Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Settima edizione – 2007
Rosa Romano Bettini
Una stazione sbagliata
Salii sul treno per Ventimiglia e il capotreno fischiò la partenza. Qualche minuto dopo, guardavo dal finestrino il rapido dispiegarsi di vallate e colline, ma il pensiero non seguiva lo sguardo: fuggiva, rincorrendo una frase pronunciata poche ore prima da Mara, la mia amica collega, un po’artista, occultista, naturista “Quando nasci ricevi in dote una grossa valigia e sali su un treno che non sai dove andrà”.
“E’ la vita!”, pensavo, “una valigia e un treno”.
Di fronte a me un ragazzo, occhi socchiusi e auricolare, si faceva cullare dal ritmo di chissà quale musica. Appariva assente, lontano dal piccolo mondo di noi travet e io pensai che forse la musica faceva parte della sua valigia.
“E nella mia?” mi chiesi, “cosa c’è nel mio bagaglio di nascita?”
Chiusi gli occhi per ricordare o forse per non pensare e quando li riaprii, molto tempo dopo, m’accorsi che il vagone era vuoto.
Strano!pensai.Di solito il treno iniziava a svuotarsi solo dopo Savona.
Entrò in quel momento il controllore. “Dove siamo?” gli chiesi.
“La prossima è Albenga”
“Albenga? E Varazze?” chiesi.
“Varazze? Varazze l’abbiamo passata da un pezzo! Scusi lei dove va?”
“A Varazze vado; anzi andavo, ” risposi. “ e adesso? Mi sono addormentata…”
“Mi dispiace, devo farle pagare la differenza” continuò.
“Pago sì, ma… a che ora che c’è il treno che torna?”
L’uomo consultò l’orario, poi guardò l’orologio e scosse il capo “deve aspettare fino a domani mattina alle cinque”.
Lui uscì e io mi precipitai a telefonare a Luca, mio marito, che mi aspettava a Varazze.
“Ma dove hai la testa? Fu la sua risposta. “Non so che dirti, vedi cosa puoi fare e stai attenta”.
Era mezzanotte passata da alcuni minuti quando scesi ad Albenga.
Vuoto assoluto e silenzio: non sembrava una notte d’estate al mare. Per un attimo ebbi quasi paura.
“Coraggio”, mi dissi, “magari c’è un altro treno, il controllore può non aver letto bene.”
Ma il controllore aveva letto bene: vuoto assoluto fino alle cinque.
“Un taxi, costerà una fortuna, però non ho scelta, ” decisi, ignara che alle 0.35 di un giovedì notte d’agosto non avrei trovato l’ombra di un taxi.
“Non mi resta che cercare un albergo”, conclusi. Così entrai nell’albergo vicino alla stazione, ma ricevetti un garbato rifiuto: non avevano camere e poi era tardi, che tornassi l’indomani mattina.
Sconsolata, m’incamminai verso il centro che mi sembrava di ricordare, essendoci venuta in un giorno di pioggia di molti anni prima.
“E se chiamassi Marco?” mi chiesi. “Dovrebbe essere a Sanremo!” In fondo era mio figlio. Così feci ma, a differenza di Luca, lui rise. Poi mi disse che non poteva, era in viaggio per Montecarlo. “Vai in una discoteca o in un pub, restano aperti fino al mattino.”
“Discoteca…” brontolai. Fosse stata una chiesa, ma quelle, si sa, alla sera sono chiuse.
Pensavo rimuginando tra me, e più pensavo più mi cresceva dentro una rabbia che a un certo punto non riuscii a controllare. Spensi il telefono: al diavolo Luca, Marco… la notte era lunga, qualcosa avrei fatto e quel qualcosa riguardava soltanto me.
Ero stanca, avevo sete e anche un po’ fame, quando aprii la porta del pub.
Luce soffusa, fumo, musica, odore di birra e crema solare. E poi giovani, un intero locale di giovani; parlavano ammiccando, facendosi segni e sorrisi. Mi colpì una ragazza: sì e no diciotto anni, robusta, capelli castani di media lunghezza, nulla di particolare, sarebbe passata inosservata se non fosse stato per il sorriso vibrante. Fu proprio lei che, rivolgendosi agli altri, ad un tratto propose: “Si va in spiaggia a vedere le stelle? Hanno detto che quest’anno cadranno prima.“
Bastò quella frase perché mi assalisse la nostalgia: del mio mare d’adolescente, si corse sulla sabbia rovente e tuffi azzardati contro le onde, salsedine e musica rock, mani avvinghiate alla pelle e cuore che scoppia per l’emozione, e ancora sogni, tanti sogni, affidati alle stelle, nella notte di San Lorenzo.
Provai malinconia e subito dopo una voglia improvvisa e violenta. “Perché no?” mi dissi “Perché non andare in spiaggia a vedere le selle? Da sola?” domandava una parte di me; “sola, certo!” mi rispondevo con una voce diversa.
“Andiamo… ” diceva intanto la ragazza ai suoi amici.
Li seguii a distanza.
