Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Sesta edizione – 2005
1° Premio giuria popolare studentesca
Gottardi Giuseppe
L’opzione
Ciò che più lo disturbava era quell’andare e venire della memoria.
Non c’era ombra di dubbio, ne era più che sicuro, quelli che osservava avevano un nome preciso e non dovette sforzarsi più di tanto per riportarlo alla mente.
Tre psalliota campestris, in fasi diverse di maturazione.
Anche gli altri due nome : agaricus e pratella, si evidenziarono subito nei files assopiti. Le due associazioni vennero legate agli scopritori: Linnaeus e Quèlet. Infine, anche il loro nome volgare, prataiolo, si stampò nei suoi neurini.
Tutte quelle informazioni rimasero silenziose perché la sua dentiera, ultimamente, si spostava facilmente e una p con s, seguita da due elle, non era certo da sottovalutare.
Tuttavia, per quanto si sforzasse, non ricordava se avesse chiuso la porta dell’appartamento. E poi, aveva fatto colazione?
Scacciò subito quei due pensieri perché la salita si era fatta ripida e spinse avanti il bacino per superare la curva del sentiero. Era partito presto quella mattina e, lasciata la periferia del paese e superarto il torrente, si era inerpicato per le balze del Plaucesa. Una bella giornata da trascorrere nei boschi.
Faceva fresco e d’altronde i primi giorni di novembre in Val di Sole, al di là dell’indubbio fascino di quel nome, non potevano essere diversamente. Dal Gruppo del Brenta di fronte, sulle cui pendici a nord stava inoltrandosi, ed alle sue spalle, dai ghiacciai della Presena e del Cevedale, giungevano rare ma costanti folate di vento.
Come sempre, anche quell’anno di era attardato nelle sue vacanze estive, per superare la data di Ognissanti al fine di poter sostare il più a lungo possibile nel cimitero di Monclassico dove, per sua esplicita richiesta, aveva seppellito la cara moglie. Un loculo a Cremona era quasi impossibile da reperire ma, al contrario, una tomba di famiglia per il dottore in pensione, il Sindaco di quel paese l’aveva subito scovata.
Ne era sicuro. Per settantacinque anni lui e sua moglie sarebbero rimasti a ricordo. Se quel suo unico figlio, che lavorava a Roma, non avesse potuto far loro visita, c’era quella donazione alla Parrocchia che avrebbe garantito la S. Messa e fiori e controllo delle lapidi nei tempi stabiliti. C’era anche un contratto e non dubitava sul rispetto dello stesso.
Saliva dunque lentamente, spostando a tratti mucchietti di foglie e sollevando cespugli d’erica con il suo bastone di nocciolo che si era fatto fare dall’Enrico, un simpatico boscaiolo del paese. Due anni di stagionatura , due intarsi in cima come due piccoli cornetti e una spirale di corteccia a scendere.Troneggiava sul davanti lo stemma del Rifugio Mantova al Vioz, uno dei tanti che aveva raggiunto anni prima ma sicuramente il più elevato. Era orgoglioso del suo bastone che, strano a dirsi, non dimenticava mai di portare con sé.
Fu proprio quel bastone la sua rovina.
Stava infatti camminando da più di tre ore quando, distolto dalla visione inaspettata di una russsola cyanoxantha, mise un piede in fallo.
L’improvvisa perdita di equilibrio, con la simultanea consapevolezza del pericolo, lo costrinse ad una veloce rotazione del tronco con conseguente rumoroso cigolio vertebrale, al fine di vedere dove sarebbe andato a cadere. Spinse forte il bastone in una fessura tra due sassi e quello, stanco di sottostare a forzate imposizioni, cedette di schianto.
A quel punto il volo era inevitabile e lui,mollato quello stupido pezzo di legno, alzò le braccia a protezione della testa..un leggero pendio, con gli alberi abbastanza distanziati, dava inizio ad uno stoll, uno di quei sentieri naturali che vengono usati dai boscaioli per trascinare i tronchi a valle.
