Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Sesta edizione – 2005
Calvi Claudio
Aprile
Prima di quell’aprile guardavo un po’ scocciato e infastidito il pezzo di stoffa con una penna nera che a vent’anni toccava ad ognuno del mio paese : mi sembrava il simbolo di un anno buttato.
Prima di quell’aprile non mi chiedevo se il destino ce lo costruiamo, o se invece è un binario in parte tracciato da chi è venuto prima di noi.
Prima di quell’aprile non facevo domande: la vita era quella che veniva, e il mio posto era uno dei tanti posti, e la mia gente come tanta altra gente…
Quell’aprile, invece, mi ha dato l’appartenenza ad una memoria, che è un posto, che è gente mia, che è un senso dove poter stare, e starci bene.
E poi , quell’aprile, mi ha insegnato ad amare quella pezza con una penna nera e a darle un nome: è il cappello di noi alpini.
Non ti ricordi…
Quella che dalla mia famiglia porta alle caserme di Udine è sempre stata una via naturale, come per le cose trascinate dai torrenti.
Il mio bisnonno partì per Udine. Poi mio nonno, mio zio…ed io. Il mio bisnonno non è tornato, dove si sia perso è confuso, la mamma cambia spesso versione, l’Ortigara o il Monte Nero, non so.
Gli altri sì. Tornarono. Mio nonno vide la Russia. Rimase solo a lottare contro un mare di neve… Ma tornò a baita.
…..quel mese di aprile…
mentre sussurravo l’arrivederci ad Erika, pensavo che in fondo la fine dell’inverno è il miglior momento per lasciare la valle.
Non mi piace la montagna quando diventa agonia di una stagione. I sentieri grondanti di fango e il profumo lasciato dalla neve sciolta, un che di finito. E di morte.
Guardavo le piste sciistiche sulle coste dei monti macchiate qua e là dal bruno del terreno. Gli impianti ormai erano tutti chiusi.
Salutavo Erika davanti alla porta di casa sua e mi sembrava di ripetere la scena che la nonna mi raccontava sempre. Suo marito che partiva per la guerra, e l’angoscia che quello sarebbe stato l’ultimo sguardo, con dentro l’ansia di perdere poi per sempre i tratti di quel volto amato.
Solo che per noi, per me ed Erika, era tutto un po’ meno drammatico.
Non si parlava di guerra, ma di pace.
…quel lungo treno….
“Quando arriverai laggiù?” mi ha chiesto Erika.
Io ho allargato le braccia “Non lo so, prima o poi me lo diranno.”
Ci siamo baciati, lei si è voltata, poi davanti alla porta mi ha guardato e ancora mi ha fatto ciao con la mano.
Mentre la porta si chiudeva ho sentito la sigla del telegiornale.
Ho guardato il cielo scritto di stelle e le sagome dei nevai restituirmi il solito e inevitabile senso d’eterno.
Sapevo che anche questa volta, inesorabilmente, il primo titolo letto dal giornalista sarebbe stato per la Bosnia.
…che andava al confine…
ormai erano giorni che si diceva che il nostro reparto sarebbe partito.
Io ne ero stato fuori, anche con il pensiero. Mai mi era passato per la mente di firmare..
La decisione fu un lampo improvviso mentre sganciavo gli scarponi da sci dopo una esercitazione.
Quel gesto era il solito identico gesto che avevo fatto altre migliaia di volte a casa, dopo ogni giornata passata sulle piste. “Alla fine che almeno un po’ di questo anno abbia un senso” mi sono detto..
Non sapevo se là, oltre il confine, davvero ci fosse quel senso che dovevo cercare, ma ho sentito che almeno un tentativo bisognava farlo.
…e trasportava migliaia degli alpini….
Denis, degli amici del paese, era l’unico che in caserma mi era accanto.”Io vado in Bosnia” gli dissi.
Lui mi ha guardato, ha sorriso ironico, alla fine ha capito che facevo sul serio. E’ stato silenzioso per qualche secondo, poi ha cambiato espressione.
“Allora parto anch’io, non hanno sempre fatto così i paesani? Insieme…” d’un tratto alle sue parole m’è venuta in mente la lista dei caduti nella piazza del paese e i racconti di mio nonno sulla Russia, e poi quella strofa che mi cantava sempre quand’ero piccino: alpini della Julia, in alto il cuore, sul ponte di Perati c’è il tricolore..
……Su su correte….
Quando risalimmo “ a baita” per l’ultima licenza, io e Denis eravamo certi che a breve saremmo partiti.
Al pub quella sera ero a disagio nel guardare al bigliardo il branco dei miei amici. Sentivo che qualcosa inesorabilmente sarebbe cambiata in me dopo quella esperienza e l’unica certezza era di non poter tornare indietro..
