Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Settima edizione – 2007
Emilio Fermi
Il delirio d’Aracne
Oscillava sempre più lenta, come un minuscolo pendolo d’ombra che stesse per esaurire la carica.
Appesa, o piuttosto aggrappata al sottile filamento che pendeva dal ramo, intravedeva tra le larghe foglie del sicomoro la macchia bianca delle casette giù in basso, i templi e i palazzi marmorei della sua Colofone, rilucente nella chiarità immobile d’un pomeriggio d’estate.
Là in fondo, sull’ansa del piccolo fiume, tra le case disposte a semicerchio lungo la sponda, c’era anche la sua, benché ormai non riuscisse a distinguerla con la nettezza d’un tempo.
A quell’ora, certamente, suo padre Idmone e i fratelli, chini sulla riva del fiume, ancora ignari di tutto, intingevano come ogni giorno le lane nelle anfore panciute, per impregnarle di porpora e poi tirarle fuori di nuovo, strizzarle e farle asciugare, mentre a pochi passi, nei locali di casa, ragazze e garzoni, sotto il controllo attento di sua madre, intrecciavano i fili sul telaio, lavavano, battevano e stendevano al sole.
Una fatica che conosceva ben poche soste, ma che aveva reso la sua famiglia prospera e conosciuta in tutta la Lidia e nel mondo intero per il pregio delle sue stoffe multicolori.
Fra poco, alle prime ombre della sera, sorpresi di non vederla arrivare, avrebbero lasciato là tutto e si sarebbero precipitati a cercarla, chiedendo di lei ad ogni porta, ad ogni angolo di strada, su per le viuzze del colle, se mai l’avessero vista in compagnia di qualche forestiero, in città o nel boschetto sacro alle ninfe, sulla riva opposta del fiume. Era là, infatti, che lei soleva appartarsi a tessere i suoi prodigi di lana, cullata dalle nenie delle cicale.
Immaginava lo strazio dei suoi, l’intera città in subbuglio, il pronto organizzarsi dei giovani in vane battute, il rincorrersi delle voci più strane e incredibili.
Poi, calata la notte, tutti sarebbero rientrati alle loro case e una quiete un po’ triste sarebbe seguita all’inutile ricerca. Col tempo, solo il padre e la madre l’avrebbero custodita dolorosamente nel cuore; forse già i fratelli, e sicuramente le amiche e gli amici ne avrebbero riparlato di rado, come di cosa irrimediabilmente perduta. Aracne? Una delle tante ragazze rapite e portate chissà dove, destinata a diventare un personaggio di favola e magari un giorno a fornire pretesti per ritorsioni e conflitti, com’era già successo per la guerra di Troia.
Lei, invece, era lì a due passi da casa, incapace ormai di parlare e ridotta a un mostriciattolo osceno, in cui nessuno avrebbe mai riconosciuto la bellissima fanciulla di prima.
Di tanto in tanto, se ne trovava il coraggio, puntava i due occhietti piccoli piccoli sul sederino puntuto e sul palloncino del ventre, cui s’erano rattrappite le gambe e le braccia, ridotte a brevi segmenti pelosi. E il pelo ormai se lo ritrovava dovunque, sulla testa e sul dorso, segnato da varie striature che parevano irridere ai suoi prodigiosi ricami d’un tempo.
Anche il cappio che s’era stretta al collo in quell’impeto folle di sdegno, poi che s’era allentato e mutato in quella specie di cordone ombelicale cui stava appesa, conservava pur sempre la trasparenza iridescente dei fili di lana che lei usava intrecciare con le sue agilissime mani.
Provò a muovere, al posto di queste, le nuove zampette e quel leggero movimento fece di nuovo dondolare il cordoncino cui s’era stretta, fin che si ritrovò, senza volerlo, sulla foglia più vicina.
Con sua sorpresa, e non senza disgusto, aveva cominciato a secernere, per riflesso spontaneo, una bava sottile, collosa, che le ricordava vagamente la lana bagnata. D’istinto tentò di rimuoverla con le zampine villose, depositandola sul dorso della foglia; poi, per liberarsi definitivamente di sé e di tutto, spiccò un salto e si lanciò nel vuoto come un tuffatore impazzito. Ma quella lucida bava ancora una volta la tenne sospesa, facendola oscillare di qua e di là, sotto la spinta della brezza vespertina.