Rotolò dunque, cadendo pesantemente di schiena su di un letto di foglie e subito, con suo grande smarrimento, si ritrovò a scivolare lungo quella naturale pista da bob. Si rese immediatamente conto che la causa erano le foglie secche diligentemente appoggiate a nascondere quel fondo ghiacciato.
Con le gambe rannicchiate e sdraiato sulla schiene l’anziano medico, prima di poter prendere una qualsiasi decisione, acquistò velocità.
Lo stoll non era stato disegnato per quel tipo di attività e al primo salto, di quasi mezzo metro, il medico passò via come una freccia atterrando con la parte alta della schiena. Una fitta acuta gli tolse per un istante il respiro e subito uno di quei rami che giaceva ai lati, spezzato dalle nevi invernali, con il suo bordo tagliente lo graffiò in profondità sulla coscia destra. Un dolore acuto lo colse immediatamente e osservò sgomento il taglio sul pantalone e il sangue che subito lo macchiava.
La discesa sembrava interminabile e rivolse un piccolo pensiero a quella stramaledetta lunga giacca a vento che, acquistata proprio per proteggere le sue povere anche dal freddo, ora era lei la causa del suo veloce incedere.
D’un tratto gli alberi ai lati si fecero sempre più piccoli, radi e quindi lo spazio si aprì.
Di fronte a lui si apriva completamente quella parte della Valle di Sole che ben conosceva, ora non c’erano più foglie sopra quella lastra di ghiaccio ed il vuoto, sul davanti, si faceva sempre più vicino. A tratti, piccoli sassi appuntiti e ben incastrati in quella massa fredda, laceravano i suoi tessuti senza peraltro ridurre la sua velocità.
Non gli restava più molto tempo prima di quel grande salto del quale, benché frastornato, ora era consapevole.
Allungò e raddrizzò a fatica le sue gambe nella disperata ricerca di frenare quella folle corsa e l’incontro del sul calcagno destro con un ignaro sasso lo arrestò immediatamente.
Rimase quasi stordito come gli succedeva da bambino quando sull’altalena un adulto arrestava improvvisamente il suo movimento.
Sentendosi ruotare verso sinistra, dove la sua gamba era libera ed annaspava nella ricerca di qualche ulteriore appiglio, fece forza sul piede destro ignorando il dolore alla coscia e pur in equilibrio instabile, emise un lungo sospiro di sollievo nel sentirsi infine bloccato. Era dunque lì, con una gamba impuntata, sdraiato sulla schiena e con le braccia allargate nella disperata ricerca di aumentare la superficie di attrito.
Tutti i suoi movimenti erano ridotti al minimo per non perdere aderenza. Anche il respiro., prima affannoso lungo quella interminabile discesa, era ora lento e ritmico come il motore diesel al minimo, della sua vecchia Regata.
Riacquistata una seppur minima tranquillità, la sua deformazione professionale prese il sopravvento e si ritrovò a stilare una prima, nei limiti precisa, lista dei danni.
Una ferita alla coscia, che aveva sanguinato ma che ora sembrava avesse cessato. Una sicura contusione alla colonna, probabilmente alle vertebre toraciche, quelle più alte, quando aveva superato quel salto. Anche il bacino gli inviò dei messaggi ma erano di poco conto e decise di ignorarli. Nel complesso quella caduta rovinosa non aveva ridotto più di tanto la sua integrità fisica. Certo, se avesse potuto alzarsi per controllare meglio, ne sarebbe stato felice ma, in quel momento, ciò non era in discussione. Non se ne parlava proprio!
“Che fare?” si ritrovò a pensare mutuando il detto di Lenin.
“Chiamare subito qualcuno!” immediata la reazione, ma quasi inutile in mezzo a quella solitaria montagna. Era un giorno lavorativo, un mercoledì se ricordava bene. Giorno di mercato a Malè. Chi poteva essere così cretino da andare in montagna in novembre di mercoledì! “Nessuno”. Riflettè.
Eppure uno strozzato grido di “Aiuto!” gli sgorgò spontaneo e solo a stento trattenne la dentiera, anch’essa vogliosa di farsi una bella scivolata su quella lastra di ghiaccio.
