Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Sesta edizione – 2005
Cecchetti Stefano
Il vinaio
A casa mia il vino lo portava il vinaio. Si chiamava Lepri, veniva da un qualche paese a sud di Firenze, forse dall’Impruneta, forse da Grassona, comunque da uno di quei posti che confinano con il Chianti, o lo sono già. Un uomo alto, grosso, una cicatrice lucida sulla guancia destra a formare una piccola salsiccia. Questo Lepri divenne il nostro vinaio in maniera casuale, senza che mio padre fosse andato in giro chiedere, a confrontare prezzi e qualità. Magari un conoscente, qualcuno che abitava vicino al magazzino in via dei serragli gliene avrà parlato, o forse fu Felice il pizzicagnolo, fratello della signora Soci, a fare da tramite. Il fatto è che una mattina nel piazzale del magazzino entrò un motocarro, di quelli a tre ruote, il telone nero recava dipinto su entrambi i lati un enorme fiasco di vino rosso e, in giallo, a caratteri altrettanto grandi, la scritta :”VINI VIRGILIO PIAZZINI”. Un uomo, alto, di grossa corporatura, pelato, sui cinquant’anni, scese e si diresse verso la ribalta. Indossava uno spolverino grigio-scuro troppo stretto per quella pancia, si rivolse verso gli uomini che si trovavano al di sopra di lui, le loro scarpe all’altezza della sua bocca : per caso qualcuno di loro cercava un vinaio? Il babbo non stette li a chiedergli né il prezzo né altro, il Lepri era un uomo che ispirava fiducia, nonostante la cicatrice, o forse proprio per quella, quindi tanto valeva farla breve e dargli l’indirizzo. “Viale Francesco Redi, 85, dalle parti di Piazza Puccini, ci si arriva anche da San Jacopino su per via Maragliano. Il palazzo è proprio all’angolo fra via Maragliano e il Viale Redi, prima del ponte di San Donatoo. Siamo al quinto piano” – il vinaio avrà storto la bocca – “Cecchetti , suoni a Cecchetti” “Cecchetti, me lo scrivo…il lapis, dov’è, sì,…cek – chet – ti, vi – a – le re – di, ottan – ta – cin – que, ecco! Vengo inizio settimana prossima, in mattinata, va bene?” “Venga quando vuole, a casa c’è sempre qualcuno!” “Stefano, hanno suonato vai ad aprire! Sarà il vinaio!” la mamma era di continuo occupata a fare qualcosa che non poteva interrompere, per nessun motivo. La vita: un Purgatorio, un posto, o meglio, una “valle di lacrime”, dove espiare colpe sconosciute, ma non per questo meno gravi, meno suscettibili di dolorose punizioni eterne. Pentirsi a prescindere, anche se non si sa bene di che cosa. Mortificare lo spirito e la carne, perché non si è altro che peccatori e peccatori della peggior risma, proprio perché e in quanto la nostra vanità ci fa credere che non lo siamo affatto, che siamo al contrario, dei modelli di virtù. E allora la scelta è obbligata: sempre di corsa a cucinare, rifare i letti, scendere per la spesa, spolverare, dare il cencio, passare la cera, lavare, stirare,….oppure pomeriggi interi a fare gli occhielli. “Il Signor Ildo, le vuole per domani le giacche. Sono quelle della prima comunione, mica scherzi! Bisogna fare presto, non c’è tempo da perdere”. Un ritardo, sia pure minimo sarebbe stato un peccato doppio, una colpa due volte grave. È peccato non rispettare la parola data, l’impegno preso, e non vuol dire nulla se si è malati, stanchi , oberati di lavoro: tante scuse. Avanti, un altro occhiello, un’altra martellata alla fustella, e adesso il filoforte, forza, e l’ago. “on ci si deve approfittare delle persone, dire una cosa e pensarne un’altra. Onesti bisogna essere. Nessuno dovrà avere nulla da ridire su di me, su di noi”. Altrimenti la punizione arriverà non solo nell’altra vita, (qualche centinaio d’anni in Purgatorio, quelli sono il minimo), ma