Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Settima edizione – 2007
Andrea Rossi
Ultimo, h 19.45
La porta a vetri trema e scricchiola mentre si apre di schianto, come fosse stata aperta con una spallata. E con lo stesso impeto Vittorio in due passi si trova già al centro dell’ufficio, ben piantato sulle gambe, le mani appoggiate sulla scrivania davanti a lui e il volto sorridente conficcato in faccia al suo interlocutore, seduto di là dal tavolo.
“Vent’anni! Ti rendi conto, Mario? Oggi sono vent’anni!”
Mario con una spinta dei piedi fa scivolare indietro la sua sedia che cigola sulle rotelle e striscia sul pavimento di marmo dentro due strisce che paiono due solchi scavati. Lo fa fino a far sbattere dolcemente lo schienale al muro. E lì si ferma.
“Mi rendo conto, Vittorio. Me ne rendo conto perfettamente. E poi, anche volessi, dico, come potrei dimenticarmelo con te che fai di tutto per ricordarmelo ad ogni anno, eh!?”
Con un gesto veloce della mano indica il calendario appeso accanto all’ingresso, alle spalle di Vittorio.
“A cominciare dal cerchio rosso sul calendario, là, intorno al giorno fatidico.”
Vittorio si stacca dal piano della scrivania e si volta istintivamente verso la porta, rimasta aperta.
“E’ per non dimenticarlo, lo sai.”
“Appunto. E’ da un mese che il calendario mi guarda con quell’occhio cerchiato di rosso. E’ da un mese che ogni volta che ci passo davanti pare che mi strizzi l’occhio. Il 31 ricordati eh, il 31! Che giorno balordo, per cominciare un lavoro: l’ultimo del mese. E’ come cominciare dalla fine, non ha senso. Vent’anni senza senso.”
“Scusa, non pensavo ti facesse dispiacere.”
“Dispiacere non è la parola giusta, Vittorio. Vent’anni in questa stazione qui, dietro questa scrivania qui. Sarà anche ora di andarsene, o no?”
“Perché? Ti trovi male con noi?”
Mario non risponde. Si alza dalla sedia, rimette in ordine dentro una cartella aperta alcune carte sparse e lentamente, sfiorando il tavolo, si avvicina a Vittorio, rimasto in piedi lì davanti. Gli si mette di fronte, appoggiandosi ora lui al piano della scrivania.
“Non farne una questione personale, Vittorio. E’ soltanto voglia di cambiare aria, panorama, facce. Ci può stare, no, dopo venti, dico venti, anni?”
“Perché non chiedi un trasferimento?”
“Non c’è ombra di trasferimenti nell’aria, tutto bloccato. Lo sai anche tu. L’unico trasferimento ormai è quello della pensione.”
Mario si avvicina alla finestra dell’ufficio che dà sui binari e scosta la tenda.
“I treni quando arrivano qui volano: sosta tecnica, giusto il tempo di guardarsi in giro, capire l’aria triste che tira e poi schizzano via. Come diciamo noi: transitano. E noialtri quand’è che transitiamo, eh!? Immobili, qui, io, te e tutti gli altri. Immobili come quei pezzi scuri di binario là fuori. Sapremo mica anche noi di rancido ormai, eh Vittorio?”
“Oh, ma che luna triste che ti porti dietro oggi! A te gli anniversari ti fanno male. Pensi troppo. Se hai voglia di novità, sai che facciamo? Una mano di colore a questo ufficio: scegli tu quale. E da che ci siamo, cambiamo anche ordine ai mobili: la scrivania la mettiamo là, sotto la finestra, l’archivio nell’angolo e gli scaffali accanto alla porta così facciamo sparire anche il calendario. Il quadro comandi però da quella parete, lo sai anche tu, proprio non lo possiamo spostare. Chiamo Sandrone e suo cognato e in tre giorni è fatta. Ti prendi ferie e quando torni ti sembrerà d’aver cambiato persino lavoro. S’intende che paghiamo tutto noi. Che ne dici?”
Mario, che ha ascoltato senza smettere di guardare fuori dalla finestra, alla domanda si volta verso il centro della stanza e sorride.
“Spiritoso, quanto sei spiritoso. Bastassero i colori a rifare il mondo, mi sarei già comprato la tavolozza intera!”
Si avvicina al ripiano accanto alla finestra e prende fra le mani la sua paletta da capostazione.