Passarono pochi minuti che a lui sembrarono ore, nei quali fece ordine nei suoi pensieri, elencando le sue possibilità.
Quel cellulare tacss che gli aveva regalato il figlio. Mezzo chilo di incubi. “E’ per l’emergenza, papà” aveva detto “impara ad usarlo”. Aveva aggiunto. Giaceva nel cassetto del comodino. Sorrise ricordando l’ultima volta che lo aveva visto, due settimane prima.
“Se lo avessi qui, ora” pensò “ avrebbe sicuramente le batterie scariche”.
“Qualcuno mi troverà”. Riflettè in silenzio ma subito l’ovvio prese il sopravvento. “Mi troveranno si…ma sicuramente morto!” Chiuse tra se non facendosi illusioni. Erano solo le due del pomeriggio ed il sole stava già calando, su, sopra Folgarida. Sdraiato su quella bara di ghiaccio, lo intuiva anche lui, non aveva scampo. Il freddo si stava già facendo sentire lungo la gamba ed anche ai glutei, non coperti dalla giacca a vento, che, stolta, si era arrotolata lungo la schiena.
Sentiva il morso delle crioglobuline che precipitavano lentamente in microscopici cristalli tra le sue cellule. Il rallentamento del battito cardiaco ed anche il respiro lento e profondo.
Assiderato e morto crocefisso su di una lastra di ghiaccio.
Un piccolo sorriso affiorò tra le labbra che a stento trattenevano quella instabile dentiera.
Si meravigliò di quel subitaneo pensiero che lo colse: “Se me la cavo mi faccio fare un impianto! Mi farò mettere i denti fissi.”
Qualche brivido iniziò dalla sua spalla sinistra e tanti pensieri si affollarono nella sua stanca mente.
Ricordava ora il passato mentre accantonava l’ineluttabile presente.
Quell’esame di Stato, la Maturità Classica che tanto lo aveva fatto sudare. “Ancora adesso,” riflettè “quello stramaledetto esame mi perseguita.” E poi, i lunghi anni di studio a Medicina, da povero studente in canna. I soldi contati. Tanti pranzi in mensa ridotti all’osso per poter comprare le Nazionali senza.
Era più di dieci anni che non fumava ma ora avrebbe acceso volentieri una sigaretta. Si sbizzarrì nel lungo elenco che ben conosceva. Per quest’ultimo istante avrebbe scelto un’americana. Una Camel senza filtro, corta e di buon spessore. Ne sentiva il profumo e quasi tossì.
E il lavoro. Gli inizi difficoltosi. L’ospedale di giorno e di notte. L’abbandono di quel luogo che non procurava abbastanza denaro. La Condotta sull’Appennino tosco-emiliano.
La prima macchina dopo svariate motociclette. Quella Fiat 600 di seconda mano che aveva dovuto radiare dopo dieci anni benché andasse ancora bene. Non come quella stupida Regata che aveva ora, più legnosa di un enfisematoso.
E Carla, la sua adorata moglie, che aveva scelto di andarsene sul più bello, proprio quando quella pensione tanto agognata era a un tiro di schioppo.
Gli apparvero come in sogno i tanti pazienti che aveva visto nella sua lunga carriera. Visi assorti di uomini e donne che lui aveva accompagnato alla partenza.
Qualche errore, qualche scheletro nell’armadio, fece capolino e lo disturbò parecchio.
“Medici non si nasce, si diventa.” Aveva detto quel vecchio professore a Modena. “A spese dei pazienti, spesso.” Aveva aggiunto.
Non aveva mai fatto errori gravi, ne era sicuro, e mai aveva tradito il Codice ma forse, sì, lo doveva ammettere, qualche volta era stato un po’ superficiale. Si sa, la stanchezza; l’ambulatorio sempre pieno; le domande continue; quella ricerca ostinata di salute da parte dei pazienti; la presunzione di capire, di fare, di agire…comunque. Goethe apparve per un istante , riformulando quella frase che lui ben conosceva: “ I medici usano medicine che non conoscono in un corpo che conoscono ancora meno”
Era ancora vero, dopo i tanti anni trascorsi.
