Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Settima edizione – 2007
Roberto Monti
Nonno Italo
Proprio ieri ho intravisto tra la folla, una siluoette familiare. Un signore canuto, leggermente curvo, che guadagnava terreno grazie all’aiuto di un vecchio bastone di bambù dalla punta ricurva.
In un lampo, dal mio stomaco, è partita una sorta di calda ondata di malinconia, così forte e inattesa che ho ringraziato il cielo di aver portato gli occhiali da sole.
Sì, stavo piangendo nascosto dalle le lenti scure.
Sono corso a casa trattenendo quella sensazione e, come fosse un vecchio amico ritrovato, le ho dedicato tutta la mia attenzione rivivendo il passato.
…agli inizi degli anni ottanta avevo circa 15 anni.
Frequentavo la seconda Liceo Scientifico Statale “Giovanni Della Casa”, famoso per aver scritto il Galateo.
Nella piccola provincia fiorentina, la vita scorreva, specialmente per noi ragazzi, tra pochi ma importanti capisaldi: il bar col biliardo, i Salesiani e le “vasche” prima di cena.
Il nostro ritrovo abituale era il bar Centrale, ma spesso si andava ai Salesiani dove, dando in pegno il giubbotto o le chiavi di casa, si poteva prendere un pallone e giocare nel campetto a “buca-entra di testa”. Si giocava ad una sola porta e chi faceva goal di testa guadagnava il diritto a diventare portiere.
Chissà come sarebbe oggi il “buca-entra” per PSP?
Era tutto molto divertente, ma anche pericoloso.
Infatti, verso le cinque del pomeriggio, le porte dell’oratorio si chiudevano e i preti “costringevano” i ragazzi rimasti intrappolati a…dire le preghiere.
Il clou della giornata però, restavano le vasche pre-serali.
Come animali migratori che obbediscono ad un richiamo primordiale che li spinge a muoversi, così decine e decine di giovani verso le sei del pomeriggio, sentivano l’impellente bisogno di “passeggiare”.
Prima però si passava a vedere la moglie del Dreoni che masticava la gomma.
La suddetta signora, aveva un modo molto particolare di masticare il chewingum.
Appoggiata allo stipite della porta del suo negozio di elettrodomestici, faceva passare il bolo da una parte all’altra della bocca con un movimento lento e misurato.
Schiudendo leggermente le labbra lasciava intravedere il sensuale movimento della lingua.
Noi, giovani galletti ancora implumi, eravamo attraversati da un brivido che partiva, girava e tornava all’inguine. Dopo i soliti piccanti commenti, iniziavano le vasche.
Fare le vasche significava semplicemente passeggiare tra il quadrilatero di via Mazzini, corso Matteotti, vai Garibaldi e via 1° Maggio.
Quello era il momento di socialità più importante per tutti i giovani della zona.
In quell’occasione si lanciavano le mode e si incontravano vecchi amici.
Ma soprattutto…si scambiavano sguardi con l’altro sesso.
In quei momenti, in quel pollaio di adolescenti che diventava il centro storico, germogliavano i semi delle famiglie future.
Attraverso sguardi imbarazzati, facce rosse di timidezza e battiti accelerati, senza nessuna consapevolezza dei giocatori, il grande, immutato gioco della vita macinava il futuro.
Fu lì che la vidi.
Sinceramente non ne ricordo il nome, a tutti era nota come la “cittadina”.
Si era trasferita con la famiglia da Firenze alla provincia e con i suoi modi sbrigativi e la puzza sotto il naso era straodiata dalle sue coetanee e…ovviamente, faceva impazzire i ragazzi.
Avrei dato un braccio solo per un suo sguardo, ma per lei ero completamente e irrimediabilmente trasparente.
Fu proprio la disperazione adolescenziale del primo innamoramento non corrisposto che mi fece scoprire un segreto e dietro di esso, una persona eccezionale.
Mio padre ha sempre fatto il rappresentante per un’industria dolciaria e morì senza potersi gustare neanche un anno di pensione.