Camminavo, incredula, quasi esitante, combattuta tra la parte di me, quella ragionevole, che mi ricordava quanto fosse sciocco ciò che stavo facendo, e l’altra parte, sconosciuta, tenuta a bada da anni, che invece insisteva e reclamava per andare avanti.
Finalmente arrivammo e io restai per un attimo ferma a guardare il mare scuro e fosforescente che, sotto un cielo affollato di stelle, carezzava i contorni dell’isola Gallinara; altro non c’era se non spiaggia nuda e un profumo di sole e salsedine che saliva dal cadenzato sciacquio delle onde.
I ragazzi intanto avevano continuato ad andare, li vedevo lontano, a tratti mi arrivavano le loro voci festose. Sorrisi, pensando che tanti anni prima ero stata anch’io come loro e che proprio il mare mi aveva trasformata.
Ripresi a camminare sulla spiaggia sassosa, la mente affollata di pensieri e domande, quando vidi un piccolo stabilimento balneare con le sdraio rosse e gialle, già aperte per l’indomani.
Qualche minuto dopo me ne stavo distesa su una di quelle sdraio e con gli occhi cercavo le stelle. Poco più in là echeggiavano le voci dei ragazzi, impossibile non ascoltarle, coglierne la vitalità, la freschezza, l’ingenuità e la sicumera di chi é convinto di avere il mondo a disposizione, di poter fare tutto, anche scoprire l’infinito, come avevo creduto io, tanti anni prima, in una notte d’agosto, durante la quale avevo ballato freneticamente per ore e ore e alla fine, proprio mentre il sole sorgeva e colorava di rosa la luna, mi ero lasciata andare: messicano o californiano, non ricordavo, però ricordavo il respiro, la febbre che bruciava la pelle, l’eccitazione del pensiero e dei sensi. L’amore! Era stata la mia prima volta.
Dopo, mi ero sentita grande, ormai certa di poter prendere la vita per il verso giusto, e solo più tardi, un mese o poco più, avevo avvertito un sapore d’amaro. “Non è successo niente” mi ero detta, ma sapevo che qualcosa dentro me era definitivamente cambiato.
L’avevo vissuto come un incubo: da una parte la tensione di mia madre, che la parola aborto non l’aveva voluta neppure sentire, dall’altra l’indifferenza di mio padre. Era stata mia madre a risolvere tutto; io, sopraffatta dall’incredulità e dal peso, troppo greve per i miei quindici anni, l’avevo lasciata fare. Però, e me ne rendevo conto proprio ora, l’avevo odiata. “Per prima cosa” aveva detto, dopo aver pianto, pregato, e infine parlato col prete, “tacere, ché la soluzione al problema c’è, l’importante è non far sapere; lo dico per il tuo bene, sei giovane e hai una vita davanti.”
Da qui le lezioni di portamento, il busto stretto, la scusa della depressione a giustificare assenze e improvvisi malesseri, e il viaggio. Avevo fatto Milano-Palermo da sola, su un treno stipato di gente e d’odori, cento e una fermata, il traghetto che non arrivava, e lo smarrimento, la paura, un incubo fino alla stazione di Palermo, quando finalmente avevo visto Peppino, il giardiniere del convento.
Cinque mesi in convento, ospite di suor Maria, cugina della mamma.
Non ero stata male, a parte la situazione. Ancora adesso ricordavo la tranquillità, il clima mite, la vegetazione rigogliosa, il panorama mozzafiato – dalle finestre del convento riuscivo a vedere uno scorcio di mare. Suor Maria mi aveva insegnato a ricamare e a esser paziente, ad amare la vita, ché ogni cosa è dono di Dio, diceva. Aveva una bellissima voce Suor Maria, soprattutto quando cantava le lodi.
“Disturbo?” domandò da dietro una voce, con una lieve inflessione piemontese. Mi voltai e vidi un uomo: pallido, capelli neri che sfioravano il collo, naso aquilino e occhi mobili. Mi colpì il suo profumo. Era strano: sapeva di sale, di mare, di jodio, acqua e sudore maschile.
“Sei sola?” chiese ancora lui.
Aveva un non so che di eccitante…“Sì” risposi
“Se ti do fastidio me ne vado” disse. “E’ che ti ho vista qua sola e…ho pensato che” si fermò. “Scusa, dico sciocchezze, lo so….”
Si sedette sulla sabbia ai miei piedi. Lo guardai meglio e provai tenerezza, sembrava un bambino cui era mancato qualcosa. Anche al mio abbandonato a Palermo…il mio…, il mio?
Era la prima volta che pensavo a quel bambino come a mio figlio! Eppure non ero riuscita a vederlo e quando mi ero svegliata, (dopo un impegnativo intervento) suor Maria, sorridente, il rosario tra le mani, mi aveva bisbigliato, con una leggera, impercettibile, dolce carezza “prega, che è tutto finito”.
“Bella notte vero?” disse ancora lo sconosciuto e con le dita disegnò sulla sabbia i contorni di un volto. Ebbi un tremito di paura: non sapevo perché ma sentivo che quell’uomo stava facendo affiorare cose sepolte e dimenticate.