Passò davanti più volte al suo cordoncino di prima, vi si afferrò di nuovo, arrampicandovisi fin quasi in cima. Fu a quel punto che s’accorse d’aver gettato alle sue spalle un esilissimo ponte tra il cordoncino e la foglia; più cercava di precipitare e di farla finita e più si stava avvolgendo in se stessa. Saggiò quel sottilissimo ponte sospeso e scoprì ch’era in grado di reggerla. Rassegnata al suo destino, si mise a fare la spola tra il cordoncino e le foglie più vicine, tanto che nel giro di poco, guidata dall’insopprimibile senso d’innata eleganza, compose una straordinaria tela a raggiera, che pareva fatta di lino, e spaurita vi s’installò al centro.
Il sole calava lentamente, forse stanco e addolorato anche lui di ciò che gli era toccato vedere quel giorno: non le solite liti fra gli uomini, ma una vera cattiveria divina. L’aria ancor tiepida s’insinuava come una carezza tra le foglie del sicomoro; gli uccelli che man mano rincasavano neppure sembravano accorgersi della nuova arrivata. Lei, Aracne, fino a poco prima fanciulla bellissima, da far girar la testa a giovani e non, se ne stava ora rannicchiata, accoccolata nel mezzo di quel reticolo quasi invisibile, colta da un nuovo, incipiente torpore, e aspettava le tenebre, che l’avrebbero almeno tolta del tutto alla vista del mondo.
Sentiva che la sua mutazione si stava ancor consumando; la lunga rabbia, lo sdegno impotente per il sopruso subito le si distillava pian piano in veleno.
Per la grazia misteriosa concessa a tutti i fondatori di stirpe, intuiva confusamente il futuro, allorché milioni, miliardi di ragni, or piccoli, or grandi, avrebbero messo da parte, in qualche anfratto del loro minuscolo corpo, una porzione più o meno letale di quel veleno per tramortire e ingoiare altri esseri, anche più grandi e forti di loro. Una vendetta tardiva…
Intossicata dal disgusto di sé e del mondo, sognava un torbido sogno: avvolgere tutto, piante, animali, uomini e cose, in un reticolo spesso, in un intrico di bava collosa, fino a soffocarli e a spegnere in loro ogni conato di vita, ogni affetto e pensiero.
Con la peluria stuzzicata dal venticello serotino, se ne stava là sospesa e immobile; finché le condizioni del tempo l’avessero permesso, non sarebbe andata in cerca d’altri rifugi che la sua rete, evitando il più possibile altri contatti col resto del mondo. Sola e diversa, ormai spregevole agli occhi di tutti, avrebbe trascorso le ore, i giorni, gli anni, quanti ancora il cielo gliene avrebbe concesso, a rimuginare a mezz’aria il suo triste destino. Si rendeva conto che a lei per prima nessuno scampo, nessuna liberazione sarebbe mai più stata concessa da quella rete di bava che s’era costruita e su cui stava appollaiata; la rete ormai le sgorgava di dentro, sempre pronta a farsi ritessere, e di quella rete, suo prodotto incessante, sarebbe in futuro vissuta.
Nel torpore mosse inconsciamente una zampina, quasi volesse inseguire e punire un’ombra nemica.
“ Una donna, una dea…”, gorgogliò fra sé. “Fosse stato Giove in persona, o Apollo, o Marte, l’avrei tollerato…No, ma i maschi non arrivano a tanto…”
Una donna ci voleva, che alla sua molle perfidia accoppiasse la violenza del maschio. La figlia prediletta di Giove, quel prototipo androide di tutte le donne in carriera…Lei la Pura, l’Intelligente, la Razionale, la Frigida, che s’era asciugata con un fiocco di lana gli schizzi d’Efesto sulla coscia scoperta…Invidiosa, acida, la civetta d’Atene…Rappresentante divina d’una razza boriosa, fredda, calcolatrice, schematica, cui piaceva misurare, controllare, organizzare, e tutto per il dominio, per ridurre gli altri ai suoi piedi. Non era stata forse l’invidia, la sete sfrenata di potere, quella che tante volte li aveva mossi a far guerra alla sua città, alla sua gente, per cancellarne la bravura, bruciare i loro capolavori di stoffa, rubar loro il primato nell’arte della porpora?
