Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Settima edizione – 2007
Anna Frosali
Fotofinish
Qualcosa la riscosse dal torpore. Socchiuse le palpebre e si guardò attorno. Il ragazzo sbracato sul sedile di fronte seguiva con impercettibili movimenti il ritmo della musica che gli arrivava dagli auricolari, lo sguardo perso. La donna accanto sonnecchiava a bocca aperta, aperta come le cosce cicciute delle gambe corte che, dondolando, arrivavano a malapena a toccare il pavimento. Poi c’erano le altre due, sedute l’una di fronte all’altra, che forse non avevano mai smesso di parlottare a bassa voce di assemblee e direttivi sindacali. Sarebbero scese a Bologna, lo aveva sentito prima di assopirsi. Erano due delegate, ci avrebbe scommesso. Faccia senza trucco, gonnelloni informi, tracolle sudamericane dalle quali spuntavano fascicoli dattiloscritti. Chissà perché le avevano fatto pena. Ancora? Si era chiesta. Ancora così? Le scarpe senza tacco, la gonna, la borsa, le unghie corte, le labbra pallide, esibite come un manifesto, come uno striscione, come uno slogan fuori tempo. Pensò che stava diventando bisbetica. Loro, almeno, forse ci credevano ancora. Lei era stufa di rincorrere contratti in treno, in macchina, in aereo, per raggiungere gli obiettivi annuali, per rientrare fra i “bravi” da applaudire alla convention, di partecipare ai riti dei viaggi premio, di celebrare i successi dell’azienda, di autocelebrarsi, annoiarsi, incazzarsi. Da un po’ di tempo, se a fine giornata si sforzava di pensare a come l’aveva passata, le veniva in mente un diagramma piatto.
Eppure un tempo si era anche divertita.
Giulia guardò oltre il vetro del finestrino ed ebbe la percezione di trovarsi dentro un paesaggio familiare. Sì, quelle colline, quei campi, qualcosa, un non so che.
Si alzò e andò nel corridoio. Il treno superò la piccola stazione ma fece in tempo a catturare l’insegna. Ma guarda, mi sono svegliata proprio qui.
Si sentiva spaesata. Costruzioni nuove a ridosso della ferrovia, palazzine ordinate, tetti di tegole, balconi con cascate di gerani, caldaie per il riscaldamento autonomo, antenne satellitari. Il tetto del casale sarà ancora visibile? Le sembrò di riconoscerlo, subito ingoiato dalla velocità.
Risentì lo stridore del treno che si fermava, lo sbattere degli sportelli, le cicale d’estate, la nebbia e l’odore amaro di lignite d’inverno, il fischio del capostazione, gli abbracci dei cugini.
Da quanto non li vedeva? Ogni tanto si sentivano e ogni volta una promessa, appena posso mi fermo da voi. Quanto tempo era passato?
Rientrò nello scompartimento e frugò nella borsa alla ricerca dell’agenda. Sta a vedere che non ho ricopiato il numero. Invece c’era. Prese il cellulare e telefonò. Domani, al rientro mi fermo da voi. Che bello, ti sei decisa. Però, anche voi, mai una volta che… Il babbo è troppo vecchio, non lo possiamo lasciare…
Dei vecchi era rimasto solo lui, Francesco. Gli altri erano tutti morti. Morta la zia Andreina, sorella maggiore della madre di Giulia. Morti Giacomo, fratello di Francesco, e sua moglie Tina. Morti i loro figli prima di nascere.
La famiglia era rimpicciolita. Il cugino Luigi e sua moglie Elena avevano due maschi ormai giovanotti e Fiorella, marito non lo aveva trovato. Stop.