Era il classico uomo che faceva un lavoro per il quale non era portato.
Non era mai stato particolarmente brillante ed estroverso e doversi atteggiare e fingere ogni giorno, alla fine lo aveva sfiancato.
Si era lentamente inaridito e viveva ogni cosa come un…ennesimo problema.
Mia madre era nata a Piombino, conobbe mio padre durante una vacanza in versilia e pur accorgendosi del suo malessere non lo capiva e non riuscì mai ad aiutarlo.
L’unico vero momento in cui li vedevo felici era quando andavano a funghi insieme.
Qualche anno prima dell’epoca dei fatti che sto per narrarvi, il fratello maggiore di mio padre, zio Adelmo, morì.
Zio Adelmo abitava in un podere tra Vicchio e Dicomano, era alieno ad ogni forma di innovazione, e viveva col padre: mio nonno Italo.
Quando morì, oltre al podere che venne venduto e i cui soldi vennero divisi in una miriade di parenti, lasciò in eredità a mio padre anche il vecchio Italo.
Nonno Italo era quanto di più classico ci si può immaginare in un vecchio toscano.
Canuto e spettinato, vestiva sempre con pantaloni di velluto a coste grandi di colore verde kaki e una vecchia giubba di fustagno marrone.
Sia d’inverno che d’estate il suo abbigliamento cambiava di poco, spariva la giacca ma restavano i grossi pantaloni.
Fisicamente quello che mi colpiva di più erano le sue mani: grosse e muscolose, ruvide come carta vetrata erano l’indelebile ricordo di una vita passata a lavorare sodo.
Italo si faceva il suo bucato con cura maniacale.
Dopo ogni lavaggio stendeva i panni e si sedeva nella sua vecchia sedia a sdraio ad aspettare che asciugassero, per poi stirarli con cura.
Dopo alcuni mesi che Italo era con noi, iniziarono i problemi.
Comunicare con lui divenne impossibile.
Ad ogni domanda che gli veniva rivolta il vecchio rispondeva in modo strano, come se non avesse capito quello che gli si chiedeva.
Se mio padre gli chiedeva: « Babbo, c’hai fame?» lui magari rispondeva : « Io stanotte ho dormito davvero bene, non ho sentito nulla».
Dopo alcuni mesi di questa situazione, mio padre decise di chiamare il medico.
Quando arrivò il dottor Galeotti, che tutti chiamavano di nascosto “dottor Galena”, eravamo tutti schierati intorno al vecchio.
Il dottor Galena era noto per i suoi modi spicci, non era certo tipo da andare troppo per il sottile e dopo alcuni minuti di visita, dimostrando il tatto di un rinoceronte disse:
«Per me questa è una forma di demenza senile. Lui…» parlava come se mio nonno fosse in un’altra stanza «…ha bisogno di tranquillità, sennò potrebbe anche fare qualche bischerata. Fate finta di avere un bambino in casa.»
Scarabocchiò la ricetta di un farmaco, che mio nonno non volle mai prendere, e si alzò di scatto.
Bruscamente come era arrivato, se ne andò.
Mentre mia madre lo accompagnava alla porta cantilenando ringraziamenti, vidi una strana luce accendersi in quegli occhi neri, sotto le candide sopracciglia.
Italo stava guardando suo figlio come se lo vedesse per la prima volta, in quel momento erano soli, isolati da tutto.
Io vedevo chiaramente l’apprensione e la paura negli occhi dell’anziano.
Appariva lampante che il vecchio padre si aspettasse una risposta dal figlio, un segno, anche solo un cenno che gli comunicasse qualcosa, qualsiasi cosa.
Ma purtroppo mio padre, ormai posseduto dall’autocommiserazione, seppe solo dire: «Ci mancava anche questa, un vecchio bambino in casa.»
Quella luce si spense e si spense per sempre.
Negli anni successivi le cose si trascinavano nonostante le stramberie di nonno Italo.
