Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Ottava Edizione – 2009
Primo premio
Paola D’Agaro
Rapsodia per pianoforte a quattro mani
Le sopracciglia dell’accordatore si incresparono e il diapason vibrò. Clara osservava le sue mani muoversi lungo la tastiera, i tendini tesi sotto il sottile velo di pelle. Era come se nel profondo di quel la si celasse la chiave segreta del mondo.
Una furibonda successione di diesis la riscosse.
– Un caffè?
– Non si preoccupi, grazie.
Si era alzato e aveva scoperchiato il pianoforte. Curvo sulla cassa, ascoltava. Lo sguardo teso, raccolto. Il braccio sinistro a sfiorare la tastiera, il polsino della camicia arrotolato sul polso d’avorio.
L’indice batteva ossessivo su un tasto. Un suono cupo, liquido, scuro come l’urlo di un uccello notturno, profondo come il più profondo dei fondali marini, sferzava l’aria. La mano destra armeggiava fra le corde, una pinza sottile tra le dita affusolate. Col dorso si liberò la fronte dai capelli che ricaddero lisci sull’orecchio minuto. All’improvviso i martelletti cominciarono a muoversi tutti assieme in scale ascendenti e discendenti. Lei lasciò che la guidassero in territori inesplorati.
– Le piace il suo lavoro?
La guardò a labbra socchiuse. Aveva occhi di zingaro.
– Non sarei stato un bravo musicista. Né un bravo calciatore del resto – e sorridendo sollevò di poco la gamba dei pantaloni. Con un gesto sicuro fece vibrare il diapason e lo appoggiò là dove avrebbe dovuto esserci la caviglia. La vibrazione divenne suono.
– Però, vede, anche la mia in qualche modo è un’arte. Certo, oggi esistono strumenti elettronici in grado di fare molto meglio dal punto di vista tecnico. Ma non c’è perfezione che eguagli l’imperfezione di un orecchio umano che ricerca l’armonia perfetta dei suoni.
Subito dopo, dolce, struggente, disperato, un notturno di Chopin inondò la stanza.
Fu sua figlia a svegliarla, la mattina dopo, come tutte le mattine. Non aveva mai pensato che aver superato la soglia della terza età dovesse significare rubare ore alla notte, rigirarsi nel letto tra pensieri cupi di morte, accompagnare l’alba sbrodolandosi di pappette di latte e biscotti nella penombra del cucinino attenuata appena da una lampadina da trenta candele, tra il gatto che gnaula e il canarino che dispone la gola per il concerto mattutino. Non aveva mai voluto saperne di gatti e di canarini, proprio no. Niente più orari capestro, scadenze inderogabili, impegni da rispettare, esistenze da accudire, pranzi da preparare, richieste da evadere: questo il lungo elenco delle cose che si era ripromessa di non fare dal momento in cui aveva lasciato, dopo quarant’anni di onorato servizio, il suo posto di docente al Conservatorio di Padova. Fare quello che non ho potuto fare finora, si era detta, perché il tempo che resta minaccia di essere molto più avaro di quello che se n’è andato.
– Ciaaau! Sei sveglia?
– Certo che sono sveglia! Per chi mi hai preso? Sono le undici. E poi ti sto rispondendo, no? Quindi, sono sveglia. Tutto bene in ufficio?
– Naa! Soliti casini. Te l’ho detto: mi vogliono fare le scarpe. E poi c’è Enzo che ultimamente si comporta in maniera strana. Non è più l’uomo allegro e gentile di un tempo. È insofferente con i figli, irascibile, nervoso, non accetta nessun tipo di critica. Ieri se n’è uscito sbattendo la porta e imprecando come un carrettiere solo perché l’avevo rimproverato, non mi ricordo nemmeno per cosa. Mi sa che ha un’amante. Ne sono sempre più convinta.
– Ma va’, non essere sciocca: se avesse un’amante si comporterebbe nel modo opposto. Sarebbe allegro, e molto affettuoso. Per via dei sensi di colpa, s’intende.
– Ma…allora devo pensare che l’ha avuta e che si sono lasciati? Oddio!