Giulia era la cugina di città che aveva trascorso lunghe vacanze estive nella grande casa come quelle che disegnano i bambini, l’ingresso al centro della facciata e due finestrelle ai lati, una di qua e una di là, che diventavano tre al primo piano, una di qua, una di là e la terza proprio sopra al portone. Dentro, al piano terra, il forno, la porta di comunicazione con la stalla, i magazzini, la pompa a mano dalla quale usciva acqua dall’odore e dal colore rugginoso. La scala che portava al piano superiore immetteva direttamente nella cucina che a lei, abituata a vivere in due camerette, sembrava immensa, una parete intera occupata dal camino nel quale si poteva stare in piedi.
Il ricordo degli odori la investì. Quello di letame saliva e si arrestava in cima alla scala dove, come per magia, veniva ricacciato e annientato dai profumi della cucina: legna che ardeva e pietanze che cuocevano sul focolare o sulle piastre della stufa. Annusò il sentore speciale delle camere da letto: liscivia e sapone da bucato, sacchetti di lavanda e di erbe sconosciute, cera rossa sul mattonato.
Giulia sorrise fra sé al ricordo dell’odore delle mele allineate su un tavolaccio a maturare nel locale che attraversava per rintanarsi nella stanza del cugino Luigi. Lui a quell’epoca frequentava il liceo e, finito di studiare, partiva tutto azzimato per incontrarsi con gli amici o a caccia di ragazze. Aspettava di vederlo attraversare l’aia e varcare il cancello, poi si precipitava nella sua camera dove c’era la collezione dei libri di Salgari. In un’estate li aveva letti tutti, sdraiata sul letto del ragazzo, avvolta dalla dolcezza acida degli ormoni in tumulto del cugino che impregnava le lenzuola e la faceva illanguidire. Allora si guardava allo specchio dell’armadio e si vedeva come una salsiccia, di quelle che lo zio Francesco lavorava quando ammazzava il maiale.
Poi, un giorno si scoprì diversa. Il maglioncino blu faceva intravedere la curva dei seni che erano esplosi, la vita assottigliata, i fianchi rotondi fasciati dalla gonna scozzese a pieghe. Era arrivato il momento di smettere di correre e cominciare a camminare. La guardavano. Incrociandola, i ragazzi, e anche qualche uomo adulto, la soppesavano con gli occhi e spesso le sussurravano parole che la mettevano in subbuglio.
Quell’estate lo sguardo allegro e pungente dello zio Francesco le rivelò che stava diventando grande e che a lui le donne piacevano, e molto.
Luigi cominciò a portarsela dietro. Per i suoi amici non era più trasparente. La guardavano di faccia, di fianco e di dietro. Era diventata tridimensionale.
Un ragazzo alto e magrissimo, la faccia pustolosa sempre triste, le scodinzolava attorno come un cane gentile. Lo zio Francesco, quando lo vedeva apparire al cancello, esclamava ridendo: “Giulietta, ecco Agonia che fa finta di venire a cercare Luigi”. E da quell’estate diventò Agonia per tutta la famiglia.
Francesco e il fratello lavoravano nei campi fin dall’alba e quando lei si alzava li trovava al tavolo di cucina a fare la colazione di mezza mattina. Pane, prosciutto, vino rosso e poi via, fino all’ora del desinare.
Le due cognate non smettevano mai di trafficare. C’era da tagliare l’erba per i conigli, dare il becchime alle galline e ai tacchini, raccogliere le uova, foraggiare le mucche, mungere, vendere il latte, rassettare la casa, cucinare, cucire, rattoppare. La loro giornata finiva a tarda sera.
Quando sua madre le aveva detto che gli zii erano ricchi si era stupita. Sì, erano molto ricchi e continuavano ad accumulare terreni, case e soldi in banca spezzandosi la schiena e risparmiando come formiche. Eppure aveva creduto che solo i poveri fossero costretti a lavorare così tanto e spendere così poco, a privarsi di tutto come la zia che, quando si mettevano a tavola, riservava agli altri i pezzi migliori, lasciando per sé brandelli di arrosto o zampe e colli di pollo lesso che accompagnava con enormi fette di pane.