Non aveva mai fatto vere “bischerate” come aveva predetto il Galena, però sembrava sempre assente, perso in un mondo lontano.
Spesso mi sembrava così triste che cercavo di scuoterlo, ma quando incontravo i suoi occhi non riuscivo a spiccicare parola e mi limitavo a qualche pacca sulle spalle.
Mio padre ormai non gli rivolgeva quasi più la parola, forse stanco delle risposte senza senso e ogni tanto lo guardava con tenerezza scuotendo la testa.
Mia madre gli parlava solo per dirgli cosa fare, come ad un bambino, senza aspettarsi nulla:« Nonno Italo, domani ti lavo i capelli, e già che ci siamo, magari diamo una bella spuntatina».
«Io però la bistecca non la facevo così cotta» rispondeva lui.
Tutto sembrava destinato a proseguire così, ogni volta che si parlava con il nonno, si ricevevano risposte assurde, finché io non mi innamorai di quella stronzetta venuta da Firenze.
Una domenica di giugno, i miei erano andati a Monte Giovi, sulle tracce delle loro fungaie preferite.
Io ero rimasto solo con il nonno e il pranzo che la mamma aveva preparato la sera prima. La giornata era calda e noi eravamo seduti in cucina perché era la stanza più fresca della casa.
Nel mio stomaco passavano tutti i sentimenti e i desideri, tranne la fame.
Ero depresso e avvilito per l’amore non corrisposto, anche se, adesso me ne rendo conto, ci marciavo molto.
Mi piaceva l’idea dell’eroe da fumetto che amava non amato, che combatteva le battaglie sapendo di non avere nulla da perdere perché non poteva avere la sua lei.
Mi vedevo vincente ma sconfitto, allontanarmi verso il tramonto avvolto in un mantello di solitudine e rimpianto.
Poi, in un certo modo, mi appagava coltivare quella leggera, sottile lama di malinconia.
Anche oggi capita di gustarmi il “dispiacere” di non poter realizzare un sogno, consapevole che il sogno, nella realtà, non sarebbe mai stato così bello come nella mia fantasia.
Un bel gioco da equilibrista tra il dispiacere ed il sollievo.
Ma torniamo al nonno.
Nella penombra della cucina, giocherellando con i maccheroni al ragù, convinto di parlare esclusivamente per me stesso, dissi:
«Vedi Italo, io lo so di non essere bello e neanche tanto interessante m a per Dio, quella, chi cavolo si crede di essere? Solo perché la stava a Firenze non mi degna di uno sguardo! Vedessi nonno come l’è bella, bionda e riccia, ma non quel biondo svedese che un sa di nulla. Tiger Jack, l’indiano amico di Tex, direbbe che i suoi capelli “hanno il colore del grano maturo”. Ma poi come la si move! Sempre guardando avanti, come se la c’ avesse un blocco alla cervicale. E il culo, nonno Italo, tu dovresti vedere che culo! Per me certi culi, ai tu tempi, un li facevano. Te icché tu ne dici?»
E mio nonno, con la sua solita coerente incoerenza, rispose:
«Pasticciati! Pasticciati l’è la su morte!»
Imperterrito ripresi la mia filippica:
«…e gli occhi? Neri come i’ carbone! Una volta me la sono incontrata per le scale del liceo e lei, soprattutto per scansarmi, mi ha guardato negli occhi! Ho ricominciato a respirare dopo mezzora abbondante! Mamma mia Italo, io e un ci dormo più! Cosa cavolo posso fare per conquistalla?»
Sempre con lo sguardo perso nel suo mondo il vecchio ribattè:
«Bischero, dovevi vedere come si muoveva quello della tu’ nonna, di culi.»
Stavo per continuare la mia manfrina da sciocco innamorato quando un pensiero attraversò, la mia mente.
Senza guardarlo, con gli occhi bassi chiesi:
«Nonno, domani che giorno è?»
La risposta mi lasciò sbigottito.
«Ma sei proprio sicuro di volerla conquistare quella biondina, la mi pare un po’ stronza!»
