Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Ottava Edizione – 2009
Leonardo Gliatta
Phaser sul bersaglio
L’hai riconosciuto subito, tu.
Dalla scintilla che si schiude come un fiore di ghiaccio tra i denti, quando sorride.
Quei denti così grandi, scoperti tutti insieme a far riluccicare lo smalto, come i cattivi dei cartoni animati che vedevi alla tv da piccolo.
Era lui. Lo sentisti nella inflessione meridionale con cui parlava, a mezza voce, con Marcel.
Avevi nelle orecchie ancora quel sibilo che emetteva quando scagliava i colpi, il sibilo metallico di una scure sul corpo accartocciato di Robbo.
Lo avevi trovato, senza nemmeno cercarlo. Come faceva ad essere solo una coincidenza? Lui era lì, con quei denti affilati che chiedeva la roba a Marcel.
Cappello anonimo con la visiera calata sugli occhi, jeans scadenti senza marca, gesti controllati, di chi conosce il quartiere.
L’aria da sbirro, quella solo tu avresti saputo annusargliela. Gli occhi non riuscivi a vederglieli bene, quegli occhi che sotto la visiera si muovevano divertiti, ora a destra, ora a sinistra, con un terzo occhio puntato a guardia delle spalle, ché il popolo del Residence, si sa, non conosce l’onore delle armi.
Andrea Sprecacenere, così dicevano i giornali. Una manciata più dei vent’anni, agente dell’arma dei Carabinieri. Dalle foto pareva più giovane, un pischello col ferro in pugno.
Ora qui, davanti a te, sembrava invecchiato di dieci anni. Lo avevi rivisto anche un’altra volta, in aula insieme agli altri due delle forze dell’ordine. Ti ricordavi la faccia che aveva quando il giudice leggeva la sentenza: sospensione dall’arma e qualche mese ai domiciliari.
La bocca leggermente increspata, un lieve tremolio alle palpebre, gli unici segni di tensione in un corpo assuefatto alla giustizia terrena.
Se ne stava lì, gambe un po’ divaricate, mani in avanti, la destra ad afferrare la sinistra, in posizione da barriera, come De Rossi gli attimi prima del calcio di punizione. Te lo ricordi, vero?
In quell’aula afosa c’eravate proprio tutti, gli amici di Robbo, c’era il Duca, Massi, Rigoletto, quelli che tutte le domeniche vi radunavate scomposti con striscioni e bandiere e fischietti e cuori gonfi di speranza ai cancelli dell’Olimpico.
Quel pomeriggio di luglio, in quell’aula di tribunale si sfioravano i quarantadue gradi.
Eppure sentivi il tuo corpo, abbandonato, scivolare lungo una lastra di gelo.
C’erano anche quelli della tifoseria avversaria, un gruppetto sparuto di laziali che erano venuti a portare solidarietà a Robbo. Che camerati che si erano dimostrati, avevi pensato.
ONORE E RISPETTO PER IL CAMERATA ROBBO
Così recitava uno striscione dei laziali, la domenica successiva.
Robbo non era morto. Tecnicamente, per il giudice, che Robbo fosse in coma costituiva un’attenuante dovuta a complicazioni riportate in seguito delle percosse.
Un’attenuante rispetto alla morte.
Robbo non aveva perso la vita, altrimenti il carabiniere Andrea Sprecacenere, di anni venticinque, nato a Frattamaggiore, sarebbe stato accusato di omicidio colposo.
Invece la stampa parlò di un banale caso di rissa tra tifoserie avversarie, lo Sprecacenere e altri colleghi intervennero con i manganelli fuori allo stadio.
Strano, avevi pensato, quella domenica di fine aprile, fuori dall’Olimpico. Strano il suono che fa un manganello sulle ossa di un essere umano. Ti era subito venuto in mente il rumore del battipanni che usava tua nonna, tanti anni fa, per togliere la polvere dai tessuti. Un colpo dopo l’altro, ritmico, il suono compresso come se il tessuto aspirasse ogni percossa.
Tua nonna d’estate stendeva al sole tutti i tuoi peluche, pure il gatto Romeo, quello che pareva non riuscivi a dormire senza. Come digrignavi i denti quando vedevi tua nonna che si accaniva contro il povero Romeo, grigio e spelacchiato, te lo ricordi ancora il rumore sordo del battipanni sul tuo gatto di pezza? Pum pum pum. Un tamburo mangiasuoni.
Ti era venuto in mente proprio quel ricordo, ti era tornato alla memoria il tuo gatto Romeo, come lo vedevi soffrire appeso a testa in giù martoriato da tua nonna. Lo stesso identico suono del manganello sulla schiena dei tuoi compagni, sulle ginocchia che non riuscivano a portare i vostri pesi lontano da lì.