“Ci hanno sempre odiati…Figuriamoci, poi…la mia famiglia veniva da Creta, la terra dei vasi dipinti d’uccelli, d’alghe e di pesci, delle lane morbidissime dai mille colori, che tutte le donne del mondo vorrebbero indossare nelle feste e negli incontri d’amore…, laggiù dove tutto è intriso di cielo e di mare… Loro, i prediletti della Frigida, nata per sbaglio dal cervello di Giove, fino a poco fa sui vasi non sapevan tracciare che righe e quadrati, monotoni e grigi come le sbarre di una prigione…E lane stoppose, colori sbiaditi, disegni copiati…Sì, a copiare son bravi, ma poi son più invidiosi di prima…
Lei, sempre lei, l’inventrice della tromba e del flauto, del giogo, del cocchio e della nave e chissà di quant’altro, a prestar fede a quelli d’Atene…, la protettrice delle arti e di tutti i mestieri, la Guerriera, e la Sapiente per giunta…, tanto divina, tanto saggia e tanto potente da invidiare una povera ragazza che aveva il torto d’esser più brava di lei nel ricamo…
“Superbia, la mia?” farfugliò inviperita, come volesse ricacciare quell’accusa in bocca a qualcuno.
“Sfidare una dea…Eppure vedrai che, se la cosa si viene a sapere, tutti andran ripetendo, come tanti beoti, che io volevo provocare la Divina, la Suprema, l’Eccelsa…-Ecco, vedi”,si diranno l’un l’altro, “come è successo a Prometeo, a Niobe eccetera,eccetera. Gli dei,poi, s’arrabbiano e…- Intanto Prometeo, perché maschio, non l’hanno umiliato a tal punto; le pene più odiose le han sempre riservate alle donne…Ma poi, ripeto, pena, punizione per che cosa? Si potrà mai sapere cos’ho fatto di male? Tutti, ma proprio tutti, in città dicevano che di ricami come i miei non ne avevan mai visti. Lo ripetevano le vecchie, che pure ricordavano quelli dei tempi passati, lo ammettevano le mie amiche, anche quelle un po’ invidiosette, quelle che magari poi – dovevo stare più attenta… – lo spifferavano nelle loro invocazioni alla Sublime. Fu proprio una di loro, ricordo, che un giorno mi chiese: – Te la sentiresti di gareggiare con la Dea? – . Se le risposi di sì, fu del tutto in buona fede, quasi per scherzo, ma Lei, la Grande, la Potente lo venne a sapere…si offese a morte e decise di prendermi in trappola. Che bassezza…, vestirsi da vecchia, infinocchiarmi con discorsi da suocera e poi svelarsi di colpo, quando ormai non potevo più ritirarmi…”
“E con tutto ciò” riprese, rigirandosi nella sua culla bavosa, “non riuscì forse la mia tela più bella?
Se no, che motivo c’era di montar su tutte le furie, di strapparmi il ricamo, di darmi quella gran botta in testa con la spola e poi…Neanche nella morte mi lasciò trovar scampo, ma tornò indietro, mi allentò il cappio e mi rubò le mie forme, ogni mio bene…”
No, non sapeva darsi pace, la povera Aracne. Troppo era il torto subito; tanto grande, che per lo stesso gusto amaro che sarebbe stato un giorno di Pier della Vigna, andava almanaccando, per scovarlo e distruggerlo, quale potesse esser stato il vero, segreto, motivo di tanta ferocia.
“ Il tipo di scene che avevo ricamato? Storie variopinte d’amore e di sesso fra dei, di quelle che fan sognare e sorridere gli uomini…Lei, l’Illibata, per dire di che pasta sia fatta, aveva riempito la tela con i soliti, noiosissimi consessi divini, con scene di liti e contese, per farsi notare, per far vedere che lei risolveva ogni cosa…Con la sua solita mancanza di humour, disse ch’ero io a mettere in cattiva luce gli dei…”
Qui ritrasse le zampine e si raggomitolò ancor più in se stessa; l’aria della sera soffiava più fredda; era l’ora in cui, nel giardino della sua casa, s’avvolgeva sulle spalle il morbidissimo scialle che s’era intessuta per i suoi quindici anni.