Ancora, dovevo essere sicuro!
«Italo, che ti sono piaciuti i maccheroni?»
La risposta non arrivava e io avevo quasi paura di quello che avrei sentito.
Lentamente, in preda ad una strana agitazione, alzai lo sguardo fino ad incontrare quello del vecchio e quello che ci trovai mi fece venire un senso di vuoto allo stomaco, come se fossi caduto da un aereo.
Quell’uomo che io ritenevo incapace ormai di avere rapporti con la realtà mi stava guardando negli occhi, direttamente come non aveva mai fatto e disse quello che già sapevo avrebbe detto:
«Lunedì! Domani l’è i’ lunedì!»
La sua pacata e dolce espressione acquietò un poco l’agitazione che sentivo dentro.
Non potevo smettere di guardarlo negli occhi, adesso avevo davanti un’altra persona, una persona che per me era come tornata da un altro mondo.
Lui, rispondeva sempre alla domanda fatta in precedenza.
Aver scoperto il suo segreto fu come aver rotto un malvagio incantesimo.
In un attimo, ritrovai tutto l’affetto che, fin dall’infanzia, avevo provato per quello strano e simpatico vecchio che credevo perduto nella sua stessa testa.
Ci alzammo in piedi senza mai smettere di guardarci negli occhi e lui aprì le braccia come faceva quando ero un bambino.
Ma io ero cresciuto e mi dovetti inginocchiare per ritrovare quella posizione che ricordavo così bene.
L’ immagine della sua cintura davanti ai miei occhi, e le sue mani sulle mie spalle.
Le lacrime iniziarono a scendere sul mio viso, lacrime per un’infanzia finita, lacrime per momenti in cui mi sentivo indifeso ma protetto, lacrime per odori e sapori che non avrei mai dimenticato, ma che non avrei mai più ritrovato.
Mentre singhiozzavo riuscii a balbettare un solo «…perché?»
Mi sollevò prendendomi per le spalle e ci sedemmo di fronte.
Nel lungo silenzio che lui mi concesse, smisi di piangere e ritrovai la giusta condizione di spirito per ascoltarlo e questo fu il suo racconto.
Vivere nel podere dove era nato e dove erano nati i suoi genitori era stato bellissimo.
Solo lo straziante travaglio delle due guerre lo aveva allontanato dalla terra dov’era nato.
Dopo aver conosciuto e sposato mia nonna, si era ritirato nel suo paradiso fatto di animali e di campi verdi. Un paradiso dove tutto era semplice e mai facile.
Il lavoro nei campi, il governo delle bestie, i raccolti e poi i figli. Tutto seguiva un suo filo, una sua strada e tutti la percorrevano insieme.
Quando sua moglie morì lasciandolo solo, si era sentito come tagliato in due, incompleto e inutile. Solo il lavoro, i suoi animali e i suoi amati campi gli diedero la forza di continuare.
Dei figli ormai grandi uno, Adelmo, che aveva preso da lui la semplicità d’animo e la voglia di faticare, ritornò dal Belgio prima di morire di silicosi in qualche miniera.
I due si capivano a meraviglia.
Pur non essendo due “chiacchieroni” avevano elaborato inconsciamente tutta una serie di segnali che superavano di gran lunga qualsiasi discorso.
Inoltre, sotto sotto, erano entrambi due inguaribili burloni, nel più limpido stile toscano.
Ogni occasione era buona per uno sfottò e, tra il fatto che le cose serie non necessitavano di parole e il fatto che stavano sempre a prendersi in giro, tutti pensavano che i due si sopportassero a fatica.
“…come due orsi ‘briachi in un bar!” era la definizione preferita di mio padre.
Quando anche Adelmo lo lasciò, lui sperava di poter mandare avanti il suo podere, invece i parenti, preoccupati per la sua salute, lo privarono dell’ultimo legame che aveva con le sue origini.
Purtroppo, vendendo il podere, vendettero anche tutti i suoi ricordi.