Giulia era incuriosita da questa donna, così diversa dalle altre sorelle, bellocce e opulente, che non bisbigliavano preghiere mentre facevano le faccende, non andavano ogni mattina alla prima Messa e non avevano vergogna di ridere.
La zia Andreina le aveva sempre fatto venire in mente una formica. Piccola, segaligna, la faccia incolore, timorosa del suo stesso sorriso che mascherava dietro la mano sformata dalle fatiche. Non ricordava di averla mai vista senza l’ampio grembiule stretto sul vestito di cotonina a piccoli fiori stinti. Anche l’abito buono era scuro, nero o tutt’al più blu, appena rischiarato dal colletto bianco della camicetta. Una monaca, una monaca in borghese.
Sua madre, ultima di sei figli, aveva un vago ricordo del giorno del matrimonio di Andreina, la maggiore. Era una ragazza dalla bellezza delicata di cammeo, aveva detto. Pazzamente innamorata di Francesco, bello e esuberante. “Forse troppo”, aveva aggiunto.
“Perché troppo?” aveva chiesto Giulia.
La madre aveva cambiato discorso. Ma la smorfia era quella di una che la sapeva lunga.
Innamorata pazza. C’era proprio da non crederci a guardare la maschera dolente di quella donna che, anche a voler trovare le parole, sarebbe stato difficile descrivere nei particolari, tanta era la volontà di mimetizzarsi, di passare inosservata, di scomparire.
Però un particolare c’era.
Quando a metà pomeriggio i due fratelli rientravano dai campi, si lavavano, sbarbavano, indossavano una camicia pulita e uscivano, a volte insieme, altre separatamente. E se lo zio Francesco varcava da solo il cancello e scompariva sulla strada che portava al centro del paese, Andreina, come un fulmine, si liberava del grembiule buttandolo dove capitava. Poi, dopo qualche minuto, si lanciava a grandi passi sulla sua scia. Partiva come un cane da caccia e tornava come un vitello. Si legava il grembiule alla vita e entrava nel fienile a dar da mangiare ai conigli. A volte le era sembrato che ne uscisse con gli occhi rossi, ma non ne era sicura.
E così fra una vacanza e l’altra, fra una visita e l’altra, erano passati gli anni. Poi era cominciato il lavoro, poi la curiosità di vedere il mondo, poi la carriera, e poi, dopo Tina e Giacomo, anche la zia Andreina era morta. A sentire il parroco, che la conosceva bene, si sarebbe detto in odore di santità.
“Non ti sembra un’esagerazione?”, aveva sussurrato Giulia a una lontana parente che durante la funzione funebre le sedeva accanto.
“Poveretta, quello che è certo è che ha fatto una vita di espiazione. Ma questo il prete non lo può raccontare”.
“Espiazione? Che vuoi dire?” aveva incalzato. La donna le aveva fatto un cenno circolare con l’indice della mano che teneva in grembo come a dire “te lo racconto dopo” e aveva taciuto compunta, lasciandola distratta per tutto il resto della cerimonia.
Alla fine delle esequie, pur di restare sola con lei, si era offerta di darle un passaggio fino a casa e così, durante il tragitto in macchina, Giulia aveva scoperto il segreto di Andreina.
Risucchiata dai ricordi, si accorse che il treno era entrato nella stazione di Bologna solo quando le due sindacaliste, raccattate le loro cose, si avviarono nel corridoio verso l’uscita.
Un giovane prete chiese il permesso di occupare uno dei posti liberi. Era di una bellezza imbarazzante. Sudamericano? Forse. Mentre lo fissava Giulia non poteva fare a meno di immaginare come, oggi, un prete avrebbe potuto gestire Andreina, cosa sarebbe stato in grado di dirle, lui, che di quel tipo di tormenti non sapeva niente, magari non l’avrebbe neanche creduta, avrebbe avuto espressioni vagamente rassicuranti verso una donna esaltata, una mitomane forse. Ma se era davvero sudamericano, avrebbe potuto capirla meglio… laggiù c’è la santeria, si praticano diavolerie, macumba, stregoneria.
