Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Settima edizione – 2007
Primo premio
Francesco Marconi
Mostar 1993
Piove.
È notte e piove.
E’ una settimana che il tempo è così e sembra non voler più smettere. Piove, poi smette per qualche ora, poi ricomincia e piove di nuovo, con l’acqua che ti entra dovunque, nel collo, negli stivali e perfino nelle mutande, e per ripararsi non bastano né gli impermeabili, né le tende, né le trincee. Come se non bastasse anche i viveri sono bagnati e le munizioni e i mitra, e non sai nemmeno se funzionano.
Maledetta pioggia. E maledetta guerra.
Ma almeno questa pioggia cade anche sui mussulmani al di là del fiume, magra consolazione. Lei non fa distinzione di razza o di religione. Anche le loro armi sono bagnate e fuori uso, e da quando piove acqua non piovono più le loro cannonate, il che non è una cosa da poco.
Chissà invece come se la passano nelle città di sotto. Lì si sta anche peggio, senza mangiare, senza un’arma per di-fendersi, tutto il giorno chiusi nelle cantine in attesa che i bombardamenti passino, in attesa che un miracolo prolunghi la tua vita ancora di un giorno. Ma un giorno per fare cosa?
Molti sono fuggiti, chi aveva un amico o un parente nelle campagne se n’è andato, ma altri sono rimasti. Forse spera-vano che la guerra passasse presto, forse non se la senti-vano di abbandonare tutti i sacrifici di una vita, o forse, più semplicemente, non avevano un posto dove andare.
Neanche io avevo un posto dove andare, per questo ho accettato di arruolarmi nell’esercito. Accettato, che parola grossa! Non sono fuggito come i miei amici e ho aspettato che venissero a prendermi. Sapevo che prima o poi sarebbe successo, ed infatti è successo. La nazione ha bisogno di te, mi hanno detto. Io, Tomislav, un ragazzo di solo 21 anni, che aiuto potevo dare alla mia nazione? E poi quale nazione, la Croazia, la Serbia, la Bosnia? O forse la Jugoslavia? Perché la Jugoslavia non esiste più nelle nostre coscienze, ma esiste ancora sulla carta geografica.
Ma in fondo è stato meglio così. In fondo non sapevo dove andare. Mio padre è morto quand’ero ancora un bambino e mia madre è rimasta uccisa subito all’inizio della guerra. La mia casa invece è stata bombardata, una delle prime. Era proprio qui vicino, alle pendici di questa collina su cui ora c’è il bunker, poco distante dal fiume Neretva che di-vide la città in due parti: da un lato la città dei croati e dall’altro quella dei mussulmani. E quando sento i colpi di mortaio che si infrangono sotto di noi, so che vengono colpiti anche i miei ricordi di bambino.
Contrasti tra croati e mussulmani ce ne sono sempre stati. Ci si vedeva da molto tempo con sospetto e pregiudizio, e la guerra ha finito per essere il logico epilogo di quest’odio strisciante. Ma per me non è stato sempre così, io non ha mai avuto nulla né contro i serbi, né contro i mussulmani. Anzi, si può quasi dire che io sono stato cresciuto da una famiglia di mussulmani. Erano i miei vicini di casa, il vecchio Miloš, un omone grande e grosso che lavorava tutto il giorno la terra, e la vecchia moglie Ana, che girava sempre in casa con quel curioso fazzoletto legato sopra la testa. Vecchi, figuriamoci!, potevano essere i miei genitori. Anzi, in fondo un po’ lo erano. Mia madre andava a lavorare, faceva le pulizie nelle case di qualche ricco signore, ed io passavo tutto il tempo a casa loro a giocare con il figlio, Nebojša, un anno più piccolo di me ma sveglio come se ne trovano pochi.
Quanti bei ricordi con lui. Giocavamo sempre nell’aia con polli e tacchini, nel fienile con la mucca, e poi nella strada, con la palla, alle corse, in bicicletta. Il mondo sembrava tutto nostro. Fino al giorno in cui, divenuti più grandi, ne avemmo abbastanza del nostro piccolo cortile e allora via, giù in città, con i capelli impomatati e la camicia pulita, a passeggiare per i viali del centro, a bere le prime birre e a fumare le prime sigarette. E le ragazze che ti passavano vicino, diamine!, che ragazze. Alte, more, con la pelle bianca e lucida che quando riflette i raggi del sole sembra abbagliarti.