Mi raccontò che era solito svegliarsi alle prime luci dell’alba, vestirsi in fretta e sedersi nell’orto, per terra.
In quella strana luce, dove le forme non sono ancora definite, lui riusciva a rivedere la figura china della moglie che toglieva le erbacce dalla lattuga.
Dalla sua morte lui non aveva mai saltato una mattina.
Ma non era solo quello.
Tutte le stanze della vecchia casa erano intrise degli sguardi, delle risa e dei pianti di una vita, la sua vita.
Cercò invano di convincere mio padre e gli altri parenti che lui poteva vivere solo in quel posto, ma nessuno lo ascoltò.
Quando fu portato nella nostra casa era stanco e rassegnato, pronto ad aspettare la fine.
Poi il suo spirito e la forza d’animo che lo avevano sempre accompagnato lo spinsero, ancora una volta, a cercare un nuovo interesse.
Per questo, iniziò quello strano gioco delle risposte posticipate.
Purtroppo non aveva più a che fare con Adelmo, ma con mio padre.
Il vecchio si era da tempo accorto che suo figlio non lo ascoltava, non lo considerava altro che…un ennesimo problema.
La speranza di instaurare un rapporto con lui si spense presto.
Durante la visita del dottore, Italo capì che suo figlio era perso per sempre e decise di continuare uno scherzo che ormai era una farsa, mentre dentro di lui sentiva tutta l’amarezza di una tragedia.
A quel punto, non potendo più trattenermi, gli chiesi:
«Nonno, perché non la smetti e gli parli? Se gli racconti tutto, come hai fatto come…forse…lui…»
Ma conoscendo mio padre, mentre lo dicevo, capii che non era affatto una buona idea.
«Tu sei un bravo ragazzo e ti voglio bene. M’hai scoperto, perché sai ascoltare, perché cerchi di capire e sai ragionare anche col cuore. I’ tu babbo ormai un sente più e di certo un mi capirebbe! Se glielo dicessi, mi terrebbe il muso tutta quella poca vita che mi resta da vivere. Meglio un lo sappia mai.»
A quel punto mi guardò alzando leggermente un sopracciglio e io capii cosa voleva, senza bisogno che lui me lo chiedesse:
«Prometto…» dissi e in quel momento mi sentii mille volte più vicino a zio Adelmo che a mio babbo.
Io rispettai la promessa e non dissi mai nulla e mio padre non si accorse mai del gioco di nonno Italo.
Dopo poco più di un anno il nonno ci lasciò, serenamente e semplicemente come aveva vissuto.
Mi sono chiesto cento, mille volte se, svegliandomi presto una mattina e sedendomi in mezzo all’orto lo avrei intravisto a togliere le erbacce dalla lattuga insieme alla nonna.
L’ultima cosa che mi disse in quell’incredibile giorno della mia adolescenza fu:
«Senti, ma tu sei sicuro che sia così fantastica quella figliola? Per caso, gliel’hai guardati i piedi? La prima cosa che si guarda in una donna sono quelli, bischero.»
Io lo considerai un consiglio decisamente stupido ma l’indomani mi accorsi di osservare i piedi della “cittadina” trovandoli terribilmente brutti.
Da quel giorno, nonostante tutti gli sforzi che facevo per non guardarci, il mio sguardo cadeva inesorabilmente su quelle appendici.
Nel giro di una settimana non la guardai più.
Il nonno aveva avuto ragione, ero stato proprio un bischero.
Sono passati molti anni da quel giorno in quella cucina, ma il suo ricordo e il nostro segreto mi accompagna ancora e lo farà per sempre.
Adesso mia moglie è al quinto mese di gravidanza e presto sarò padre.
Inutile che vi dica la cosa che avrò bene in mente nel mio ruolo di genitore.
Nonno Italo, mi ha insegnato che: “saper ascoltare al di là delle parole, è l’unico modo per essere felici insieme alle persone che ami”.
Ah, dimenticavo: mia moglie l’ho scelta perché ha dei piedi bellissimi e ci amiamo da morire.