Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Ottava Edizione – 2009
Stefano Cecchetti
Piazza dell’olio
Oggi pomeriggio nessuna riunione, né in sede fra di noi, né in Via de’ Pepi al collettivo. Niente matrici da preparare o volantini da ciclostilare. Nessun lavoro politico fra gli studenti medi. Girello per il centro. Feltrinelli, Piazza San Marco, Lettere. Se continuo così va a finire che quest’anno la quarta la ripeto. Bene, vantiamocene. No, non me ne vanto per nulla, non è questo. Avrei dovuto avere il coraggio di dirglielo al babbo. Un bel NO. Non ci penso nemmeno a cambiare Liceo. Resto qui al Leonardo da Vinci. Il Classico, chissà perché, dice che non lo potevo fare, sicché tanto vale ti iscrivi allo Scientifico in Via Mariti. Così vicino, cinque minuti e ci sei. Certo che la prima lì è stato uno spasso. Scioperi, cortei, un’occupazione di due ore e la Cristina. Che mi chiama per andare a una festa in casa. Che mi sorride con quegli occhi verdi e che alla fine ci mettiamo insieme. E poi si era in trentotto in classe, mica uno. Okay inutile rinvangare, roba passata, cose da ragazzi. Qui adesso c’abbiamo la lotta classe, l’impegno politico serio. Un’avanguardia rivoluzionaria. Ecco che cosa sono, uno che contribuisce a creare un mondo nuovo. Più giusto, più bello, più… insomma meglio di quello di adesso, poco ma sicuro. Poi invece in seconda mi ritrovo al Castelnuovo. Dall’altra parte della città con due autobus da prendere. Quindici in una classe. Roba da matti: interrogazioni e compiti in classe a raffica. Eppure, in qualche modo, ho resistito. Con tutto lo svantaggio di preparazione, di provenienza sociale. Quando si dice la scuola dei padroni. Eccomi qui, in casa del nemico, nella tana del lupo. Secondo loro, uno come me al massimo il professionale. Tre anni, impari un mestiere e poi vai a lavorare che è meglio. Lo vedo, lo capisco: si sentono superiori per via dei blasoni, delle lauree dei loro padri e nonni. Okay, bene, allora lo sapete che c’è? C’è che io mi ritengo superiore a voi proprio per il motivo opposto. Se voi avete i quarti di nobiltà, i nonni e magari pure i bisnonni laureati, allora io c’ho il nonno proletario, ma proletario sul serio, classe ’96, socialista. Mai avuto – lui – la tessera del PNF. Non è stato fra quelli che il nove settembre hanno buttato via la camicia nera, per il semplice fatto che non ce l’aveva mai avuta, lui. Pala, piccone, zappa, vanga. La forza delle braccia, solo quella. Per non parlare della Grande Guerra. Non ti sei fatto mancare proprio nulla, nonno. Che cosa vuoi che ne sappiano, loro. Cominciare a lavorare a otto anni. Minatore in Prussia, cavatore di ghiaia sul Tevere, bracciante a giornata. Hai dovuto pagare sempre, nessuno sconto. Prezzo intero, prego. Per te avercela o non avercela la tessera del PNF faceva tutta la differenza del mondo: alla MUA sei rimasto un semplice avventizio per tutti quegli anni, salario minimo. E dovevi pure ringraziare. Tanto di cappello, nonno! Dio Santo, questa sì che si chiama coerenza. Ecco, tu per me, è come se ne avessi dieci di lauree, vali più tu di cento nonni di quelli di classe mia. Loro al massimo cantavano ambarabàcciccìccoccò, se andava bene. Sennò Giovinezza o Allarmi siam fascisti. Come a sentirli. Se fossi una persona seria, uno con le palle, dovrei prendere e andarmene. Non cercatemi. Sto bene. Vi farò avere mie notizie. Forse. Autostop. Documenti falsi. M’imbarco su un cargo battente bandiera liberiana e chi s’è visto, s’è visto. Altro che. Ma un’Avanguardia del Proletariato una cosa così non la fa. Troppo facile. Bisogna dare il proprio contributo. Studiare i testi sacri, Marx – quello giovane dei Grundrisse soprattutto –, Lenin, Mao, Rosa Luxemburg, questa gente qui, e lottare al fianco della classe operaia. Però qui di operai ce ne sono proprio pochi. Noi del Gruppo