”Eccoli qua gli unici colori che conosco, invece: verde e rosso. Verde, rosso, verde, rosso. All’infinito, così. Tu non sai Vittorio quante volte me la rigiro tra le mani questa paletta, anche quando non serve, abbandonato sulla prima panchina là, fuori dal riparo della pensilina, in faccia al sole di primavera, o rannicchiato nel mio cappotto e al coperto sotto la tettoia dell’ultimo binario, dentro le nevicate del nostro inverno.
Una roulette, mi pare di giocare alla roulette: verde, rosso, verde, rosso. Ma non c’è calcolo, fortuna o fatalità, né una pallina che giri vorticosa, poi rallenti e infine finisca per cascare su un numero qualsiasi, ad indicare chi vince e chi perde. Qui da noi c’è sempre il colore giusto, Vittorio, uno solo per ogni circostanza. E a stabilirlo c’è il regolamento, tanto scrupoloso quanto invadente, giusto? E per conto di quel regolamento ora io vado giù al binario tre a chiudere anche questo 31 del mese.”
“Il berretto Mario, il berretto!”
Vittorio è già corso all’attaccapanni, prima che Mario abbia ancora imboccato l’uscita e ora sta tornando verso di lui con il berretto tra le mani.
“Accidenti a me, non c’è una volta che riesca a ricordarmelo! Quante volte mi dovete gridare dietro mentre esco dall’ufficio o mi rincorrete mentre cammino lungo il binario, eh!? Un capostazione a capo scoperto non è un capostazione: anche questo fa parte del regolamento, del suo protocollo. E io invece me lo scordo nove volte su dieci; non so neppure dove lo appoggio quando ritorno indietro. Sulla scrivania, neppure sulla mia qualche volta; su una sedia qualsiasi o sul ripiano di uno scaffale.”
“Ti ricordi di quella volta che l’abbiamo trovato in cima all’asta del passaggio a livello?”
“Oh beh, quello fu uno scherzo! Un vostro scherzo!”
“Tu continua a dire così: son dieci anni che ripeti la stessa cosa. Ma sai cosa penso io invece? Che hai provato a liberartene, che hai sperato che il primo locomotore di passaggio con una folata se lo portasse via o che ci passasse sopra trascinandolo per chilometri e chilometri fino a consumarlo. Sbaglio forse?”
“Non confesserò mai, se è questo che vuoi sentire. Però è vero, io il mio berretto d’ordinanza lo lascio volentieri in giro, lo getto lì dove capita. Che ci vuoi fare, Vittorio, per me non è lui il mio segno distintivo, non è lui la medaglia che porto sulla mia divisa.”
Mario alza verso di lui la paletta che ha continuato a tenere e rigirare nelle mani.
“Questa qui forse, ecco questa magari: sarà che con lei ci gioco, ma non la dimentico mai e la porto con me anche a sproposito. Anche per decidere se andare o restare, se prendere un caffè o un bicchiere di bianco, se svoltare a destra o a sinistra per risalire dal sottopassaggio. Verde, rosso, verde, rosso: è un gioco.
Poi mi metto lì, davanti al muso tozzo dei miei treni, di quelli che aspettano me per partire e gliela butto in faccia, alternando i colori. Li inganno così: ora parti, ora no, gli dico. Chi lo decide, bello? Io, ricordatelo. Ma loro non si scompongono. Tozzi sono e tozzi restano, con quel loro muso quadrato, gli occhi grandi e il tremore insofferente di chi ha poco tempo per fermarsi, di chi è destinato ad altri luoghi che non sono questa stazione da quattro soldi, incastrata, coi suoi tre miseri binari, tra una roccia ed un fiume, con il paese che aspetta di là.”
“E’ in arrivo sul binario tre il diretto delle 19.45.”
“Lo so, vengo!”
“Ma Mario che fai, gli rispondi pure?”
“Ti ricordi quando i treni li annunciava Gisella e io le rispondevo sempre: grazie, ora vado?”
”Certo che me lo ricordo. Prego, ti ribatteva, e ci aggiungeva pure: ci vediamo dopo per il caffè, appena l’hai fatto partire?”
“Beh, a forza di caffè, io Gisella me la sono sposata. Cosa sono diciotto anni ormai, no?”
“Non mi chiedere di ricordarti anche questo, di anniversario.”
“I testimoni a che servono se no!?”
“E’ in arrivo sul binario tre il diretto delle 19.45.”