Non che non amasse la figlia – e come avrebbe potuto non adorarla? Così amabile, così disponibile, così fragile – ma la infastidiva quel suo essere sempre uguale a se stessa, sempre prevedibile come lo scodinzolare di un cane a passeggio col padrone. Era come se la vedesse tutte le mattine allacciarsi la cintura, ingranare la prima e procedere diritta e senza scarti tra le buche dell’esistenza, lenta e legnosa, incolpevole e assennata.
Con l’altro figlio, invece, era diverso. Laddove la sorella cercava di agganciarsi alla norma per consegnarsi fiduciosa ad essa, Luca sfuggiva a qualsiasi tentativo di condurlo entro perimetri prestabiliti. La madre ne aveva seguito i viluppi della personalità come il mandriano asseconda le sgroppate del puledro più bizzoso convinto che prima o poi riuscirà a farne il miglior stallone della mandria. E invece qualcosa in quel meccanismo perfetto che consentiva a suo figlio di regolare il mondo a suo uso e consumo secondo una lucida, disincanta, sublime, eccentrica, geniale interpretazione dello stesso si era guastato. Ciò che negli anni le aveva procurato il maggiore dolore era non essersene accorta subito, quando forse era ancora in tempo per fare qualcosa.
– È probabile. Non ti resta che consolarlo: un paio di coccole e torna quello di prima.
– Cavoli, mamma! Ma ti pare il caso di scherzare? Non capisco perché non devi mai prendere niente sul serio. Vieni a cena da noi stasera?
– Negativo. È un pensiero gentile, ma sai che il giovedì sera apro la casa agli amici. Sarebbe poco bello che me ne venissi via.
– E che cucini?
– Io? Niente. Sai benissimo che in cucina faccio pena. Elda dice che si porta un tipo che sa fare una deliziosa carbonara. Uhh, a proposito! Adesso ti lascio che devo andare a comprare gli ingredienti. Ciao piccola, non te la prendere. Gli uomini sono come… e che ne so come sono. Ecco: come le mestruazioni, scontati e quasi sempre dolorosi, ma quando non vengono…
– Ok, ti telefono più tardi, non ti stancare, riposa, ciao.
– Tesoro, riposare è l’ultima cosa di cui i vecchi hanno bisogno. E da quale enorme fatica dovrebbero svincolarsi? Tempo qualche anno e potremo dormire senza sosta, del tutto indisturbati. Finché gli ospizi continueranno a chiamarsi “Casa di riposo” non c’è nessuna speranza che si conquistino una sia pur minima attrattiva tra gli aspiranti ospiti, non trovi? Ciao bella!
A Luca, suo figlio, non sarebbe mai uscita una stupidaggine simile, e neppure a suo marito, al tempo in cui si amavano ancora e Luca li faceva preoccupare con le sue intemperanze e i suoi eccessi prima, i suoi silenzi e le sue fughe poi. Infine tutto: famiglia, progetti, ricordi, dignità, intemperanze ed eccessi erano stati inghiottiti dal buco nero della clandestinità, dalle telefonate concitate, dalle foto segnaletiche alla televisione, dal carcere, dalla fuga, dall’ultimo devastante conflitto a fuoco in cui Luca era rimasto a terra con il torace trapassato dai colpi della mitraglietta d’ordinanza e l’indice contratto sul calcio della P38.
Aveva provato, da sola, ad affrontare lo squasso di quel lutto. Mentre suo marito scivolava attonito tra le spire di un dolore insopportabile, un dolore che non lascia scampo, lei cercava un varco tra le maglie. Quando tutti erano usciti, si sedeva sul divano e, telecomando in mano, faceva passare e ripassare mille volte sullo schermo la scena di quel corpo rannicchiato sull’asfalto, ripreso prima che una mano compassionevole lo coprisse con un lenzuolo. Era convinta che ci sarebbe stato un momento a partire dal quale quel cadavere non avrebbe rappresentato per lei altro che uno dei tanti cadaveri su cui impattano milioni di italiani mentre succhiano soddisfatti gli spaghetti davanti al telegiornale. E sarebbe riuscita a vincere la paura di non farcela.