Gramsci, per dire, di operai ce n’è una. Su a Milano, in sede, ce ne saranno due. L’anno scorso, prima di Natale, andai a fare volantinaggio alla Fiat di Viale Guidoni. Quelli erano operai veri. Come il nonno ai suoi tempi. I più mi guardavano torvi e non volevano saperne di prendere i volantini, oppure li prendevano, sì, ma non li leggevano e li buttavano dopo due passi. Umiliato. Deluso. Non mi aspettavo abbracci e pacche sulle spalle, questo no, ma tutta quell’ostilità, quel rancore…mi sarebbe piaciuto discutere. Chiedetemi qualcosa, parlatemi. Niente, sembrava che fossi un nemico. Qualcosa non va, qualcosa mi sfugge. Ho paura perfino di dirlo a me stesso: piano, senza muovere un muscolo della faccia: e se ci sbagliassimo? Sì dico, questa storia del Piccì revisionista, riformista, traditore della causa, insomma, siamo proprio sicuri? E comunque noi e gli operai si dovrebbe essere uniti, non dico tutti tutti, ma almeno una buona percentuale. Forse nelle fabbriche su al Nord le cose vanno diversamente. Dice che questi qui della Fiat o quelli della Galileo sono operai sì, ma operai speciali. Aristocrazia Operaia. Per questo non abbiamo buoni rapporti. Dice. Vancouver, prendo a vado a Vancouver, laggiù all’estrema sinistra che quasi non c’entra sull’Atlante. Intanto qui piove, fa freddo per essere metà novembre. E di andarsene, non dico a Vancouver, ma almeno a Pistoia, non se ne parla. Sono troppi i legami, o forse, è vero, ammettiamolo, mi manca il coraggio. Però è anche vero che l’individualismo è un errore grave. I problemi si risolvono collettivamente, se ne discute con i compagni. Sarà, ma non mi fido. A passare da piccolo borghese ci vuole poco, anzi penso proprio che i capi abbiano già qualche sospetto. Per via del vestire soprattutto. Perché non ho l’eskimo e la barba me la rado quasi tutti i giorni. Certe cose meglio tenersele per sé. Profilo basso. Si è fatto buio a forza di camminare. Questo caffè non è malaccio, forte, caldo, allegro. Contrasta con il bar. Sciatto, infelice, stanco di essere bar. Come il barista, i tavolini e le sedie. Che tristezza, all’improvviso. Come quella faccia rimandata dallo specchio dietro il bancone. I miei occhi vedono altri occhi, un naso, una bocca… con molta fatica concludo che dovrei essere io. Non mi trovo per niente somigliante. Si è alzato un po’ di vento, se è tramontano fra un po’ smette di piovere. Dopo il caffè una sigaretta ci sta. Rallento il passo, la devo fumare tutta prima di arrivare in Piazza dell’Olio e di salire sul ventidue. Accidenti, ecco, lo sapevo. Appena partito. Ma tanto ne passano spesso, soprattutto a quest’ora che la gente va a cena. Muro scrostato, segni di pisciate di cani, commessa del negozio di fronte che ripiega qualcosa, palo della fermata. Capolinea. Ma perché questa stradina stretta e corta l’hanno chiamata piazza? Io l’avrei chiamata viuzza o vicolo. Vicolo dell’Olio. C’è una ragazza ferma davanti alla profumeria, sul marciapiede opposto. Una come tante. No, aspetta, fammi vedere meglio. No, non può essere lei. Sì che lo è. Capelli più corti, occhiali. Se è lei è un po’ dimagrita, ma è bella ancora di più. Mi accendo un’altra sigaretta e intanto continuo a fissarla. Battiti accelerati, il fiato si accorcia. Dileguata da più di un anno e all’improvviso me la ritrovo qui davanti in Piazza dell’Olio, così vicina in questa minuscola piazza benedetta. Lei, l ’unica con cui mi trovavo bene. Lei, la Laura, una come me. Il babbo operaio tornitore, la mamma sarta in casa. Ci siamo riconosciuti subito, io almeno. Si rideva delle stesse cose e poi lei lo capivo quando era arrabbiata o triste e quando, invece, era felice. Non come le altre sempre a fingere, a volerti far credere una cosa per l’altra. Quel suo modo di ridere: un leggero movimento del capo, uno scarto, un po’ all’indietro e di lato. E la sua pelle chiara, qualche