qui, adesso, ora e subito, in questa vita. “Il Signor Ildo, lui, lo sai quante ne trova di occhiellaie più brave e meno care di me? Ci mancherebbe anche questa disgrazia, col conto del pizzicagnolo da pagare”. “Un’altra giacca, su, che queste, non sono giacche qualsiasi, dovranno essere indossate in un giorno speciale, un giorno santo. Ci sarà il vescovo, un sacco di preti! Se vengono a sapere che io, con la mia pigrizia, ho rovinato la festa a uno di quei ragazzi e alle loro famiglie, allora si che sono guai, roba da pentirmi di essere nata. Ma non basta, no, non basta, ah! Magari bastasse. Bisogna stare attenti, mai adagiarsi, mai credere che ci si possa sentire finalmente al riparo, al sicuro. Anche nelle scelte più banali, nelle più stupide, se sia il caso o no di comprarsi un paio di scarpe nuove), anche li si può nascondere l’insidia, anche li siamo in bilico, in costante, precario, equilibrio, sull’orlo dell’abisso, del baratro – ricordati! il bene di un anno se ne va in una bestemmia, una sola! – e allora, sempre, continuamente, ci dobbiamo chiedere dove sia l’errore, l’imperfezione, la colpevole svista, che ogni sforzo, per quanto duro, arduo,potrebbe rendere vano. Un’esistenza trascorsa nella cieca, fanatica, convinzione che qui, in questa terra, non solo non si possa, ma non si debba, ssere felici. E noi bambini a chiederci se mangiare due ghiaccioli in un giorno fosse un peccato veniale o mortale. “Sarà il vinaio” diceva, dicevo. Nessun “forse”, “potrebbe”, no, nessun dubbio. Sarà: indicativo futuro, a indicare, appunto, il certo, l’ineluttabile, il necessario, lì e ora. Fra tutte le carte possibili, quella era stata girata: la carta del vinaio.la mamma profetessa, la cucitrice chiaroveggente, l’oracolo miope, aveva sentenziato: sarà il vinaio, apri. Andavo nell’ingresso, quasi certamente di corsa, pigiavo il pulsante. Immaginavo di udire, nello stesso momento, il suono di sconfitta, di forzata cortesia, prodotto, grazie a quella mia semplice pressione, dalla serratura del portone grande cinque piani più sotto, al livello della strada (clack). Spalancavo la porta di casa, mi affacciavo sulla prima rampa delle scale appoggiato al corrimano, come da una finestra che dava su un paesaggio apparentemente sempre uguale, immutabile (il marmo bianchissimo delle lastre a rivestire l’altro bianco calcinato del muro, aveva venature dalle infinite tonalità di grigio: nuvole lente, portatrici di piogge leggere, quasi invisibili, che avrebbero, poi generato, su quegli stessi marmi, altre nuvole). Restavo in bilico, il busto in avanti, parallelo al pavimento, la gamba sinistra sollevata all’indietro quasi allo stesso livello del busto, e aspettavo di udire “il rumore del Lepri”. Una volta aperto il portone, il vinaio si trovava di fronte a una rampa di cinque scalini, una porta a vetri la divideva dal primo piano, era qui, da questo pianerottolo, che, chi poteva, prendeva l’ascensore. Ancora qualche minuto prima di chiedere chi fosse: dovevo dargli il tempo di salire la rampa e aprire la porta, per poi affacciarsi sulla tromba delle scale. Più il tempo passava, più le probabilità che si trattasse di lui aumentavano. L’ascensore non era stato ancora chiamato (ottimo segno!), trattenevo il respiro per udire meglio, ed eccolo alla fine, il suo rumore inconfondibile arrivare su fino a me, smorzato dalla distanza, ma pur sempre chiarissimo, riconoscibilissimo: uno scricchiolio di legni, un gemere di giunchi attorcigliati, l’ansimare ritmico dell’uomo, di lui, del Lepri. Bambino, ragazzino di poca fede, non lo vedi? La profezia si è avverata. “Chi èèèèèèèèèèèèèèèè?” gridavo, la E strascicata, lunga, che