Difficile dire se fu veramente così. A distoglierla dalla sua sofferenza fu piuttosto l’acuirsi di quella del marito il cui unico analgesico era rappresentato dall’alcol. Furono anni duri, fatti di ricoveri e dimissioni impotenti, buoni propositi e ricadute, implorazioni d’aiuto e rifiuti ringhiosi.
Lei sopravvisse – gli sopravvisse – con la ferma convinzione che alla resa del marito fosse in qualche modo legata la sua vittoria sul male di vivere. Era come se, cedendo, l’avesse obbligata a ritornare alle proprie responsabilità, le avesse regalato il pretesto per andare avanti.
Arrivarono alla spicciolata. Chi portando una bottiglia, chi il gelato. Qualcuno azzardò una terna di rose rosse legate con un nastrino dorato. Clara rideva, si destreggiava tra la cucina e il soggiorno.
– Apriiiteeee! – gridava ad intervalli regolari.
Fu mentre si avventurava con il vassoio colmo di tartine verso la tavola straripante di cose che lo vide.
– Clara, questo è Claudio, te ne ho parlato, ti ricordi? Fa un’ottima carbonara. È pronto a mettersi senza indugio ai fornelli, se tu sei d’accordo.
– Ci conosciamo, si ricorda? – esclamò lei felice porgendogli la mano.
– Certo, il pianoforte, quest’inverno. Ricordo perfettamente.
– Ok, vada per la carbonara allora. – e, posato il vassoio, si infilò in cucina dove lui, docile, claudicando appena sul piede destro, la seguì.
Alle due di notte stavano ancora passandosi i piatti da sciacquare davanti al lavello.
– Quando lavoravo non mi sarei mai potuta permettere una serata così: troppa fatica, troppa confusione. Avevo attacchi di nevrastenia ogni volta che trovavo un oggetto fuori posto, ogni volta che qualcuno o qualcosa non funzionava alla perfezione come io mi aspettavo. Ora è diverso, per fortuna. Da quando ho cominciato a combattere con l’artrosi cervicale, le vene varicose e la cataratta ho lasciato perdere battaglie meno importanti.
Si sfilarono grembiule e guanti e si guardarono soddisfatti.
– Bene, sembra che abbiamo davvero finito. Sei stato gentilissimo a rimanere. È sempre così con le amiche: chiacchierano, bevono e poi: “Clara ho un po’ di mal di testa, ti dispiace se vado a casa? Magari domani vengo e ti do una mano a pulire”.
Poi come seguendo un impulso, con una determinazione appena venata d’imbarazzo:
– Ti va di suonare qualcosa? Il vantaggio di avere una casa così isolata è che puoi suonare anche in piena notte. Cosa che mi capita abbastanza spesso. Di notte mi piace suonare, leggere, scrivere. Riesco a concentrarmi meglio. In fondo sono sempre stata un animale notturno, che volentieri dormirebbe di giorno. E lo faccio, se posso.
Il soggiorno era deserto, il chiasso e i rumori di qualche ora prima avevano lasciato il posto ad un silenzio innaturale, quasi sfrontato. Clara si sedette al pianoforte stringendosi nello sgabello per fare posto anche a lui.
– Siedi.
– Lo sai che sono un po’ imbarazzato?
– E perché? – lo guardò seria.
– Tanti anni fa venivo ai tuoi concerti. Tu non puoi ricordarti di me. Quando ho cominciato ero un ragazzotto timido timido, pieno di brufoli e di complessi, che volentieri avrebbe voluto sprofondare di fronte a tanta bravura. Se mi avessero detto che un giorno mi sarei ritrovato a suonare con te non ci avrei creduto. Perché hai smesso?
– Beh… sai, alle volte capita ….è la vita che…
– Sì, ho capito. Ho letto qualcosa a suo tempo, – la interruppe serio, poi, di slancio: – del resto, te l’ho detto: io avrei voluto fare il calciatore. Bene, cominciamo?
– Come è stato che…?
– Un cancro. Roba difficile da credere. Avevo tredici anni e un’ambizione smisurata, oltre all’assoluta convinzione di essere immortale e, come buona parte degli immortali, onnipotente. Dopo l’amputazione ho dovuto ricredermi e puntare a salvare la pelle e ad essere come tutti gli altri.
