Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Settima edizione – 2007
Marina Marino
“Mihi quoque est, in Germania, pulcherrima filiola, quae tuae simillima est”
In un gelido pomeriggio di febbraio del millenovecentoquarantuno si aggirava per uno dei quartieri popolari di Roma un soldato tedesco in libera uscita, Heinrich , alto, biondo, dai lineamenti delicati, quasi di ragazzino, che contrastavano nettamente con l’atteggiamento duro e provocatorio da lui ostentato.
Non aveva in tasca il becco di un quattrino, ma sentiva il bisogno di un buon bicchiere di vino che lo scaldasse, e allora bussò ad una porta, con l’intento di chiedere d’ autorità che gli si desse da bere.
Gli aprì una giovane donna, formosa ma non obesa, bella ma un po’ trasandata, con una bambinetta piagnucolante di un paio d’anni al collo.
La carnagione bruna, i grandi e profondi occhi scuri, i riccioli neri che le incorniciavano il volto, contrastavano nettamente con i colori della figlia, bianca e rosea in volto, biondissima e dagli occhi cerulei.
Il soldato le chiese del vino perentoriamente, anche se esprimendosi solo a gesti, visto che l’italiano, pur comprendendolo, non era in grado di parlarlo, e Maria, atterrita dalla sua presenza, senza protestare si diresse rapidamente in cucina, con la speranza che egli, se fosse stato accontentato subito, subito se ne sarebbe andato.
Ma il tedesco le andò dietro e, tracannato tutto d’un fiato il bicchiere di vino che gli venne porto, non sembrava avere intenzione di andarsene: si sedette accanto al tavolo, le chiese, sempre a gesti, e sempre perentoriamente, dell’altro vino e le fece cenno di sedersi anche lei.
Quindi le strappò dalle braccia la piccola Matilde, dalla quale non aveva nemmeno per un attimo distolto lo sguardo, e se la pose sulle gambe.
Maria, terrorizzata, non ebbe il coraggio di reagire, per timore di suscitare l’ira del soldato e si limitò a rivolgergli uno sguardo implorante.
Egli non se ne accorse neanche, ma, dopo aver bevuto, mostrando di apprezzarlo, il secondo bicchiere di vino, chinò il viso, sul quale intanto si era aperto lentamente un sorriso, che, come per incanto, lo aveva illuminato tutto sottolineandone la freschezza della giovinezza, sulla testina bionda della bimba e la baciò più volte prima timidamente, poi con tenerezza sempre crescente.
Tentò, quindi, di dire qualcosa in italiano, ma non vi riuscì, e allora scosse il capo, stizzito, e tornò buio e duro in volto, finché, tutto d’un fiato, “Mihi quoque est, in Germania, pulcherrima filiola , quae tuae simillima est”, disse, mentre rivolgeva a Maria uno sguardo interrogativo, mirando a capire se il suo tentativo di comunicare con lei esprimendosi in latino fosse riuscito.
Accortosi che Maria aveva compreso le sue parole, tornò ad illuminarsi in volto e, tirata fuori dal taschino interno della giubba la foto sgualcita di una bambina che nell’aspetto ricordava tanto Matilde, gliela porse, mentre i suoi occhi si gonfiavano di lacrime, che egli cercò subito di reprimere.
Quindi, restituitale con delicatezza, dopo un ulteriore tenero bacio, la bimba, cominciò accoratamente a parlare, usando la lingua latina con una stupefacente scioltezza, di sé, della sua famiglia, della sua patria, della sua casa…
Da solo un anno egli aveva cominciato ad esercitare la professione di avvocato quando era stato chiamato alle armi.
La sua casa era in campagna, a sud di Bonn, sulla riva destra dell’Ahr, e aveva tutt’ intorno un giardinetto e un bellissimo vigneto, dal quale suo padre, con l’aiuto dei figli, lui compreso, che dedicavano all’agricoltura il loro tempo libero, ricavava un buonissimo vino rosso, dal fascinoso sapore fruttato, simile a quello che Maria gli aveva fatto bere poco prima: loro, infatti, diversamente dalla maggior parte dei Tedeschi, non bevevano birra, ma vino, il loro vino…
La casa in campagna, il vigneto, il vino, suscitarono una ridda di sentimenti ed emozioni nel cuore di Maria, la quale, dopo aver ascoltato il racconto del giovane, prese a sua volta, ormai serena, la parola: era un’insegnante siciliana, trapiantata a Roma da qualche anno per essersi sposata con un collega romano.
Anche nel suo cuore c’erano, legati alla sua infanzia, una casa in campagna, “U vuoscu” (= “Il bosco” ), dimora estiva della famiglia, ai piedi dei monti Iblei, e un lussureggiante vigneto, al quale suo padre, con l’aiuto di “massà Nanè”, dedicava per tutto l’anno cure appassionate, che gli davano la soddisfazione di poter riempire le botti di un pregiatissimo vino robusto e corposo, detto cerasuolo.
Poi, però, un inesorabile cancro se l’era portato via, suo padre, e casa e vigneto erano stati venduti…
Ma lui, che interesse poteva avere per quelle vicende?
Heinrich si disse, invece, molto interessato, per cui Maria, poggiati i gomiti sul tavolo e nascosto il volto tra le mani, così continuò, abbandonandosi liberamente all’onda dei ricordi:
“Ormai sono parecchi anni che “U vuoscu” appartiene ad altri, ma dell’antico “Vuoscu” non c’è nulla che non viva nella mia memoria e nel mio cuore, immerso in una maliosa, struggente aura di poeticità: la vecchia casa, le rose, profumatissime di un profumo antico, gli umili “fiordinotte”, i diversi tipi di gelsomini, la citronella dal profumo intenso, le grosse campanule viola che ricoprivano “a stadduzza”(= la piccola stalla); l’anello di ferro (saldamente attaccato al muro) al quale veniva legato l’asino; la vigna, che era l’orgoglio del mio babbo; i campi di stoppie, dove i grilli dalle ali delicatamente colorate saltellavano, ed io e mia sorella, incuranti del sole martellante, li inseguivamo allegramente; la stretta “trazzera” polverosa e dal fondo irregolare, delimitata dai muri a secco, dove si annidavano lucertole e lumache …
Dei mesi che trascorrevamo in campagna, il più bello era, sicuramente, settembre.