lentiggine sulle gote. Alle volte arrossiva all’improvviso, alzava impercettibilmente lo sguardo e, da dietro le lenti, gli occhi azzurri guardavano lontano, molto lontano. Chissà, ci saremmo anche messi insieme se non fosse successa quella disgrazia a suo fratello. Prima lui viene condannato a tre anni di galera. Per via delle molotov a quella manifestazione antifascista a Prato. Dopo nove mesi è fuori. Poi arriva il giorno della rapina. Le cose non vanno per il verso giusto. L’autofinanziamento, l’esproprio proletario, finisce male, nel peggiore dei modi. Forse una spiata. Il fatto è che quando escono dalla banca ci sono i Carabinieri fuori ad aspettarli. Povero Andrea. Vidi le foto sul giornale. Morto. Come in quel film di Lizzani, steso sull’asfalto bagnato dalla pioggia di fine ottobre, le braccia allargate in una posa innaturale. Morto a ventiquattro, venticinque, anni. Sulle prime, appena saputa la notizia, nessuno si sbilancia. Andrea è un “cane sciolto” e gli altri, i complici, tutti “delinquenti comuni”. Poi, il giorno dei funerali, in una cabina telefonica di Viale Mazzini viene trovato un volantino/comunicato scritto a mano firmato da una sigla mai sentita né prima, né dopo. Dice che era stata un’esecuzione da parte dei CC servi dei padroni e che era morto un proletario rivoluzionario militante comunista. Al funerale non ho avuto il coraggio di andare, e lei, sparita. Sarà da qualche parente. L’università a Milano, Padova oppure a Trento. Ogni tanto prendevo la bici, d’estate, e andavo a fare un giro a San Gervasio. Su e giù per Via Cento Stelle, ma nessuna ragazza era lei. Poi è ricominciata la scuola, la pioggia, il freddo e non sono più andato. Al Gruppo non se ne parlava, tanto più che era considerata solo una simpatizzante. Del fratello poi, meno che mai. Estremista avventurista, in combutta con elementi del sottoproletariato notoriamente inaffidabili, oggettivamente alleato della borghesia. E fine dei discorsi. Non è lei. Sì che lo è. Pochi metri ci separano, non mi ha ancora visto, sta girata verso Via Vecchietti. Avrà un appuntamento. Ormai sarà più di un minuto che la fisso, non si è ancora girata, solo lievi spostamenti del capo, sempre nella stessa direzione, le braccia abbandonate sui fianchi, come la borsa a tracolla beige. Scarpe scure, tacco medio, tozzo, comode, fatte per camminare, un po’ da signora, non le si addicono per niente. Prima le portava sempre basse, tipo da ginnastica o ballerina. Ecco, adesso si gira, mi vede,le sorrido. Allo stesso tempo alzo il braccio destro, piano, la palma in avanti. Non ho ancora finito di alzare il braccio che arriva il ventidue, rumoroso, imponente, coi sui due piani. Mi sposto verso sinistra, ma l’autobus si ferma un paio di metri prima di quanto pensassi. Black-out, sono costretto a ritornare indietro e attraversargli davanti al muso. Ho ancora il sorriso sulle labbra, spero di vedere il suo non appena mi sarò tolto dalle palle questo cavolo di bus. E invece no. Sparita. Volatilizzata. No, non può essere. Mi sono sbagliato. Non era lei. Non c’era nessuno. Una visione. Queste sigarette ci mettono roba strana dentro. Sono arrivato all’angolo con Via Vecchietti. Devo decidere, destra o sinistra? Destra, verso i portici. Corri veloce, più veloce. Era lei, era lei, non la puoi perdere. Devi smettere di fumare hai già il fiatone, altro che roba strana, e non sei nemmeno arrivato al Gambrinus. Muoviti.
“Laura!”
“Ciao, Stefano …”
Così, secco,freddo, senza punto esclamativo, solo quelli di sospensione. Siamo fermi all’angolo davanti alla farmacia, tira vento. È tramontano, si infila sotto i portici, teso e tagliente. Ti sei fermata solo per un attimo, poi ti volti e riprendi a camminare per Via Strozzi a passo svelto. Scarpe, borsa, nuca. Nuca, borsa, scarpe. Vorrei sentire il tuo odore, ma è il vento a portarselo via.