– Come accordatore resti il migliore.
– Non si può dire altrettanto come marito. Sono vent’anni che se n’è andata sbattendo la porta e ancora non vuol sentire nemmeno nominare il mio nome.
– Beh, in questo mi pare tu possa dire di aver raggiunto la tanto ambita normalità.
– Hai ragione.
– Sempre. Con cosa vuoi cominciare?
Propose la Rapsodia in blu e Clara ebbe l’impressione di essere stata smascherata. Le loro dita picchiavano sui tasti, correvano, si sfioravano e dai crescendo e dai fraseggi di quel caleidoscopio musicale d’America, come da una cornucopia, sembrava riversarsi tutta la sua vita: molto moderato, moderato assai, poco agitato, tempo giusto, meno mosso, andantino moderato, fino al ritmo agitato e misterioso del sincopato che anticipa il grandioso finale.
Arrivò l’alba, inconsapevole ed indolente, e con essa anche il momento di darsi la mano e di dirsi arrivederci e grazie.
Quando lui, qualche minuto dopo, suonò di nuovo alla porta e le propose di andare a vedere il mare, Clara non seppe cosa obiettargli: gli anziani, si sa, non hanno mai sonno. Non può spaventarli una notte in bianco.
Fu Gershwin a svegliarla la mattina dopo, e tutte le mattine degli anni a venire, fino a che a Dio, o a chi per lui, piacque lasciarla su questa terra.
Nel dormiveglia lo sentiva scendere piano dal letto, trafficare alcuni minuti con la sua gamba ferita e scivolare fino al pianoforte appoggiandosi alle pareti, i lucidi capelli bianchi sulle spalle magre. Poi le note della rapsodia si spandevano nell’aria ancora densa di sonno della camera da letto.
Clara morì una mattina di dicembre che a lei parve particolarmente adatta per via della nebbia che le rubava i colori del mondo. Le sembrava che tutto sfumasse assieme a lei, come nel finale in dissolvenza di un colossal, in cui i protagonisti si baciano incantati e felici. E per un momento ebbe nitida la sensazione di sentirlo sulle proprie labbra quel bacio: Clark Gable e Vivien Leigh che si ritrovano dopo tanti e tanti anni, incanutiti ma spavaldi e impudichi come due ragazzini, dentro una specie di sogno che non è un sogno.
Lui le sopravvisse di qualche mese. Dormì, si alzò, passeggiò, mangiò, incontrò gli amici, ma non suonò più. Poi, una notte prese quelle che ormai erano diventate le abituali pillole per combattere l’insonnia, si distese, chiuse gli occhi e si addormentò. Quando la domestica che veniva ogni mattina a preparargli la colazione lo sentì rantolare e aprì la porta della camera, era ormai troppo tardi.
Forse erano troppe, insinuò qualcuno il giorno del funerale… Pare fosse l’intero tubetto, sussurrò qualcun altro all’orecchio del vicino…. Il miglior accordatore del Triveneto, dissero quelli che lo conoscevano bene…. E ha saputo rendere felice Clara: è come se avesse accordato anche lei, sospirarono le amiche… Se lo meritava davvero, aggiunsero i più… Erano come e meglio di due giovanotti, fu l’unanime coro con cui lo accompagnarono in cimitero, le mani dietro la schiena e gli occhi bassi sulle scarpe lucide sotto le quali scricchiolava la ghiaia del vialetto. Poi, amici e parenti si salutarono e tornarono alla proprie famiglie.
Paola d’Agaro
Insegna materie letterarie in una scuola superiore di Pordenone, città in cui vive. Coltiva da sempre un interesse per i temi della politica, della cultura e della storia in particolare, interesse che l’ha portata, per alcuni anni, a gestire le attività del locale Istituto Gramsci. Da qualche tempo scrive racconti e li fa “circolare” attraverso premi e concorsi ottenendo buoni riconoscimenti insieme all’opportunità di essere letta da giurati di prestigio e di essere accolta in luoghi d’Italia dall’inaspettato fascino e dalla robusta ospitalità. Pressoché tutti i racconti che ha scritto hanno trovato spazio nelle antologie dei premi.