Nel tintinnio della porta a vetri presi Erika per mano. Da fuori, oltre la finestra appannata guardai le sagome dei miei coetanei, poi diedi il calcio al mucchio di neve incidendolo con la mia impronta e mi voltai tornandomene verso casa.
…è l’ora di partir…..
“Spero che laggiù non cambierai troppo e al ritorno avrai ancora uno sguardo per me” disse Erika d’improvviso. Coperte dal vapore, non lessi le sue labbra muoversi. La udii appena.
C’era un vento freddo, insistente, che le graffiava il bel volto abbronzato dalle piste. Aveva letto i miei dubbi come nessun altro avrebbe saputo. La strinsi forte.
“Grazie” dissi.
Lei pianse. E quella è stata l’unica volta che l’ho vista farlo. Dal palazzetto venne un boato di voci, un gol della squadra di hockey, probabilmente. Sentii che tutto ciò che lasciavo era proprio casa mia. “Si sta bene qui….” Dissi. Lei si asciugò le lacrime e mi sorrise.
….dopo tre giorni di strada ferrata…
All’aeroporto, in formazione davanti ai giornalisti, avemmo il tempo di sentirci divi. Volevano il cappello con la penna per le foto. “Se non lo avete ve lo diamo noi….” disse un fotografo e fece per tirarlo fuori dalla borsa. Mi sentii d’improvviso offeso dall’immagine di quel cappello spiegazzato che usciva da una sporta come la colomba dal cappello del prestigiatore, dissacrante di fronte al copricapo di mio nonno appeso da sempre sul camino di casa.
“Voi giornalisti non avete mai capito niente” ringhiai astioso verso quel giovane allibito che mi chiese scusa. “E’ come essere al luna park” dissi a Denis superando il cordone dei carabinieri in mimetica.
Mentre eravamo sull’aereo Denis mi chiese il perché di quella reazione. Io alzai le spalle. Non dissi niente.
Quali parole avrei potuto trovare per spiegare quel nuovo miscuglio di sensazioni, racconto e storia, dolore e splendore, amore e passione che mi stava esplodendo nel sangue.
Memoria..d’improvviso mi era sembrata una cosa troppo intensa per non difenderla da questo tempo nato per sfregiare ogni cosa del passato.
…..e altri due di lungo cammino…
“Vorrei sapere quale lucida strategia militare ha deciso di mandare in pensione i muli” imprecò qualcuno mentre cercavamo di far muovere le camionette affondate nel torrente di fango. Era come se le cime avessero deciso di vomitare tutta l’acqua del creato su chi osava disturbarle coi motori.
Cercai Denis ma lui impegnato non ricambiò lo sguardo. Mi sentivo solo e indifeso e mi chiedevo se veramente qualcuno ci fosse ostile in mezzo a quel fango come ci saremmo salvati.
Sì, forse i muli là erano l’unico mezzo per potersi muovere perché nonostante i satellitari, i visori notturni e le armi ad alta precisione noi stavamo in un altro tempo. Un tempo sconosciuto, dove la tecnologia alla fine era inutile.
Poi, pescato chissà da dove dentro di me, rividi canticchiare mio nonno mentre mi teneva bambino sulle ginocchia: “Alpini della Julia, in alto il cuore, sul ponte di Perati c’è il tricolore…..” poi “Mai paura Claudio”.
Parole di mio nonno…
Mi fecero andare avanti.
….siamo arrivati…
I pochi abitanti rimasti Crvar vivevano ammassati in tende americane. Accese dal sole quelle case di stoffa parevano gigli candidi spuntati miracolosamente in quella piana brutale di fango e roccia. Stavano lì, figlie della poesia e della tenacia degli uomini mentre l’orizzonte si schiudeva e intorno mostrava pascoli immensi che riempivano il degradare della valle.
A breve quel mare verde si sarebbe fatto smeraldo e con la fioritura del tarassaco sarebbe esploso di profumo e colore.
Nel pensiero tornai a casa mia, a quei colli punteggiati di giallo che fin da bambino erano il miracolo che annunciava l’estate e la fine della scuola.
Indicando i prati arruffati dal vento sussurrai: “Sono come quelli di casa nostra”..
Denis non disse nulla, appena alzò il braccio.
Mi chiesi se a renderlo così stanco fossero la malinconia o la lunga marciaa. Ma nel suo sguardo non trovai risposta.
…sul monte Canino….
Crvar era poco più di un’impressione che solo la volontà degli uomini aveva potuto imporre a una valle così angusta. Un grappolo di case abbarbicato dove la roccia permetteva, adesso solo muri, sbilenchi e macerie dove una volta correvano le vie. Il mondo pareva rasserenarsi solo in basso, verso i pascoli, e sulle cime.
Di Ivo mi davano tenerezza le sue guance colorate e le gambe rosse e filiformi, steli secchi che uscivano da pantaloncini troppo grandi.