“Come stai?” ti sfioro il braccio, quello senza borsa.
Di nuovo, ti fermi e per un istante mi guardi lontana, come se non mi vedessi. Apri la bocca, la richiudi senza parlare. Ti sorrido, ho ancora il fiatone. Ti guardo, come non potrei? Vorrei dirti tante cose. Che sono contento di rivederti, quello, lo vedi da te. Mi viene di dirti cose stupide, leggere. Vorrei vederti ridere. “Il Bessi, sai? Con tutti quei brufoli … quel cretino ha messo incinta la Lucia e si dovranno sposare. No! No! Aspè’ te lo ricordi il Ricci? Il prof. di matematica, sì, lui … finalmente gli è nato un bamb…” Che idiozie, scusa, sono cazzate, certo. Lasciati guardare, ti prego. Lo so di avere un’espressione idiota, ebete. Lo so, scusami. Sto cercando di riconoscerti. Sto aspettando che tu riconosca me. Una volta si andò su al Forte Belvedere, eravamo in parecchi, ma per me c’eri solo tu. Volevo dirtelo. Oppure, che quando arrivavo davanti a scuola la mattina, l’unica cosa che mi interessava era di vedere se c’eri, solo quello. Solo quello. Lo sapevi, dimmi, lo sapevi?
“ Un caffè? Si prende un caffè?” te l’ho detto, o l’ho solo pensato?
Diosanto, Laura, mi fai sentire un bambino. Bambino e scemo. Perché? Lo sai che mi dispiace di tuo fratello e tutto il resto. Lo sai, non c’è bisogno che te lo dica. Una cosa così orribile…al funerale, non ho avuto il coraggio. Mi perdoni? Ma tu che cosa fai adesso? Studi, lavori? Me lo dici, che fai? E dove abiti, ora? E…
Ma sei già all’incrocio con via Tornabuoni e io ho rinunciato a seguirti. Attraversi, non badi al semaforo. Il cappotto marrone, stretto ai fianchi, ti sta bene, ti slancia la figura. Ma come cammini in fretta, quasi di corsa. Mi dispiace, non volevo. Non credevo di farti un effetto così orribile, talmente orribile che vuoi solo scappare. Sto appoggiato al muro, guardo in terra. È bagnato, ma ha smesso di piovere. Il tramontano, è per via del tramontano, lo so. Il marciapiedi brilla qua e là sotto le luci delle vetrine e dei lampioni. Stanno tirando giù le saracinesche, tra un po’ i negozi chiuderanno.
Tornatene in Piazza dell’Olio, Stefano, è tardi.
P.S.: un paio di anni più tardi in un comunicato fatto pervenire alla stampa i NAP ( Nuclei Armati Proletari)
così scrivevano:
“Ieri in un agguato teso dalla polizia è stata uccisa a freddo la compagna Laura XXX. La volontà del potere di chiudere la partita con i compagni che si organizzano clandestinamente, ha armato la mano del killer di turno, che con la precisa coscienza di uccidere, ci ha privato di una compagna eccezionale. Laura XXX era una dei compagni che hanno dato vita al nucleo 29 ottobre. Ha fatto parte del gruppo che ha sequestrato sotto casa il magistrato XYXY e il contributo dato alla costruzione ed esecuzione di questa azione dimostrano il livello politico-militare che aveva raggiunto. Il prezzo che stiamo pagando è altissimo, ma è con la coscienza che il movimento si sta arricchendo in maniera definitiva del patrimonio di importantissime esperienze che questi compagni ci lasciano. Le giornate di aprile, le innumerevoli azioni armate, gli espropri per autofinanziamento, le azioni nelle carceri, dimostrano la crescita di una nuova generazione di combattenti e non bastano gli omicidi e gli arresti per distruggerla. La nostra esigenza di comunismo è indistruttibile. Lotta armata per il comunismo.
Stefano Cecchetti
Stefano Cecchetti è nato nel 1954 a Perugia, ma è a Firenze che è vissuto e si è formato. Attualmente vive a Vaiano in provincia di Prato, Toscana.
Da alcuni anni segue con una certa assiduità gli incontri settimanali e le altre attività del Laboratorio di Scrittura Creativa “Grafio” di Prato.