rimbombava, baldanzosa, giù per le scale vuote e silenziose. Non perché non fossi stato più che certo che si trattasse di lui, ma per ascoltare il suono della mia e della sua voce echeggianti giù e su per le scale.per affermare così, su di esse, una specie di diritto di proprietà derivante dalla loro faticosa frequentazione, io come minore di dodici anni e lui come fornitore. A entrambi era infatti esplicitamente vietato l’uso dell’ascensore. ”Vinaiooooooooo!” e infatti anche la sua O saliva lunga, decisa, complice, fino a me. A questo punto divoravo le scale che mi separavano da lui, e ogni volta mi meravigliavo di incontrarlo qualche gradino più su di quanto mi fossi aspettato. “Buongiorno!” Forse non mi rispondeva o forse si, non lo so, quello che so è che ogni volta restavo lì affascinato a osservare il movimento che le sue braccia imprimevano alla damigiana. La prima volta che venne, vidi la sua faccia sudata, rossa, l’espressione di chi non è né felice, né triste (le stesse che avrebbe poi avuto in seguito). Ansimava, i bottoni dello spolverino sembrava che avrebbero resistito a un altro respiro, la damigiana stava, docile, indifferente, di fronte a lui. Mentre la mamma pagava, strinsi un’impugnatura e tirai. Nulla. Tirai ancora, e poi ancora, con tutte le mie forze, senza che la damigiana si spostasse di un millimetro, eppure quell’uomo l’aveva portata fino lì e senza usare l’ascensore. Intanto la nonna aveva preparato i fiaschi, il nonno teneva in mano il budello di gomma e sostava vicino a una sedia di cucina che era stata spostata nell’ingresso. In tre, la mamma e i nonni, riuscivano a fatica a issare la damigiana sulla seggiola, dopodiché iniziavano le operazioni di infiascatura. Io vi partecipavo direttamente solo nella fase finale, quando si trattava di versare nei fiaschi un poco d’olio, legarci intorno la stoppa e tapparli poi con un cappuccio ottenuto da strisce di carta di giornale. Per lungo tempo restava in casa l’odore del vino ed era come se si fosse tutti un po’ ubriachi. La faceva ruotare. Prima da una parte e poi dall’altra. La damigiana, dico, la faceva ruotare . a ogni mezza rotazione saliva uno scalino, per un totale di centouno rotazioni. Anche quando arrivava sui pianerottoli la faceva ruotare, ma lì era più facile. Già da quando si trovava al terzo piano, ogni tanto si fermava a prendere fiato. Più che saliva, più le soste diventavano frequenti. Lo osservavo: sudava, la cicatrice si arrossava, la salsiccia diventava sempre più lucida . il Lepri non prendeva mai l’ascensore, non poteva, nemmeno quando, con la damigiana vuota, se ne andava. Un giorno il Colonnello suonò e disse alla nonna che voleva parlare con la mamma. Tassinari, di cognome faceva Tassinari, ma tutti lo chiamavano “Il Colonnello”, anzi, mia mamma , a essere precisi, lo chiamava “Il Signor Colonnello”. Abitava al terzo piano ed era l’amministratore del condominio. Aveva un modo di fare inquisitorio: non toccava a lui dimostrare la colpevolezza dell’accusato, ma, al contrario, era quest’ultimo a doversi scagionare dalle accuse rivoltegli.nel caso specifico gli imputati eravamo noi, sia pure indirettamente, e l’accusa, ovvero la colpa, consisteva in uno scalino scheggiato da un nostro inaffidabile fornitore. Non poteva essere altri che il vinaio il colpevole: il fondo in legno della damigiana, appoggiato dal Lepri troppo rudemente sullo spigolo del gradino in marmo, ne aveva provocato l’irrimediabile scheggiatura. Il vinaio negò ogni accusa, ma, ovviamente, non fu creduto: la sua parola contro quella del Colonnello, figuriamoci! Fu da allora che iniziammo a comprare il vino in fiaschi all’Esselunga di via Galliano.