Quando ti sei voltato hai visto Robbo gettato in terra come Romeo, tutto grigio e spelacchiato.
Hai cominciato a digrignare i denti, la vista ti si è offuscata e nelle orecchie si sono smorzate le urla e i fischi e la concitazione intorno.
Hai visto tra le masse indistinte quella scintilla nella bocca dell’agente. Un lamento, una mano di Robbo a ripararsi dalla gragnola cieca. Questo è stato l’ultimo fotogramma che ti sei portato dentro, sigillato in qualche teca oscura della tua memoria.
Da quel tardo pomeriggio di aprile.
Robbo era il tuo capitano Kirk, sempre alla plancia di comando dell’Enterprise.
Se le scopava tutte, quelle della comitiva di Bravetta. Proprio come lui, il capitano James Tiberius Kirk, non ne lasciava neanche una ai compagni. Pure Martina, che poi è diventata la tua ragazza, quella che sono anni che non riesce a laurearsi, hai dovuto aspettare che Robbo la scaricasse.
Robbo te lo diceva, che Martina era una gatta morta. Ti aveva avvisato che non ci si fida mai delle gatte morte. Che dovevi fare come lui, scopartela e basta. Invece ti sei sentito solo, senza di lei, e non ti ha retto il cuore di rimanerne senza. Gli anni che passavano facevano solo aumentare il tuo disprezzo per lei.
All’Università le riempivano la testa di tutti quei paroloni, le raccontavano che il mondo è un bel posto dove vivere, basta solo volerlo, ma Martina che ne sa dei posti come questo, del Residence Roma, del lercio che si respira lì dentro. Una latrina a cielo aperto.
Dove pure i topi sembrano drogati.
Una volta ne hai visto uno che faceva avanti e indietro dalle ruote di una macchina, attraversava la strada sfidando le altre auto in corsa e tornava indietro. Per ore.
Martina che ne sa di come risuona un battipanni sulla schiena di un ragazzo di vent’anni. Che ne sa di come si accascia al suolo senza un lamento, il capitano James Tiberius Kirk.
Lei crede nella fratellanza tra i popoli, ma anche Martina accelera il passo quando vede i rumeni ubriachi davanti ai bar, e se mettesse mai piede in questo buco di culo del Residence si toglierebbe subito dalla testa tutte le idee di giustizia e progresso che ha imparato sui libri. Quelle volte che ti azzardi a chiederle cosa ci troverà mai di bello nei libroni che tiene sempre aperti sulla scrivania, Martina ti risponde a malapena con un “tanto che ne vuoi capire, tu”.
Allora ti chiudi in casa serate intere, mentre il resto della comitiva brucia le notti nel delirio dello speed o della ketamina, tiri fuori dallo scaffale la vecchia videocassetta della prima serie di Star Trek, e cominci il tuo viaggio alla ricerca di nuovi mondi e altre civiltà, fino ad arrivare dove nessun uomo è mai giunto prima.
“Lunga vita e prosperità!” così salutavi Robbo, con il saluto vulcaniano, quando lo incrociavi in comitiva.
Ridi ora, pensando a quanto fosse beffardo quel saluto.
A quanto stride il ricordo del suo sorriso aperto, sincero, con il velo di morte che porta incollato al volto, nella sua camera di ospedale.
Sei andato a trovarlo, più volte di quanto te lo permetteva il tuo tempo, ogni volta ripromettendoti di non tornare più, giurando che questa è l’ultima volta che.
Invece ci ritornavi, inventavi scuse a tutti, anche a Martina che non sapeva dov’eri, per stare accanto a lui pochi minuti.
Rimanevi sulla poltroncina di vimini a guardarlo, ci parlavi, gli raccontavi di come stava andando la A.S. Roma, dei nuovi acquisti, dei falli subiti, degli arbitri cornuti.
Gli raccontavi anche dei mondi nuovi che l’Enterprise stava attraversando, di quante donne si era portato a letto il capitano Kirk.
Quando cominciavi a parlare, il tempo rimaneva chiuso in quella stanza di ospedale, come la sabbia nella clessidra ferma.
Un giorno Robbo ti aveva confidato, come fosse un segreto inconfessabile: “Sai, ho capito una cosa: gli alieni sono camerati. Perché sono invasori!” E quanto avevate riso, a questa battuta che ripensandoci ora, non fa più neanche tanto ridere.
Sai che sta per uscire un altro film di Star Trek, lo sai che come suoneria al cellulare mi sono messo il raggio laser del phaser, e senti che figata di squillo mi fa, lo senti Robbo? Sentilo meglio, te lo avvicino all’orecchio, così senti meglio, gli ripetevi, nella penombra della stanza, certo che prima o poi avresti visto la sua mano scarnita afferrare un lembo del lenzuolo candido e stringere forte, ma così forte da conficcarsi le unghie delle dita nel palmo della mano, certo che prima o poi delle chiazze di colore avrebbero riempito le sue guance, così certo che se non fosse successo niente avresti preso tu a mani nude il suo cuore e avresti cominciato a pompare furiosamente, stringendo e rilasciando, stringendo e rilasciando a più non posso quel lombo di vita che dormiva nel suo petto.