Il giovane prete, sentendosi osservato, la guardò dritto negli occhi e le fece il sorriso di plastica di uno che è abituato a essere guardato dalle donne. Poi tirò fuori dalla tasca interna della giacca un libriccino e si immerse nella lettura.
Sicuramente è uno avviato alla carriera ecclesiastica – pensò – troppo bello, troppo distinto per un’Andreina qualunque che aveva scoperto che il marito manteneva un’amante in paese, un’amante che aveva sistemato in una delle case di sua proprietà.
Il giorno del funerale, la lontana parente le aveva raccontato che la zia era andata fuori di testa dalla disperazione, che aveva supplicato Francesco di interrompere la relazione in nome dei figli e delle promesse fatte davanti all’altare, pare che perfino il parroco avesse cercato di convincerlo. Ma non c’era stato niente da fare. E lei, che non aveva armi per competere con una che si chiamava Perla, che era una femmina trionfante, che se ne sbatteva delle chiacchiere, si andava consumando come una candela finché, visto che i santi non la ascoltavano, aveva deciso di ricorrere ai diavoli e era andata da una fattucchiera.
Certo che per una come lei, timorata di Dio fin nel midollo, ricorrere all’esorcismo degli spilloni conficcati nel corpo di una bambolina di pezza doveva essere stato come aver messo volontariamente i piedi nell’inferno senza sapere che, nell’inferno, ci sarebbe precipitata per intero di lì a poco, quando si sparse la notizia della morte della donna che l’aveva fatta dannare. L’amante di Francesco aveva fatto uno scivolone per le scale e ci era rimasta secca.
Giulia si riscosse mentre il treno entrava stridendo sotto la pensilina della stazione centrale di Milano.
Partecipò svogliatamente alla riunione senza riuscire a dare alcun contributo di idee. Rifiutò di andare a cena coi colleghi e si rintanò in albergo mangiucchiando davanti alla televisione un toast che si fece portare in camera.
Il pensiero della zia Andreina le si era conficcato nel cervello come gli spilloni della sua dannazione. Eppure, quando aveva saputo il fatto, le era perfino venuto da ridere. Le era sembrata una cosa da pazzi, quasi comica, rovinarsi la vita per una faccenda del genere, espiare per una colpa immaginaria cucendosi la bocca per sempre sulle scappatelle che Francesco aveva continuato a concedersi, macerarsi nel segreto che un giorno qualcuno aveva spifferato. Forse la maga stessa, a riprova dell’efficacia delle sue pratiche, per abbindolare i creduloni.
Giulia dormì male e fece sogni agitati di strade piene di gente che andava senza meta trascinandosi a rimorchio l’ombra lunga di un mistero, ognuno il proprio, e man mano che un enorme sole saliva allo zenit, l’ombra diventava più scura e netta, si accorciava fino a sovrapporsi al corpo di uomini, donne, vecchi e bambini e allora sparivano anche questi, ingoiati, mangiati dai loro segreti.
Partì presto come presa dalla smania di arrivare prima possibile. Fece tappa in una località intermedia e aspettò la coincidenza per il paese dove i treni veloci non fermavano. Alla stazione Luigi e Fiorella l’aspettavano e si abbracciarono stretti come quando erano ragazzi. Ma l’odore di lignite non si sentiva più, le miniere erano state abbandonate da tempo.
Da diversi anni tutta la famiglia si era trasferita nella nuova casa, costruita di fronte all’antico casale, occupando una parte di quella che una volta era l’aia. Guardando le due costruzioni che si fronteggiavano Giulia non poté fare a meno di provare una stretta di rimpianto al pensiero che avessero abbandonato un posto magico per rinchiudersi in quel fabbricato banale e pretenzioso, senza grazia e senza futuro.