“E arrivo, arrivo. Lo vedi, Vittorio, io all’altoparlante gli rispondo ancora, anche se ora è automatico e con lui non ci berrei nemmeno un bicchiere d’acqua alla fontana marcia. Tanto più che questo è il treno di Silvia. Binario tre: quello che sfiora la roccia, laggiù in fondo, quello dei locali. Eccomi, bello. Il tempo di uscire da qui, scendere e risalire dal sottopassaggio e sono da te. E poi c’è lei, scommetto che c’è: verde, rosso, verde, rosso.”
“Silvia, dici?. Quanti giorni saranno che te la trovi lì?”
“Giorni? Settimane ormai. Ed è sempre la stessa scena. Io che risalgo il treno e comincio a fissarla da lontano. Lei che non risponde mai al mio sguardo. Io che arrivo all’ultimo sportello aperto prima della cabina, mi appoggio con la punta del piede sul predellino, proprio di fronte a Silvia. Lei che non mi guarda ancora: fissa i binari, la curva in fondo alla roccia. Io che mi tengo con una mano al maniglione, mentre con l’altra mi tolgo questo benedetto berretto e le lancio ancora uno sguardo, l’ennesimo. Lei che lo raccoglie, finalmente. L’unico. Io che la invito a montare con un gesto della mano, come fa un cavaliere per offrire il braccio alla sua dama e farla salire sul suo cavallo. O almeno così vorrei che lo prendesse. Lei che mi fissa, sorride e poi scuote la testa per dire no, semplicemente. E’ così che succede, Vittorio, da settimane. Io continuo a sorriderle ancora per un attimo, appeso lì: forse un giorno noterà la mia contrizione, il mio dispiacere, anche se cerco di nasconderglielo.
Non voglio che parta. Una parte di me non lo vuole: lei lo sa e mi mette alla prova. Ma insieme vorrei anche che lo facesse, che partisse una volta, benedetta figliola: lo voglio veramente, se questo può essere il mio regalo per lei, capisci?”
“Capisco, sì. Ora vai che se Ultimo non ti trova, capace che gli si spegne il motore e con tutto quello che ci vuole per rimettersi in moto facciamo notte.”
Ma Mario non lo sente già più, ormai è oltre la porta dell’ufficio.
“Il cappello!”
Urla Vittorio affacciandosi dallo stipite.
“Ancora! Dai Vittorio, lancia!”
“Eccolo. Io non t’aspetto, vero?! Tu finisci al binario 3 e io smonto adesso. Va bene, no?”
“Come sempre Vittorio, come sempre. A domani.”
“A domani.”
L’RVT277, il diretto delle 19.45, detto l’Ultimo. Chiudono tutti con lui la loro giornata, lì in stazione. Poi sono solo treni che sfrecciano, carrozze che la salutano, se non dormono già, merci che la sfiorano. Le lasciano il vento, la scia del loro passaggio, qualche bottiglietta di plastica, qualche cartaccia: nient’altro per lei.
“Eccomi Ultimo e guai a te se mi fai lo scherzo di non partire. – così si dice Mario allungando il passo verso i gradini – Ultimo: o te ne vai con lui o qui ci resti un’altra notte, tra il fiume e la roccia, a specchiarti nella vetrina illuminata delle partenze e degli arrivi di quella ghiacciaia della sala d’aspetto.”
Prima di scendere la gradinata, Mario getta uno sguardo all’orologio sopra la porta che dà sulla biglietteria: Ultimo è in orario. E subito dopo uno sguardo di là dalle rotaie. Silvia c’è: sulla solita panchina, abbracciata alla sua borsa a tracolla, lo sguardo sui binari sotto la lunga e stretta pensilina del binario tre.
“Non c’è fretta, non c’è fretta Mario. Non ce n’è. – mormora fra sé – Bisogna che anche stasera le lasci un po’ di tempo, il suo, quello che le serve, come sempre.”
Mentre percorre il sottopassaggio gli passa il treno sulla testa, con tutto il suo peso, con tutto il suo stridore di freni e il rimbombo che là sotto si sente.
“Tira gli ultimi, Ultimo. – seguita a mormorare – Una sera di queste ce lo toglieranno definitivamente: c’è sempre qualcuno che scende, è vero, ma non c’è mai nessuno che sale. Forse Silvia, forse questa volta.”
Guarda la paletta che tiene tra le mani.
“Verde, rosso, verde, rosso – continua – roba da scommetterci su. Ma una paletta da capostazione che ne sa dei giochi che abitano nella testa di una ragazza? E’ già tanto che mi dica se c’è o non c’è: non le chiedo di più, né alla paletta, né a Silvia. E andiamo con il protocollo.”