Ivo conosceva un po’ di olandese imparato dal presidio precedente, ma ci mise poco ad imparare “Alpini” e “mangiare”, e “casa, e “montagna”. Alla fine bastarono dieci giorni perché fosse perfettamente in grado di comunicare con noi.
Un giorno nella nostra tenda ascoltava i tuoni d’un temporale. Ogni schiaffo d’aria riempiva di terrore il suo sguardo. Indicò d’improvviso le nostre armi e fece il gesto di chi spara con la dimestichezza di chi ne ha conosciuto la violenza.
“Soldati fanno male” disse e nello sguardo lucido aveva il disorientamento di chi vuole esprimere cose vissute che le parole non possono spiegare.
Denis gli sorrise.”Gli alpini non sparano ai bambini.” disse.
Lui quasi per assicurarsi che fosse vero ripeté “Alpini non sparare a Ivo”. Poi tranquillizzato porse la mano a Denis, accucciandosi a fianco..
…..a ciel sereno….
Mentre i giorni passavano, i prati intorno a Crvar si riempivano di colore attendendo animali che non sarebbero mai tornati. “Quanto fieno sprecato…” pensavo mentre sentivo quell’erba ricca accarezzare il tessuto in microfibra della mimetica. Rendeva strani quel silenzio lugubre di posti che prima della guerra erano degli uomini..
Quell’erba alta e profumata, quel senso di lontananza dalla vita borghese, quell’accompagnarsi a persone che avevano perso il presente, quel subire la natura senza difese, il sole come un abbraccio, il vento come un sussurro flebile, le tempeste come uno schiaffo sprezzante ci spogliava, come se le sensazioni adesso fossero solo i discorsi della nostra anima.
Una volta il governo aveva sognato di fare di Crvar una ricca e piccola Serajevo, regno degli sport invernali.
Aveva tracciato piste da sci, eretto impianti di risalita e costruito anche alberghi, ora distrutti.
Non c’era più pericolo, i pattugliamenti erano passeggiate in montagna per sentieri di pascolo del tutto simili ai nostri, ma deserti. E Ivo era il sorriso che ci accompagnava. Gli raccontavamo le nostre storie, ma quelle della mia generazione finirono presto. E poi erano così strane per lui…Allora passammo a quelle che avevamo sentito dai nonni, i ricordi , le emigrazioni, le guerre. Lui ascoltava, entusiasta. Non capiva tutto ma sembrava assorbire il ritmo dei nostri racconti come una musica.
Gli piacevano specialmente le storie degli alpini. Forse perché non erano così lontane dalla guerra che aveva vissuto. “Voi, montanari come me, stessa gente” disse una sera, e non si poté che accarezzarlo. “Alpini come aquile, volano ogni posto, anche da Ivo” e indicò la sagoma sul nostro berretto. La sua era una domanda di solidarietà che un po’ ci metteva a disagio perché sapevamo che non aveva bisogno di un amore a termine. Ma noi altro non potevamo dargli.
“Ivo, presto ce ne andremo…” dissi un giorno. “Non perdi mai ricordo di amico, perché non pesa” mi rispose. Io non so da dove venne quella frase. Ma non la scorderò mai.
….ci tocca riposar….
Ivo prima della guerra sciava. Come me e Denis lo faceva da sempre e un giorno era andato a Sarajevo per i campionati giovanili. Ricordava con emozione quella città dai muri tutti bianchi, me lo rivedo ancora mentre narra e intanto gusta il nostro cioccolato. “Alpini più buoni di olandesi” disse alla fine “ Loro niente cioccolato”. Io e Denis ridemmo a lungo per il suo giudizio disinteressato.
….se avete fame ….
Durante la guerra la stazione della sciovia era stata usata come osservatorio. Adesso era solo macerie con i pali di ferro che sembravano gracili braccia protese verso Dio. A volte coglievamo Ivo guardare quella che una volta era la sua pista con occhi colmi d’una malinconia devastante.
“Adesso bambini non sciare più” disse un giorno Ivo indicando le piste , cicatrici nel monte che a poco a poco i boschi si stavano riprendendo. Mi colpì quell’indicare i bambini come terze persone, come lui più non fosse parte di essi.
Ma i suoi genitori erano spariti, portati via dai paramilitari croati e Ivo, senza più una mamma e un papà, solo con un nonno vecchio che non poteva fargli da genitore, forse davvero non lo era più bambino. Forse lì gli unici bambini eravamo io e Denis coi nostri vizi che ci portavamo sulle spalle e a cui felicemente saremmo presto tornati. Ma di fronte ai drammi veri di Ivo anche questo pensiero sembrò una lussuosa e comoda retorica.
…guardate lontano….
