Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Sesta edizione – 2005
Velluti Alberto
“All’ Aquila Cieca” rinomato caffè letterario
Parte prima A Zauberdorf camminando su e giù per il lungo viale del centro durante i periodi di villeggiatura era difficile non incontrare almeno per una volta un personaggio illustre. Zauberdorf era da tutti conosciuto come il villaggio che dava quiete e riposo alle menti più acute e illuminate dell’Impero. E a Zauberdorf tutti conoscevano il rinomato caffè letterario “All’Aquila Cieca” dove si davano appuntamento scrittori, filosofi, politici, artisti, insomma la crema culturale del Paese. Il nome, leggermente irriverente nei confronti di uno dei simboli dell’Impero, gli conferiva quel tocco di anarchia tanto caro ai nostri letterati; ma, non era certo soltanto per il nome che riscuoteva successo! Situato a pochi passi dalla piazza centrale del villaggio, ampio e comodo, ma, nello stesso tempo, intimo, era arredato con gusto, senza esagerazioni o pretese di eleganza cittadina. Durante la bella stagione ci si poteva accomodare in alcuni tavolini all’aperto, mentre all’interno vi erano due sale al piano terra e un altro salone al piano di sopra; il servizio era sempre impeccabile e i camerieri facevano di tutto per venire incontro ai piccoli capricci dell’esigente clientela. Si sussurrava inoltre, ma questa credo fosse una leggenda, che non si gustasse un caffè più buono nemmeno a Vienna. Al di là di tutti questi pregi, il segreto del locale era dato appunto dall’importanza degli avventori stessi. Da tempo immemorabile i rappresentanti più in vista della cultura mitteleuropea lo avevano eletto come luogo ideale per i loro incontri. Pare che tra quei tavolini fossero nate idee geniali, abbozzati alcuni dei più grandi capolavori, discusse leggi che avevano modificato la società imperiale, calcolate alcune formule matematiche, scoperti nuovi pianeti e che, addirittura, fosse stato scritto un breve racconto dedicato al caffè! Impossibile dunque per le nuove leve, per gli scrittori emergenti, per gli studenti con velleità artistiche, non subirne il fascino. E così era garantito il ricambio generazionale, per quanto, nel corso del tempo, non si notassero i mutamenti, e i personaggi di spicco sembravano essere sempre gli stessi. Pur essendo molto grande era un’ardua impresa trovare un tavolino libero e quando lo si trovava c’era il rischio che fosse prenotato, in alcuni tavoli era perfino impensabile accomodarsi. Il tavolo numero cinque, ad esempio, apparteneva al “Professore”, una delle colonne del locale, e doveva rimanere a sua disposizione anche nel caso si fosse trovato a Vienna. Nessuno sapeva come si chiamasse veramente il Professore, nessuno, d’altronde, se lo domandava più. Di lui si sapeva soltanto che aveva pubblicato un libro sulle masse oppresse. Una volta un turista, probabilmente un italiano, si era inavvertitamente seduto al suo tavolo vedendolo libero, e il cameriere lo aveva aspramente redarguito. Per fortuna avventori così avventati non ce n’erano tanti. Ad ogni modo il Professore era quasi sempre presente ed era uno spettacolo sentirlo parlare. Non aveva mai più di uno o due interlocutori, ma il suo tono di voce era talmente alto che lo si poteva distinguere anche al piano di sopra. D’altra parte tutti dovevano udire le sue sagge parole. Quando parlava teneva le palpebre socchiuse, credendo di avere così un’espressione più intelligente, e faceva svolazzare una mano paffuta nell’aria. “Giustappunto” lo si poteva udire rivolto a un giovane magro con gli occhiali che lo ascoltava con attenzione, “detta in forma aforistica, nevvero, la fattispecie, se strutturata, e ribadisco: strutturata, procede appunto, determinata dalla necessaria convenevolezza della medesima, in un iter paradigmatico, per dir così, esiziale, inerente al criterio sovrapposto che nulla attiene alle esigenze contestuali.” Succedeva spesso che l’ascoltatore di turno ripetesse una o due paroline per dimostrare di avere seguito il discorso. Consapevole di avere l’attenzione su di sé non poteva certo dar prova di non avere compreso il Professore. “Se strutturata.” Ribadiva quindi il giovane occhialuto con tono sicuro. “Si capisce.” Confermava il Professore, dopodiché scuoteva la testa e tenendo sempre le palpebre socchiuse emetteva un lungo sibilo: “Sssìììììì… strutturata; fino a un certo punto però!” Era infatti sua regola non dare mai completamente