Ma per quanto impegno mettesse a rintracciare nella malvagità della dea ogni radice della sua tristissima sorte, come accade sempre ai mortali, che tanto più s’arrabbiano per l’offesa ricevuta quanto più sospettano che in qualche modo probabilmente se la son meritata, avvertiva come un grumo amaro, insolubile in fondo al suo cuore. E ciò la faceva ulteriormente soffrire.
C’era dunque qualcos’altro ancora, di più nascosto, che la dea senza cuore aveva voluto colpire? Qualcosa che, più della bellezza, del suo incanto giovanile, della sua straordinaria abilità nel ricamo, costituiva il nucleo più tenero e intimo del suo essere donna? Perché era quello, senza dubbio, che la dea androide aveva voluto umiliare e punire. Non era proprio Lei, la dea riuscita più maschio che femmina, che mal tollerava ogni accenno al suo essere donna, che si faceva ritrarre armata dalla testa ai piedi, con quel tremendo scudo che impietriva chi lo guardasse? Perché dunque tutto quell’odio, quella durezza, per una fanciulla di quindici anni che filava e tesseva?
“ A meno che…”, sussultò, come colpita da una luce sinistra, “a meno che non fosse proprio questo filare ed avvolgere, che lei in qualche modo mi ha voluto lasciare…”
“Sì”, continuò con quel poco di lucidità che ancora le restava, “è vero, noi donne siamo nate per filare e avvolgere, per tessere e proteggere…Dentro noi stesse, dove lasciamo che s’intrecci e si formi ogni figlio dell’uomo. Poi, fra le nostre braccia accogliamo il bimbo che viene, e lo portiamo al seno, sempre con la tenerezza e il calore con cui avvolgiamo l’uomo e facciamo di tutto perché si trovi a suo agio… Chi, se non noi, può ristorare, nel nostro morbido corpo, il freddo di fuori, la durezza del mondo? Chi, se non la nostra voce calda e avvolgente, stemperare il rigore maschile?
Da sempre noi mettiamo al caldo e circondiamo di cure ciò che è più fragile e prezioso…”
E qui, nel suo delirio profetico, le sembrò d’intravedere, tra le foglie del sicomoro, una debole luce lontano, nella vastità della notte stellata…: un’altra giovane donna da poco aveva dato alla luce il suo primogenito, ed ecco “ lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia”… Quale gesto più materno e femminile di questo?
“Ma gli uomini capiscono?” sussurrò con l’ultimo filo di voce. “Coccolati e ristorati dalle nostre cure avvolgenti, poi strappano la tela col garbo di Atena…Temono di morir soffocati, non più liberi, trovan sempre di meglio da fare che lasciarsi amare da noi…” Si sovvenne di Ettore, di Ulisse, di Enea, ma fece in tempo a intuire che qualcosa di simile avrebbe colpito anche la giovane donna di prima…Anche Lui, il Nato nella mangiatoia, avrebbe preso le distanze da colei che lo aveva avvolto con tutto il suo amore.
Che ci fosse dunque qualcosa di necessario, di giustificabile, nel duro gesto d’Atena, nell’asciutta risposta di Enea a Didone, se perfino?…Cosa si chiedeva infine alla donna? Di morire a se stessa?
A quel pensiero sentì nel profondo una fitta terribile, come se una spada avesse trapassato il suo cuore.
Poi il pensiero, il logos come noi lo intendiamo, l’abbandonò del tutto e per sempre.
Proprio in quel momento un grosso insetto venne a sbattere contro la nuova tela che aveva tessuto e vi restò impigliato.
Ormai tutto ragno, con un balzo gli fu addosso, lo avvolse tutto di bava collosa, lo intorpidì col nuovo veleno e poi pian piano, nel silenzio della notte, se lo succhiò fino all’ultima goccia.