Ma il momento più bello era quando venivamo qui sulla collina, proprio dove ora c’è il bunker, e facevamo quel gioco. Salivamo nelle mattinate di primavera ad ammirare il panorama, poi, improvvisamente, ci si toccava sulla spalla e giù a scapicollo per la ripida discesa. Si faceva a gara a chi arrivava primo al vecchio ulivo davanti a casa, fa-cendo attenzione alle pietre, al brecciolino, all’erba bagnata dalla rugiada o alle radici di qualche vecchia erbac-cia marcita o sepolta. Bastava un piede sbagliato per sci-volare o inciampare, e poi erano ruzzoloni fino a valle. Che dolore, che male, ma anche che risate. Chi sbagliava veniva preso in giro per tutta la giornata: se arrivavi ultimo eri un perdente, se cadevi eri un coglione.
Quanti bei ricordi!
Ma poi tutto è cambiato. I giochi della politica, i contrasti tra le persone sempre più aspri, i sospetti sempre più forti che si insinuavano fin dentro le famiglie dividendole giorno dopo giorno. Noi volevamo restarne fuori, soprattutto io che non ho mai amato la politica, è roba sporca. Ma poi avvenne l’irreparabile, la tragedia. Il padre di Nebojša, il povero Miloš, trovato morto ammazzato con un colpo di pistola alla nuca. Cielo, che pianti e che sofferenza. E’ stato come divenire orfano una seconda volta. Eppure Nebojša sembrava non capire il mio stato d’animo, il mio dolore, era come impazzito. Da quel giorno aveva cominciato a chiamarci tutti «prokleti hrvati», maledetti croati. Anche io, il suo compagno di giochi, ero diventato un maledetto croato. La madre spesso cercava di difendermi dai suoi insulti, gli diceva che sbagliava, che non dovevamo farci coinvolgere in quell’odio che non ci apparteneva. Ma era tutto inutile. Fino al giorno in cui, tornato a casa, Nebojša aveva trovato la madre stroncata dall’infarto, morta di crepacuore, e allora era partito, fuggito, e di lui nessuno aveva saputo più nulla.
Poi è arrivata la guerra, i bombardamenti, i colpi di mortaio, i colpi di mitra e di fucile da una casa all’altra, da una sponda all’altra del fiume. La guerra mi ha portato via anche quel poco che mi restava, mia madre, gli amici, la mia casa. E Nebojša, mio fratello Nebojša. Si, perché nonostante tutto per me lui ancora oggi resta sempre come un fratello. Lo ricordo con affetto, e quando ripenso alla mia fanciullezza il suo viso è l’unica cosa che ancora un poco mi fa piangere.
E poi…
O cielo! Ma questo cos’è? Sento il freddo dell’acciaio sulla mia nuca.
Ma come è possibile, ma cosa…
Maledetti!
Non può che essere così. Hanno approfittato di questa notte di tempesta, dei lampi, dei tuoni, dei miei pensieri, dei miei ricordi, e sono saliti lungo la collina, fino al bunker, dove ora mi stanno puntando un fucile.
“Vrati se polako, proklet hrvat!”, girati lentamente, maledetto croato.
Mi giro, lentamente, con le mani in alto, il cuore in gola e la consapevolezza che forse sono gli ultimi istanti della mia vita.
Chi sei, cosa vuoi da me, non farmi del male.
Cielo! Non è possibile, non è possibile.
Sembra un fantasma richiamato dai sogni, una visione del mio cervello impazzito.
E invece no, è qui, è reale, è proprio lui.
Nebojša! Nebojša, fratello mio, eccoti qui di fronte a me. Finalmente ti ritrovo. Ti ho cercato per tanto tempo, ero in pena per te, non sapevo che fine avevi fatto, dove eri, con chi stavi, se eri ancora vivo.
Ti ricordi di me? Mi riconosci? Sono io, sono Tomislav, il tuo compagno di giochi. Lascia perdere quel mitra che hai in mano, lascia perdere questa sporca guerra che non ci appartiene, piuttosto sediamoci e raccontami dove sei stato e cosa hai fatto in questo tempo.