ragione all’ interlocutore nemmeno se ripeteva le stesse cose che aveva appena detto. “Non come lei crede. Sic et simpliciter. Strutturata nella misura in cui, mutatis mutandis, il contesto paradigmatico si innesta alla sua base.” Altra caratteristica del Professore era infatti quella di infarcire i discorsi con brevi frasi latine. Il tavolo numero tre, invece, era sempre occupato da uno scrittore, il quale nel tempo libero si dedicava anche all’arte del medico. Questi, a differenza del Professore, non parlava mai e si limitava a prendere appunti su un taccuino minuscolo. C’era poi il tavolo dei “sovversivi”, un gruppo formato da alcuni giovani che, a quanto pareva, avevano abbracciato alcune pericolose teorie socialistoidi; li si vedeva parlottare a bassa voce in modo equivoco, a volte guardandosi attorno con sospetto. Davano l’idea di tramare un complotto da un momento all’altro, e questo atteggiamento schivo e idealista affascinava le belle ed eleganti signore che in gran numero frequentavano il caffè. Chi non subiva affatto il loro fascino era il gestore, e non tanto per le opinioni politiche ma perché, pur provenendo da famiglie agiate, non amavano spendere e consumavano sì e no un caffè in tutta la giornata. Il gestore li avrebbe volentieri cacciati via se non fossero diventati ormai anche loro un’istituzione; inoltre godevano della simpatia del Professore il quale per attirarne l’attenzione citava spesso nelle sue dotte elucubrazioni il titolo del suo unico libro: “Le masse oppresse”. Ma il tavolo più esclusivo di tutti si trovava al piano superiore. Vi si era seduto una volta il campione del mondo di scacchi, il grande maestro russo Sdriboscencko, capitato per sbaglio a Zauberdorf. Da allora il tavolino era sempre rimasto libero in perenne memoria dell’evento, nella speranza che il campione potesse, anche per sbaglio, ritornarci. Vi era stata posta sopra una scacchiera con tutti i pezzi preparati e un biglietto con la scritta: “Riservato a Sdriboscencko.” Nessuno, nemmeno un italiano, aveva mai osato sedersi a quel tavolo. Il gestore ne era molto fiero essendo un esperto dilettante del nobil giuoco o, come si dice in gergo scacchistico, un abile trasportatore di legname. Come già ho avuto modo di raccontarvi, ogni cliente aveva delle particolari esigenze e i camerieri cercavano in tutti i modi di soddisfarle. Il Professore era solito mescolare il caffè con due o tre cucchiaini di panna al posto dello zucchero. La panna doveva essere fresca e montata al momento. Lo scrittore, invece, voleva che insieme alla polvere del caffè fosse mescolata anche della finissima polvere di cacao rigorosamente olandese e di una marca particolare il cui nome ora mi sfugge, un nome complicato, impronunciabile come solo gli olandesi possono escogitare. Uno dei giovani sovversivi, un certo Mark, voleva il caffè molto forte e ristretto, accompagnato da un bricco di acqua bollente di modo da poter stabilire lui la dose. Un pittore innaffiava la sua piccola tazzina di caffè con litri e litri di latte. Per non parlare poi dei musicisti che facevano sempre le richieste più stravaganti. D’altronde quello era lo stile del locale: gli artisti, i geni, si sa, sono eccentrici, e bisogna in qualche modo venire loro incontro. Al rinomato caffè “All’Aquila Cieca” non passava giorno che non venisse organizzato qualche evento culturale: la presentazione di un libro, un concerto, una mostra di quadri. Tutta la cittadinanza di Zauberdorf era orgogliosa di possedere un simile locale e anche il più umile e povero degli abitanti conosceva per filo e per segno quello che lì avveniva. Parte seconda Johannes si svegliò di mattina presto e di buon umore. Di solito preferiva indugiare sotto le coperte e continuare i sogni interrotti, ma quel giorno aveva un importante appuntamento che non voleva più rimandare, e, benché non avesse dormito per l’emozione, si sentiva stranamente energico. Aprì i balconi della piccola stanza d’albergo respirando a pieni polmoni l’aria fresca e salutare di Zauberdorf. Da quando la casa dei nonni era stata venduta non era più ritornato in quello che era stato il paese incantato della sua infanzia e ora gli faceva un certo che ritrovarsi in quella camera insignificante. Diede una fugace occhiata alla strada sottostante e si accorse che già brulicava di gente a dispetto dell’ora, diresse poi lo sguardo più in lontananza, là dove cominciava il grande viale del centro. Quante