Eccoti qui, sulla soglia della baraccopoli del Residence Roma, solo con i tuoi fantasmi.
Davanti a te c’è l’agente Andrea Sprecacenere in borghese, ha appena allungato pezzi da cinquanta euro a Marcel, uno dei caporioni.
Marcel in un solo gesto da prestigiatore porge il pacchetto inchellophanato e intasca i biglietti arancioni, si guarda intorno per accertarsi di non avere occhi indiscreti addosso e fa un cenno di commiato al cliente.
Marcel ha tatuaggi su tutto il corpo. Si dice che abbia tatuato addosso la discografia completa dei Depeche Mode.
Gira sempre armato, a quest’ora. Ha una Beretta 98 F infilata dietro i pantaloni, il calcio spunta minaccioso da sotto la t-shirt.
La Beretta 98 F è l’arma che hanno in dotazione i militari italiani. Marcel si sente un po’ questo: il giustiziere del Residence, non entra neanche un ago al Residence, se non è stato supervisionato da Marcel. Un po’ Caronte, un po’ Clint Eastwood nei film di Sergio Leone, Marcel si aggira per i corridoi della Casbah a pochi chilometri da San Pietro col suo passo marziale, non lo vedi mai correre da nessuna parte, Marcel.
Lui transita.
Tutti sanno dove trovarlo, perché Marcel sbuca da ogni angolo buio delle palazzine del Residence.
Lo conosci bene, Marcel. Ti fidi solo di lui, per la roba. Sai che è controllata, non ci sono mai intoppi.
Tu e Robbo eravate stati a fare spesa da Marcel, tagliata e tirata insieme vi facevate di CK, Coca e Ketamina, uno sballo totale.
Robbo che non aveva mai visto un’arma da fuoco così da vicino, quando pagaste e rimaneste a guardare Marcel che si allontanava, ti disse che quella Beretta che gli spuntava dai pantaloni assomigliava tanto al phaser e ripeteste insieme “Phaser sul bersaglio”, come dice sempre il capitano Kirk quando attacca i nemici.
Com’era bello Robbo, quando rideva di qualcosa, pensavi, mentre osservavi l’agente in borghese Andrea Sprecacenere che, passo dopo passo, col cappellino calato sugli occhi, ritornava alla moto.
Phaser sul bersaglio, fuoco!
Un bel raggio laser per mandare in frantumi il marocchino che vende le borse contraffatte, il senegalese che spaccia all’angolo della via, un phaser per mandare a quel paese tuo padre che vive al nord con la sua nuova famiglia, nuova proprio nuova di zecca, non manca nulla, persino la casetta col giardino e il cane, un phaser puntato contro tua madre che ti chiama solo per crearti ansia, un phaser per Martina, che non hai mai amato e che detesti con tutto te stesso e che sai che un giorno ti porterai all’altare.
Un phaser sul Residence Roma, quell’ammasso di rifiuti umani, che faccia piazza pulita di mignotte, spacciatori, tossici, papponi, froci, rapinatori, un esercito di reietti allevati dalla nascita alla disperazione.
Prendi il phaser infilato nel didietro dei pantaloni di Marcel e lo punti sul tuo obiettivo.
Il bersaglio cammina a trecento metri da te, ha estratto le chiavi della moto e ti da le spalle.
Pensi alle cose che avrete da raccontarvi, quando Robbo si risveglierà.
E fai fuoco.
Leonardo Gliatta
Ho 31 anni, pugliese di origine ma romano di adozione, lavoro in una emittente televisiva satellitare.
Sogno ogni notte di vivere in un posto diverso del mondo, disturbo che continua a provocarmi forti scompensi.
Sono stato autore radiofonico di un radiodramma andato in onda su Radio Lifegate per sei mesi nel 2008, “La stanza dello scirocco”, ambientato sulla misteriosa isola di Stromboli.
Assieme a due amici ho scritto un soggetto per una fiction i cui diritti sono stati comprati da Mediaset nel 2009.
Un mio racconto “Io non sono qui” è stato pubblicato in una antologia erotica e un altro breve scritto ha vinto il premio come migliore autore giovane in un concorso letterario istituito dai Comuni della Sabina.
Il cinema è la mia grande passione, stravedo per i film asiatici e nel 2004 ho pubblicato la mia tesi di laurea sul regista Wong Kar-wai con un editore di Roma.
Sto imparando il portoghese per andare un giorno a vivere a Lisbona, la città che mi ha stregato.