Quante cose vorrei dirti, quanti ricordi vorrei condividere, ma non trovo né la forza né il coraggio per dire una sola parola. Vedo solo i tuoi occhi, fissi, freddi, pieni di odio, come li ricordo l’ultima volta che siamo stati uno accanto all’altro. Essi da soli sembrano avermi già condannato. Odi ancora i croati e forse odi anche me. Ma com’è possibile che hai già dimenticato i nostri giochi, le par-tite di pallone, le corse in bicicletta, le gare giù per la collina, le scappatelle in città. Lo so, è quel dolore che ancora provi per tuo padre, il povero Miloš, ma sapessi che dolore è stato anche per me. Io gli volevo bene, era mio amico, anzi, era quasi un secondo padre. Cielo!, ma non ri-cordi i miei pianti, le lacrime che ho versato per lui? Perfino tua madre te lo diceva. Possibile che l’odio ti ha cancellato ogni ricordo?
No, non le ricordi. Il tuo sguardo è sempre assente e il tuo mitra sempre puntato sul mio volto. Io non ho la forza per dire nulla e tu, forse, non mi hai nemmeno riconosciuto.
L’ultima cosa che vedo è il colpo partire. Poi un forte dolore si impadronisce di me. Appena il tempo di rendermene conto e attorno mi avvolge un buio più profondo della notte che ci circonda. Addio Nebojša, è stato bello rincontrati anche se solo per pochi istanti.
***
Oggi il sole è caldo.
E’ primavera e le giornate sono finalmente belle. E’ un piacere sentire il corpo che si riscalda ai raggi del sole e mitiga l’aria fredda della mattina.
La vista dalla collina è sempre qualcosa di spettacolare, specialmente ora che lungo le rive del fiume appaiono i primi palazzi bianchi. Che bello, finalmente ricostruiscono i vecchi quartieri. Il vecchio ponte, quello che dà il nome alla città, «Mostar», la città del ponte, lui non c’è più. Per ora è stato sostituito da una passarella di fortuna, ma ho sentito dire che presto lo rifaranno uguale a quello vecchio.
Eccolo qui il bunker, proprio in cima alla salita. Assieme ai tanti palazzi a valle ancora martoriati dai colpi di bazooka e mitragliatore è uno dei pochi indizi della guerra finita da più di un anno.
“Sai, ho temuto veramente di morire quella notte”, dico.
“Lo so”, risponde Nebojša, senza aggiungere altro. Piange come un bambino. Da quanto tempo non piangeva, forse dalla morte del padre.
“Per un attimo avrei voluto ammazzarti. Tu in fondo non eri altro che un «proklet hrvat» come tanti altri”.
“E poi?”
“E poi ho sentito un richiamo nella mia mente, una voce. Mi ha ricordato tutti i momenti passati insieme, le nostre risate, i nostri giochi, le nostre prime scappatelle di adolescenti. E le lacrime, quelle lacrime che hai versato per mio padre. Non le avevo mai viste prima di quel momento, l’odio mi ha sempre reso cieco. Ma quella notte quella voce me le ha ricordate, e mi ha ricordato che non avevo davanti un nemico, ma un fratello. Quella voce ha salvato la tua vita. E forse la mia anima”.
E’ sincero. Sento che le parole gli si strozzano in gola tanta è l’emozione.
“Forse solo ora posso dirti quanto mi è anche dispiaciuto averti dato quella botta in testa col calcio del mitra. Ma non potevo sapere se tu provavi i miei stessi sentimenti ed io dovevo pararmi la fuga per tornare al campo”.
“La guerra è stata dura per tutti”, rispondo io, “Ma ora è passata e con lei tutte le nostre sofferenze. La nostra amicizia invece è rimasta e per me questo è ciò che più conta. Spero solo di non perderti di nuovo Nebojša, fratel-lo mio”.
Ci guardiamo negli occhi e ci abbracciamo, poi, senza di-re nulla, camminiamo ancora un po’ attorno alla trincea. Dobbiamo stare attenti, il terreno circostante è ancora minato in qualche punto, ma per fortuna io lo conosco bene. Ci fermiamo sulla soglia della discesa. Tutti e due sembriamo guardare lontano l’infinito del cielo.
Poi improvviso sento uno schiaffo inaspettato sulla spalla.
“Forza andiamo”, mi dice Nebojša.
Dannazione! Ancora una volta mi sono distratto, ancora una volta mi hai preso alle spalle. Sei partito a scapicollo lungo la discesa, come ai vecchi tempi, giù di corsa, fino al vecchio ulivo che incredibilmente è ancora in piedi.
Ti inseguo, rido, corro, sto per inciampare, mi riprendo, impreco per l’erba bagnata e per il brecciolino, ancora poco e ti raggiungo. Forse ti supero. Devo stare attento che si cade e si scivola, ma devo anche correre se voglio arrivare prima di te: chi arriva ultimo è un perdente e chi cade un coglione.