Mario risale dal sottopassaggio per le scale alla sua sinistra e raggiunge il fondo del treno, dalla parte opposta a dove si trova Silvia. Lo risale tutto, senza fretta, carrozza per carrozza: controlla chi scende, allunga qualche saluto, richiude le porte lasciate aperte.
“Eccomi Ultimo – dice fra sé – sono quasi arrivato al tuo muso. Continua a ringhiare sordo, tu. Tra poco ti tirerò un fischio potente nell’orecchio mozzo che hai, alzerò il verde e ti ritoccherà partire. Ti ho abituato bene, lasciandoti rifiatare un po’. Ma non ti illudere: è questione di mestiere. La cortesia la lascio per Silvia: le serve ancora un po’ di tempo per decidere.”
Mario passa accanto alla panchina su cui lei è ancora seduta e le lancia un ultimo sguardo, prima di girarle le spalle. Lei non gli risponde: fissa i binari davanti al treno, ora.
“E’ in partenza dal binario tre il diretto delle 19.45.”
“Il conto alla rovescia degli sportelli che sbattono è agli sgoccioli, hai sentito Ultimo? Pronto a ripartire? Chi è dentro è dentro, non c’è scampo. E non ce n’è neanche per questi binari che corrono dritti e precisi, che portano via da qui, che continuano a correre dentro la valle finché non è finita, finché il paesaggio non si apre e con esso tutte le possibilità di un’altra vita. Ma quella è un’altra linea Ultimo e tutta un’altra vita. Anche tu lo sai, anche chi ti porti appresso lo sa: nessuna illusione per nessuno. Anche per Silvia che anche questa volta m’ha detto no, sorridendo. E’ ora dunque.”
Mario scende con un salto dal predellino, sbatte violentemente anche l’ultima porta, raggiunge la sua posizione di fianco al muso tozzo ed agli occhi di Ultimo, sbarrati sul buio che arriva, lancia il fischio ed agita la sua paletta.
“E’ verde, bello, te ne puoi andare. Ti è andata bene anche questa volta, Ultimo. E’ il regolamento. E anche se fosse il gioco di una roulette, per te avrebbe il colore truccato. Verde per l’eternità.”
La banchina trema, l’aria si smuove ed il muso quadrato del locomotore gli sfila di fianco tirandosi dietro tutto il suo corpo cigolante, carrozza per carrozza, per mostrargli infine la coda: è uguale alla sua faccia, senza espressione. Mario aspetta che superi la curva, che cessi ogni rumore e poi si volta a cercare Silvia: lei non c’è già più, come sempre. La ritrova più in là, sul primo binario, che cammina leggera verso l’uscita, facendo ondeggiare la borsa. Vista da lì, sembra danzare.
Mario allora riprende le scale che scendono al sottopassaggio e riemerge davanti alla biglietteria, sempre senza fretta. Con un gesto istintivo si toglie il berretto e lo lancia sulla panchina davanti al suo ufficio. L’uscio è ancora aperto. Nella luce appena soffusa della stanza ripone la paletta sul ripiano accanto alla finestra e torna ad uscire. Affonda la mano destra nella tasca dei pantaloni, estrae un mazzo di chiavi e chiude a doppia mandata la porta dell’ufficio.
“Il berretto Mario, il berretto!”
Vittorio è dietro di lui e gli porge con una risata il cappello. Mario risponde alla sua risata con un’altra della stessa intensità e con una domanda:
“Che ci fai ancora qui? Non sarà mica per questo?”
Si rimette il berretto in testa.
“Anche. Ma è che quei discorsi di prima non mi sono piaciuti. Troppa tristezza.”
”Ma va là, Vittorio. Uno sfogo dopo vent’anni e già ti preoccupi!”
“Appunto perché viene dopo vent’anni che mi preoccupo. E poi tua figlia mi ha appena invitato a casa tua. M’ha detto che lei intanto va avanti e ci aspetta a casa con tua moglie. Così, se vuoi, parliamo ancora un po’.”
I due ora passeggiano lungo il marciapiede del primo binario, fino all’angolo della stazione; qui svoltano per il parcheggio illuminato che le sta di fianco. Sotto un lampione Vittorio si ferma, raggiunge con una mano il braccio di Mario e lo costringe a girarsi.
“Però, s’è proprio fatta grande tua figlia Silvia, eh Mario!?”