volte lo aveva percorso! Chiuse gli occhi e vagò con la mente a quei giorni, a quelle lunghe e spensierate passeggiate in compagnia del nonno che lo teneva per mano e gli parlava con la sua voce calma e paziente. Non c’era volta che non fossero passati davanti al caffè “All’Aquila Cieca”. Allora il nonno gli raccontava divertenti aneddoti sui personaggi illustri che lo frequentavano. Quel che era sorprendente è che riusciva a ripetere persino alcuni brani di un discorso del Professore pur non essendo mai entrato nel locale. Il nonno, infatti, aveva sempre preferito accompagnarlo in altri anonimi bar. “Quello non è un posto per noi” gli spiegava tutte le volte che lui insisteva per andarci, “lì ci vanno gli scrittori, i signori importanti. Se un giorno anche tu diventerai… beh… ecco… allora… forse; ma adesso no, ci sentiremmo soltanto a disagio.” Johannes si ridestò da questi nostalgici ricordi, chiuse la finestra e guardò la valigia aperta sul tavolino; si sincerò che il libro si trovasse ancora dove lo aveva preparato la notte prima. Si lavò e si vestì; giacca e cravatta per l’occasione. Poi si tolse la cravatta perché così gli sembrava di essere più eccentrico. Quando scese, un cameriere gli domandò se gradiva accomodarsi per fare colazione. Gli rispose di no con un sorriso divertito. “Non faccio mai colazione la mattina.” Gli mentì come per giustificarsi; dopodiché si chiese per quale motivo aveva dovuto mentire e giustificarsi. Non era lui libero di fare colazione dove voleva? E poi non aveva visto il libro che teneva in mano? L’ho scritto io, avrebbe desiderato dirgli, ma si trattenne. Uscì e si incamminò. Quando raggiunse il gran viale il cuore cominciò a battergli forte. Gli vennero in mente alcune frasi del Professore riportate da suo nonno: “Ecco vero, come già ho avuto modo di appurare nella mia opera: le masse oppresse, il teorema filologico quantistico…” Lui, nonostante fosse stato troppo piccolo per capirle, non le aveva mai dimenticate. “…Purché indicizzato, e si badi bene: indicizzato…” Ora, divenuto adulto, riusciva a malapena a intuirne la profondità. “…Risulta apodittico, per non dire evidente, nella sua forma aprioristica…” Uomini di così rara sapienza era difficile trovarli. “…inerente, nevvero, alla nemesi geografica…” Sospirò pensando alle grandi capacità di quel maestro, l’unico in grado di spaziare da un argomento all’altro con un semplice e breve discorso. “…Cum grano salis e, quasi superfluo rilevarlo, qualora strutturato. E ribadisco: strutturato.” Chissà se c’era ancora il Professore. Gli avrebbe fatto molto piacere incontrarlo e magari iniziare con lui una discussione. Certo, non aveva raggiunto ancora una simile eloquenza, ma non avrebbe nemmeno sfigurato. Mentre camminava incrociò alcune persone e si domandava se queste lo avessero già riconosciuto. Si sentiva molto osservato e si sforzava di mettere in mostra la copertina del libro; con discrezione però! Che non si accorgessero che lo faceva apposta. Tutto preso dalla sua vanità raggiunse la piazza centrale e si fermò di colpo. “Che sciocco” mormorò tra sé battendosi una mano sulla fronte, “sono andato troppo avanti.” Si voltò e ripercorse alcuni passi per poi fermarsi di nuovo, questa volta rimanendo ancora più spaesato di prima. Johannes in un primo momento pensò di essersi sbagliato, ma più si guardava attorno più si rendeva conto di trovarsi proprio nel posto giusto. “Una banca.” Sussurrò tra sé sconcertato, “e io sono diventato uno scrittore, avrei dovuto studiare economia.” Dalla banca uscì un signore distinto vestito in modo molto elegante. “Mi scusi.” Lo chiamò Johannes con un cenno della mano. “Sì?” Borbottò il signore che non amava venire fermato da uno sconosciuto. “Saprebbe indicarmi dove si trova il caffè All’Aquila Cieca?” “All’Aquila Cieca?” Ripeté quello come se avesse detto una bestemmia. “All’Aquila Cieca.” Confermò Johannes. “Ah sì!” Esclamò con un’espressione del viso più distesa, “ora mi ricordo, e dire che ci andavo spesso anch’io.” Il signore, infatti, aveva fatto parte del gruppo dei finti cospiratori. “Come vede non c’è più. Al suo posto è stata costruita la banca.” Di cui io sono il nuovo direttore, avrebbe voluto precisare. Johannes lo guardò con un’espressione del viso piena di sconforto. “All’Aquila Cieca, già, già.” Continuò a ripetere il distinto signore, “il rinomato caffè letterario.” Aggiunse scuotendo la testa, “e sì che me l’ero quasi dimenticato.”