“Quanti anni hai?” gli chiesi di botto.
“Trentanove” rispose.
Chiusi gli occhi e pensai a quel bambino: ora ha trent’anni, mi dissi e feci un lungo respiro. Non avevo più saputo niente di lui, solo una volta mia madre, in un momento di debolezza, mi aveva confidato che era in una famiglia per bene.
“Che c’è non ci credi? Ne dimostro di meno è vero, ma ti assicuro che è la verità…”
La verità io non l’avevo mai detta a nessuno.
Rientrata a Milano, avevo ripreso la stessa scuola, ma non la stessa vita.
All’improvviso avevo scoperto che le mie compagne non mi piacevano più: le consideravo delle stupide e vuote bamboccie che vivevano soltanto per i Beatles, indossavano super-mini e giocavano a fare le donne impegnate.
Per reagire mi ero messa seriamente a studiare, tanto che avevo recuperato l’anno perso, perso, non avevo perso solo l’anno di scuola, ma tutta intera l’adolescenza.
E così, precocemente adulta, coltivando del rancore in silenzio, giacché le preghiere di Suor Maria erano servite a poco, ero diventata noiosamente concreta: mi ero laureata, m’ero cercata un lavoro importante e autonomo e quando avevo conosciuto Luca, avevo deciso che quell’uomo era giusto per me: benestante, serio, non mi avrebbe riservato sorprese.
“Beh… forse sono inopportuno…” disse ancora lo sconosciuto e si alzò.
“Chi sei?” gli domandai a bruciapelo.
“ Già, non mi sono presentato: Gianni, anzi Giovanni”
Si rimise a sedere e si raccontò: era nato a Torino, da una famiglia modesta, i suoi avrebbero voluto vederlo, giacca e cravatta, in ufficio. Invece li aveva delusi, perché fin da piccolo litigava con la meccanica e i numeri, neanche il pallone lo interessava.
Lo guardai: “Non esagerare.” Gli dissi
“Non esagero, è la verità.” Rispose lui. “Non mi piace l’omologazione, ti spegne dentro, t’impedisce di costruire sogni.”
“E ora che fai?” chiesi.
“Per tutta l’estate resto qui, ospite di un amico che ha un chiosco di bibite. Intanto giro per le spiagge e faccio ritratti.”
“Ma non è un vero lavoro, sei sicuro di aver fatto la scelta giusta?“
“Chi può dirlo, “ rispose lui. “Tu sei sicura di aver fatto la scelta giusta?” mi chiese.
Fu un pugno allo stomaco.
“E io, cosa?” domandai ancora, sebbene nella mia testa già si delineasse la resa.
Fu così che sulla spiaggia d’Albenga, in quella notte speciale d’agosto, mi raccontai, dopo anni di silenzio, a uno sconosciuto pittore di strada. Gli svelai il mio segreto e lui, Gianni, mi ascoltò in silenzio, mentre con le dita, andando su e giù sulla sabbia, tracciava il contorno di un volto.
“ Tuo marito, lo sa? “chiese alla fine.
“No, non gliel’ho detto, mi è sempre mancato il coraggio”.
“Capisco” disse Gianni “ Peccato. Poteva essere un’occasione…”
“Un’occasione?
“Esprimi un desiderio, forza!” m’interruppe Gianni, indicando le stelle.
Alzai gli occhi: una minuscola stella scendeva a picco, giù, giù… Il desiderio… il desiderio…non ebbi il tempo di esprimerlo, alla mente stranamente s’era affacciato un pensiero, ed era: non c’è più posto nella valigia.
S’alzò un filo di vento e cominciai a tremare, Gianni tolse dallo zaino una felpa e me la appoggiò sulle spalle. Poi con le dita prese ad accarezzarmi il collo e la nuca. Rabbrividii. Da quanto tempo un uomo non mi accarezzava così? Tremai un’altra volta e lui se n’accorse. “Hai freddo” disse. “Vieni andiamo a ripararci nel chiosco”.
Entrammo nel chiosco illuminato dai pochi riflessi lunari che filtravano da alcune fessure. Ci sedemmo sulla branda e lasciai che le sue mani mi rivelassero emozioni remote. Navigarono, le sue mani, lungo sentieri a me sconosciuti, scavarono dentro il mio corpo fino a raggiungere l’anima. Non ci dicemmo parole abusate, eppure fu amore.
Alle cinque, mentre ancora ci stavamo narrando, vidi l’alba ferire la linea dell’orizzonte ed ebbi un palpito di commozione. “Devo andare” dissi, anche se controvoglia
“Resta ancora un po’” sussurrò lui.
Lo guardai e nuovamente rabbrividii. Mi ricordai la valigia: la mia vita, i miei segreti, i progetti, sogni e rinunce, erano tutti racchiusi lì dentro. Pesante e un po’ logora, quella valigia era solo mia, ma era già piena. Per far posto alle mani di Gianni avrei dovuto togliere qualcosa.
Scrollai il capo e mi alzai.