E poi, anche quel proverbio cinese si fece strada nei suoi pensieri: “L’esperienza è quella parte della conoscenza che ci fa fare errori nuovi.”
A Dio piacendo era giunto in fondo alla sua vita di medico e il conto totale, gli riusciva di ammetterlo, era in attivo.
Anche la sua anima chiese il suo spazio ricordando le grandi battaglie combattute. Credente? Si, ne era sicuro ma con troppe obiezioni. Tutte quelle cose, quegli avvenimenti nella storia della Chiesa che tanto lo disturbavano.
Ricordò le discussioni con don Pietro, quell’affabile sacerdoti che vedeva periodicamente come medico. La sua malattia era pesante. Lui non avrebbe avuto tutto il coraggio che quel prete mostrava.
Lo incontrava nella sua canonica perché i suoi parrocchiani quando vedevano il prete dal medico tendevano poi, quasi sempre, a grandi elucubrazioni.
Parlavano tra loro di tante cose, dopo aver sbrigato le incombenze mediche. Della fede, della vita, della vita dopo la morte. Fu quest’ultimo pensiero che lo svegliò improvvisamente, senza contare i brividi che lo sconquassavano. Era indubbiamente la fase finale, poi, quando fossero cessati, sarebbe iniziato l’assideramento totale.
Erano quasi le tre e mezza e i raggi di sole mostravano altri interessi. Avrebbero indorato i Pirenei e poi l’Atlantico. Ricordò Lisbona. Ah! Che splendida città.
Riflettè amaramente tra sé che non l’avrebbe più rivista.
Un altro pensiero improvviso si fece strada spazzando via i ricordi.
Era tutta colpa di quel calcagno.
Se non avesse avuto un calcagno a destra, sarebbe già volato dall’altra parte e “buonanotte al secchio”!
Ma, poteva lui dipendere solo da un calcagno? Non aveva forse il diritto di decidere della sua vita? Suvvia, diciamocelo chiaro; qui non si trattava di eutanasia! Mica voleva ammazzarsi quel giorno.
Quello che più lo interessava erano le varianti di fungo. La ricerca del fungo perduto. Di quell’unico esemplare sfuggito al Bresaola. Un fungo con il suo nome. Il suo nome nella storia della micologia italiana.
Vanità delle vanitàà!
“Era vero ma, scusate, che ci posso fare se ci tengo tanto. Sono anni che studio questi meravigliosi miceti ed ora è proprio per colpa loro che devo lasciare questa Terra che tanto amo!
E se lasciassi questo spigolo di roccia? Spostare il peso a sinistra, perdere aderenza, cogliere l’istante in cui il calcagno non trattiene più? E’ forse questo che debbo fare?”
“Basta domande.” Disse il medico tra sé e subito cambiando e rubando le parole al Manzoni disse a gran voce: “Quello che s’ha da fare…si faccia!”
Il calcagno perse aderenza e Antonio Colaiutti, the doctor, volò.
Lo trovarono il mattino seguente lungo la grande parete della Valle Persa.
Era incastrato in un bonsai naturale. Un arcigno e arzigogolato pinus silvestris che lo aveva accolto, con grande fastidio, tra i suoi rami. Il Soccorso Alpino ed i Vigili del Fuoco con i Carabinieri e l’elicottero, dovettero lavorare a lungo per recuperare il dottore che, ancora lucido, li aiutò con i suoi consigli a districarlo. Più tardi, giù nella vallata, al campo sportivo dove era atterrato l’elicottero, il medico del 118 chiese al paziente come si sentisse.
“Come una psalliota in mezzo a boleti in un sacchetto di nylon dopo una lunga passeggiata.” Rispose Antonio trattenendo a stento la dentiera.
Il medico dell’Emergenza, perplesso, tracciò una X nello spazio 12 della scala Glasgow: confusione mentale..