Fu una processione di abbracci e di baci e di strette di mano, di come stai bene, di come siete cresciuti, di ti ricordi, di quanto tempo è passato, di affettuosi rimproveri per la lunga assenza. Mancava solo lo zio Francesco. Quando Giulia aveva chiesto di lui le avevano detto che ormai passava la maggior parte del tempo in poltrona o a letto, aveva più di novant’anni, camminava a fatica e a volte dava in ciampanelle. Però a tavola, per Giulietta, sarebbe venuto. Intanto si poteva continuare a chiacchierare apparecchiando la tavola.
Francesco fece il suo ingresso, strusciando le pantofole di feltro, sostenuto da Fiorella. Sulla camicia bianca dal collo slacciato aveva indossato una giacca nera e i pantaloni mostravano alle ginocchia le borse lasciate dalle molte ore trascorse a sedere.
“Non si è voluto levare il cappello”, disse Fiorella ammiccando. “La prima cosa che fa la mattina quando si sveglia è mettersi il cappello, vero babbo? Ma la riconosci chi è questa bella signora?”.
Lo sguardo di Francesco, anche se annacquato, diceva che l’aveva riconosciuta benissimo, però restò zitto, si fece baciare e abbracciare e sistemare come un fagotto al posto che gli avevano destinato, accanto a lei.
Mentre trafficava attorno al tavolo, Giulia non riusciva a staccarsi dall’immagine di Andreina che non si metteva quasi mai a sedere, ronzando per la cucina in un andirivieni incessante, leggera come una vespa innocua che aveva perso il pungiglione. Lavorare, lavorare, lavorare. Servire, servire, servire. Fino allo sfinimento.
Lo zio Francesco sedeva muto col suo cappello in testa, apparentemente assente. O forse assorto nei suoi segreti. Chissà se aveva mai saputo che la moglie si riteneva un’assassina, chissà se aveva amato quella femmina che gli aveva fatto perdere la testa e che era morta ruzzolando dalla scale. Immaginò gli occhi di Andreina fissi sugli spilli che la fattucchiera immergeva come spade nel corpo della fantoccia e la faccia inorridita alla notizia della disgrazia.
Ora, guardando quel vecchio rimpicciolito e malfermo sulle gambe, le mani tremanti, il collo di tartaruga che faceva capolino dalla camicia, non riusciva a mettere a fuoco l’aspetto che doveva aver avuto al tempo in cui lei frequentava la casa.
“Non gli è rimasto molto da vivere. E’ un cadavere che cammina”, pensò. Che fine avevano fatto la baldanza, la sfrontatezza e il desiderio che avevano attratto le donne? Perché il desiderio le donne lo percepiscono, esala come un profumo stuzzicante che stimola le papille, fa venire l’acquolina in bocca anche quando credi di non aver fame.
Fiorella piazzò la zuppiera al centro del tavolo.
“Prima lo zio Francesco”, disse Giulia. E si alzò per porgere alla cugina la scodella vuota.
In piedi accanto a lui, Giulia avvertì un piccolo movimento d’aria, un frullio leggero come un solletico, come se un’ala di farfalla le avesse sfiorato la natica destra. Abbassò lo sguardo a sinistra, verso lo zio di cui poteva solo scorgere il cappello, poi dall’altra parte, guardandosi da sopra la spalla. Dietro la schiena di Giulia, la mano di Francesco era ancora sospesa a mezz’aria, bloccata in ritirata. Fotofinish di foglia secca in caduta libera.
“Zio, ma che fai?” gli sussurrò confusa, chinandosi a servirgli la minestra.
Francesco la guardò con occhi dai quali la nebbia della vecchiaia era stata spazzata da un turbine di vento venuto da lontano.
“Lo sai che hai ancora un gran bel culo?” bisbigliò.
“Ma che avete da parlottare, voi due?” chiese Luigi.
“Niente, niente… stavo dicendo allo zio di stare attento perché la minestra brucia”.
Ma erano le gote di Giulia ad essere in fiamme e il cuore disordinato a galopparle in petto.