare dall’altra parte” sentenziò Violetta.
Nonno Carlo sbuffò. La sicurezza di quella donna strana, la sua calma, la sua pazienza, ingigantivano la molestia della sua presenza. Così bella, nello squallore della sua capanna. Così piena , che bastava da sola a colmare la stanza della sua vita. Bastava con il sorriso ad accendere il fuoco, le sue caviglie nude, i fianchi di donna buona a partorire figli gagliardi. Quella sera si rintanò nella piccionaia, un vano ricavato sotto il tetto, fermando il chiasso dei pensieri, perse la coscienza del tempo, e lui stesso fu tempo.
La mattina dopo Violetta l’aspettava davanti al fuoco, aveva scaldato il latte e glielo offriva con l’usualità di un gesto che la rendeva familiare. Nonno Carlo non era abituato a presenze femminili. Non aveva mai sentito il bisogno di una compagna : con sé aveva l’allegria crepitante del fuoco, i giochi del vento, la fantasia della brina, la sensualità vellutata dei prati, la potenza dei monti, la dolcezza umile dei muschi, il riso degli uccelli, la sacralità del silenzio. Insomma aveva la vita. Così ora, guardando Violetta, scoprì che a sconvolgerlo non erano gli occhi della maliarda, ma la dolcezza della madre. Violetta era sua madre. Quello fu un giorno di lavoro, e Violetta era con lui.
Ora s’era abituato a lei : come se l’avesse avuta sempre vicino. Rientrando s’accorse di un’aria ruvida che gli arrossava il viso. Uno spessore cupo, carico di tempesta, colmò presto le insenature del cielo cingendo le guglie con un legaccio di fumi neri, e quando il vento s’incanalò nella valle, fu il finimondo. Allora non ci fu riparo. Entrava nelle fessure della casa con un sibilo acuto e persistente, scavava squarci nel tetto, violentava il fuoco, scuoteva la gonna di Violetta, eccitava i cavalli che scalpitavano di paura.
Poi scese la neve, non c’era la gioia in quella nevicata, solo la forza che eccitava la sfida. Raccolta dentro una coperta, ferma come statua, Violetta era il fantasma della vita. Durante la notte il gelo sigillò porta e finestre, chiudendo la casa in una trappola mortale. Fuori una muraglia costruita dal vento e resa granito assediava la casa, isolandola dal resto del paese. Solo verso la strettoia del canalone, fra il Picco Grande e la Punta Solitaria, il varco era fatalmente libero. Allora nonno Carlo si costruì il passo fino ai cavalli.
Li trovò gementi, intirizziti, impauriti, ma vivi. Li rifocillò, li confortò. Usava parole dolci, il tono sicuro di chi non può mentire, la protezione della mano che aveva calore, affetto. Quando rientrò, guardò Violetta, scivolò lungo il precipizio dei suoi occhi e toccò l’abisso della morte. “Ne ero sicura” sorrise Violetta “contavo su di te”. Sì, Violetta era venuta per lui, solo per lui, seppe che gli era stata sempre vicino, che gli era stata buona compagna. “Sono il premio della tua vita di coraggio” continuò. “Per questo non ti ho rapito. Solo ai virtuosi mi presento senza inganni. Solo a chi lo merita so concedermi in tutta la profondità del mio mistero.”
E nonno Carlo seppe che la sua vita era stata un progetto di morte. Non ebbe paura, ora che Violetta era una certezza, ora che rientrava nei limiti della sua dimensione umana, ora che fra la vita e la morte non c’era più barriera, ma sconvolgente continuità. Si preparò, con la diligenza rossa, i sei cavalli pezzati, la frusta, il fuoco della lotta. Violetta intanto era scomparsa, ma nonno Carlo non aveva più bisogno di cercarla, era dentro di lui come una promessa sicura. Scivolando sullo spessore del ghiaccio, arrivò fino al canalone e fu dentro a un deserto bianco profondo come l’infinito che non ammette profanazioni. Lì, sessant’anni prima s’era staccato da una propaggine nevosa per determinarsi “Nonno Carlo”.
Lì era tornato per rientrare nella universalità del cosmo. Levò gli occhi al Picco Grande e fu quello il segnale. La vide staccarsi. Scivolare. Gonfiarsi. Uno schiocco di frusta, un balzo in avanti, rapido, preciso e ce l’avrebbe fatta, certo la sua non era una leggenda da ciarlatano. Ora sapeva morire. Il tempo era maturo. Nel fragore agghiacciante che precipitava, solo nonno Carlo poteva udire la melodia di un richiamo. E godere. Fermo, immobile. E i cavalli, quieti. Per diventare insieme cristalli di neve. Quando il vento si nasconde nella casa vuota di nonno Carlo e accende fuochi nel camino, allora i bambini del villaggio, levando gli occhi al cielo, dicono ancora e sempre : “Nonno Carlo fuma”.