“Quella è la mia casa” disse un giorno Ivo indicando un mucchio di assi e mattoni appena fuori il villaggio.
Subito scorgemmo su una parete un poster di Qui Quo e Qua. Riconobbi il manifesto pubblicitario del Trofeo Topolino di sci a cui io e Denis avevamo partecipato ai tempi delle elementari. Ci guardammo in faccia, sorpresi e sbigottiti. “Come diavolo è arrivato fino a qua?” mi chiese Denis. Io allargai le braccia. “Giuro, io non l’ho portato”.
“Aquile volano e portano loro cose qui” disse Ivo, e ancora indicò l’aquila alpina sul nostro berretto.
“E’ che nel mondo non c’è niente di veramente lontano” mormorò Denis e nel suo tono c’era una profondità ben diversa da quelle parole così banali.
….se avete sete …..
Appendemmo alle pareti della tenda quella carta scolorita e mi pareva così strano rivivere quei giorni della mia infanzia agiata di fronte alla povertà di Ivo, alla sua violenza subita, alla sua fame e alla sua capacità di sognare nonostante tutto.
In fondo quei giorni di Ivo non erano insoliti, erano probabilmente gli stessi dei nostri nonni poveri fra malghe e guerre sperdute, con il solo istinto di sopravvivere.
D’un tratto, mentre lo guardavo passare col dito l’aquila sul nostro berretto che tanto gli piaceva mi dissi che forse Ivo sarebbe stato anche più degno di loro.. ma anche quella era retorica, altra retorica….
Perché quelle generazioni che io lo volessi o no erano semplicemente parte del mio sentiero , come quel berretto. Ogni cammino in fondo ha solo una meta. Il resto, è inutile e comodo pietismo.
…la tazza alla mano….
Mancavano ormai due giorni al cambio con la Sassari.
Ivo stava guardando attento i preparativi del reparto che stava smantellando. Conosceva già quella trafila e si preparava ad una nuova partenza con la forza pacata che tanti altri addii più importanti avevano forgiato.
Ma come pesava in noi quel suo sguardo troppo profondo e drammatico, non da bambino ma da uomo.
“Lui ha questo posto per crescere” dissi a Denis. Lui mi fece di sì “Ma è che bisogna trovare qualcosa per fargli ricominciare la vita “ rispose. Poi si alzò e preso da una rabbia forsennata, sparì.
….che ci disseta….
Cominciavo a preoccuparmi per l’assenza di Denis. Giocavo con Ivo a tirare sassi contro un palo. Era un modo per fare passare il tempo pensando il meno possibile. “Venire altri alpini domani?” mi chiese d’improvviso Ivo con un tono incerto che nascondeva le mille preoccupazioni che gli affollavano la mente.
Io feci no. “Ma non avere paura. Anche a questi Italiani non piace sparare.” E gli raccontai del libro letto a scuola, le gesta del capitano Lussu della Sassari e le storie di guerra sull’Altipiano.
D’improvviso scorsi Denis. Veniva verso di noi impolverato e infangato, aveva le mani sanguinanti ma anche una gioia prepotente che gli disegnava il viso. Teneva nella mano due sci da bambino. “Lo sapevo che c’erano, ho scavato e li ho trovati. Guarda che miracolo, non sono neanche graffiati.”
…la neve ci sarà….
Ivo era di spalle. Non aveva visto Denis arrivare. Sentì la sua voce e si voltò.
L’impressione è un attimo ma ci sono impressioni che durano una vita. Io guardai Ivo. Non saprei riprodurre nella memoria quel viso, ma ancora sento l’emozione di quell’istante.
Ivo si alzò e fu come se un fiore avesse riimparato a sbocciare.
Corse incontro a Denis. E a muoverlo adesso era finalmente l’ingenuo entusiasmo di un bambino.
Come due cretini io e Denis piangevamo. Erano lacrime per Ivo, forse. O per la sua gioia. O per i suoi dolori.
O semplicemente era un pianto nostro, di due Italiani che adesso riuscivano a sentirsi uomini. E ringraziavano il cielo di averlo imparato affrontando i bisogni di una pace e non la cieca follia di una guerra.
A Ivo che ora sarà diventato tanto grande
Sono convinto che adesso è diventato grandissimo, come il ricordo che io ho di lui.
A Denis. Un alpino che non c’è più.
L’ha colpito un male che non è per giovani come noi. I giornalisti parlano di uranio impoverito. Forse hanno ragione, ma in fondo la loro indignazione mi lascia il sapore dell’inchiostro destinato a durare un giorno….
Neanche sanno cosa sia la memoria. E neanche un destino. E neanche un alpino.
Io sì, e l’unica cosa che mi consola è che anche Denis, prima di andarsene, lo sapeva.
E poi….
Denis….alpino della Julia, in alto il cuore sul ponte di Perati c’è il tricolore