Lampi, tuoni e fulmini dei primi temporali ci terrorizzavano.
Mia madre cercava di sdrammatizzare, dicendoci che a procurare tutto quel fracasso era “mastru Iarranu”, che stava preparando le sue botti in vista della vendemmia ; ma poi non riusciva a nascondere la sua paura, e allora ci induceva a recitare con lei tre Ave alla “Madonna dei pericoli”, e ad invocare Santa Rosalia, e, allo schianto del fulmine, S. Giovanni, e, nei momenti più critici, l’ angelo che “dormiva ai piedi di Maria”: lei recitava vecchie preghiere dialettali , la cui origine si perde nella notte dei tempi, e io e mia sorella, tremanti, le facevamo eco.
Nonostante la paura, però, anche noi bambine salutavamo con gioia l’arrivo della pioggia, perché sapevamo che questa per la vigna, dopo tanti mesi di siccità, era una vera benedizione.
E poi ci piaceva, appena spioveva, correre fuori, non solo per respirare la vivida aria profumata di terra bagnata, ma anche per andare in cerca di lumache. La sera, a volte, nella ricerca si univano a noi anche i grandi, per non lasciarci uscire sole “di notte”, dicevano, ma in realtà perché la cosa allettava anche loro; e poiché anche altre famiglie partecipavano a quel “rito”, la “trazzera” era tutta un brulichio di candele accese…
Come “mastru Iarranu”, anche mio padre preparava accuratamente, in vista della vendemmia, le grandi botti che erano nell’ampia dispensa.
La vendemmia si svolgeva a fine settembre.
Il giorno prima mio padre acquistava chili di baccalà , che mamma cucinava al primo albeggiare: il baccalà “alla ghiotta” e le sarde salate erano, infatti, i piatti che, per tradizione, si offrivano ai “vignignaturi”: un delizioso profumo si spandeva così , di buon mattino, per tutta la casa, immergendoci totalmente nell’atmosfera della vendemmia.
Alla raccolta dell’uva seguiva, al palmento, dentro una vasca enorme e fonda, la pigiatura, eseguita con i piedi da uomini muniti di stivaloni di gomma, i “pisaturi”, che, appoggiandosi a dei validi sostegni, eseguivano sull’uva delle frenetiche danze, che dovevano fare la gioia di Bacco e di Sileno…
Parallelamente alla pigiatura dell’uva in palmento, mamma ricavava con rudimentali metodi domestici un po’ di mosto dai racimoli (”sgranchi”) di uva sfuggiti ai vendemmiatori e raccolti, o, meglio, “viscugghiati” da noi bambine, e lo utilizzava per la preparazione di particolari dolci: “a mustata”, che, versata ancor calda in “forme” di coccio dal fondo variamente scolpito, una volta rappresa e “girata” ne riproduceva, in rilievo, i motivi ornamentali; e “i cuddureddi” , che , una volta pronti, erano scodellati su grandi “fangotti”, che venivano posti sull’ampio davanzale di un’alta finestra (sempre quella!), prima perché si freddassero e poi perché, fino alla completa consumazione, rimanessero in luogo fresco e ventilato.
Con l’uva mia madre preparava anche un’ottima marmellata , in questo coadiuvata da mia sorella che, forse per la sua docilità, era l’unica a cui toccava l’estenuante compito di “sbucciare”, uno per uno, tutti gli acini: mi sembra ancora di vederla, seduta per delle ore intere su una bassa seggiolina,con il vestito riparato da un grembiulino di plastica, intenta seria seria a tale operazione, che, già in sé fastidiosa, lo era ancor più perché la rendeva indifeso bersaglio di api e mosche.
La marmellata d’uva, conservata in bocce dall’apertura protetta dalla carta oleata prima ancora che dal coperchio, in inverno costituiva il nostro dolce domenicale, mescolata alla ricotta di latte di pecora che acquistavamo dal “massà Vitu”, il quale, percorrendo in bicicletta le vie del paese, dalle “cavagne” la lasciava scivolare, bianchissima, nei piatti che le massaie gli porgevano, facendosi sull’uscio non appena da lontano udivano il suo grido: “Ricotti friiischi!”…
Le enormi botti in legno in cui il mosto, fermentando, si trasformava in vino, venivano spillate a novembre, il giorno di S. Martino, tra il canto e le danze di grandi e piccini …”
Maria ancora parlava quando , sollevato il volto, si accorse che Heinrich stava silenziosamente piangendo: il suo atteggiamento duro e provocatorio si era completamente dissolto, lasciando il posto a quello, smarrito e dolente, assetato di parole buone e di umanità ,di un uomo solo, e per di più malvisto, in terra straniera.
Si alzò, allora, e lo abbracciò e gli fece coraggio: presto la guerra sarebbe finita, il mondo sarebbe stato in pace, e lui sarebbe tornato nella sua patria, nella sua casa sulla riva destra dell’Ahr, e avrebbe riabbracciato sua moglie e la sua bellissima bambina ; avrebbe ripreso ad esercitare la sua professione, e avrebbe trascorso il suo tempo libero lavorando col padre nella vigna, e avrebbe bevuto il buonissimo vino rosso dal fascinoso sapore fruttato di loro produzione…