Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Ottava Edizione – 2009
Terzo premio
Vincenzo Maria Pasqua
Prenderei volentieri un’altra tazza di tè
Lei mi dice “vai a fare la spesa, ch’è quasi ora di pranzo”. E andrebbe pure bene, se non fosse all’incirca l’una di notte.
Non mi sconvolge. Non è la prima volta. Anzi, questa è solo una delle tante stranezze di Evelina, la mia cara madre. E neppure la più strana delle stranezze.
Vivo solo con lei, da sempre.
Lei mi dice “apri la finestra”, e poi “chiudi la finestra”. E andrebbe pure bene, se non mi ripetesse questa cosa a distanza di pochi minuti, o magari secondi, e con frequenza di decine di volte in un giorno. Io apro e chiudo, poi perdo la pazienza e me ne vado di là, lasciandola a strillare indignata. Lei non sopporta la nebbia, come non sopporta l’afa, il vento, il troppo rumore, il troppo silenzio, il troppo caldo, il troppo freddo, ma quand’è troppo è troppo, anche per me. Poi naturalmente mi pento e torno da lei. La trovo appisolata. Finge, per vendicarsi e farmi paura. È capace di restare immobile per ore, giorni, persino, finché io crollo e le chiedo perdono. Allora lei mi sorride e mi dice di aprire la finestra, e poi di chiuderla, e poi di aprirla, e poi di chiuderla, e poi di aprirla …
Clara oggi è arrivata con qualche minuto di anticipo. Si è messa al lavoro in silenzio. Ha bisogno di un po’ di tempo per carburare, ma quando inizia a parlare non si ferma più. È un suo metodo, secondo me, per impedire a mia madre di prendere lei l’iniziativa.
Mia madre non la sopporta tanto, ma in fondo si assomigliano. Io non ho avuto il piacere di assistere molto spesso alle loro conversazioni, perché quando Clara arriva io mi chiudo in camera mia. Però talvolta è capitato che loro urlino per sovrastare, che so, il frastuono dell’aspirapolvere o della lavatrice, e allora dalla mia tana ho percepito dialoghi fitti, voci che si alzano e si abbassano come onde oceaniche, si accavallano, si allungano e si accorciano, intervallate da rare pause e accompagnate da rumori vari, acciottolio di stoviglie, fracasso di mobili spostati, cigolio di imposte, apertura e chiusura di finestra …
Il giorno più duro è la domenica.
Clara non viene, ma in compenso c’è da seguire la messa in televisione. Mia madre è una donna religiosa. Un settore di circa un quarto della superficie di ogni stanza della nostra casa, compresi ingresso e bagno, per complessivi metri quadrati settantadue su duecentottanta abitabili, come pure un quinto della superficie delle pareti, per complessivi metri quadrati centoottovirgolasette, per una cubatura totale di metri cubi centosessantotto su seicentosettantadue, sono occupati da statue, statuette, icone, crocifissi, fonti battesimali, quadri, quadretti, e altre immagini votive di svariate forme e dimensioni.
Il che vuol dire che la religione mi sottrae circa un quarto della mia aria domestica respirabile.
Non discuto che seguire la messa in televisione sia un’occupazione lodevole, ma nel nostro caso risulta anche alquanto difficoltosa.
Il celebrante è lì, e noi siamo qui, ma tutto questo sembra non interessare molto a mia madre. Lei vorrebbe, ad esempio, scambiare il segno della pace con il prete, con i diaconi e con gli eventuali ministri del culto, e vorrebbe che lo facessi anch’io. Così pure mia madre pretende di ricevere la comunione, con tanto di ostia e tutto il resto. Dopo parecchie insistenze io mi rompo e tronco lì la conversazione. Ovvio che ne risenta la sacralità della liturgia.
Oggi è passato il signor Leo, con il suo campionario di prosciutti e formaggi.
“Offri una tazza di tè al signor Leo”, mi dice Evelina. Il signor Leo si schermisce. È un brav’uomo, all’antica, rubizzo e sbrigativo. Ritengo non abbia mai bevuto tè in vita sua, e comunque noi in casa non ne teniamo e non ne abbiamo mai tenuto. Ricordo che una volta qualcuno me ne regalò una confezione, una scatola di colore marrone con una palma rinsecchita sopra e un panorama di un deserto e di un tramonto dai colori improbabili. Rimase nella dispensa per anni, finché Clara, durante una tornata di pulizie straordinarie, non ebbe l’infelice idea di darci un’occhiata e vi scoprì una busta marcita come l’erba nerastra che vi era contenuta, il tutto emanante odore di topo morto.
Nonostante ciò, mia madre Evelina vorrebbe offrire il suo tè al signor Leo.
“Si accomodi, prenda una sedia, signor Leo”, dico io, “gradirebbe una tazza di tè?”.
Il signor Leo è un uomo rude, che non asseconda tanto, si schermisce, lascia sbrigativamente i suoi prosciutti sul tavolo della cucina e va via.
Il nostro appartamento è abbastanza confortevole. Situato al terzo (e ultimo) piano di una palazzina di cento anni fa, ha il pregio di affacciarsi sui tetti rossi della città, per lo meno di quelli che stanno più in basso, e comunque consente di sbirciare in casa di almeno tre inquilini del palazzo di fronte, nelle loro abitudini, nei loro gusti televisivi e alimentari. Non c’è ascensore, in questa domus aurea, e quindi mia madre ed io non usciamo molto facilmente, seppure lo volessimo, anzi non usciamo mai.
Non abbiamo sempre vissuto qui. Fino a qualche anno fa, perdonatemi se non ricordo bene l’epoca, occupavamo un piano terra in periferia. Ammetto che né il quartiere né l’alloggio brillavano per eleganza e distinzione. Era facile, la mattina, trovare un ubriaco ronfante a ridosso dello stipite della porta. La strada puzzava di urina, ma nel complesso la gente era abbastanza gentile, il che, tutto considerato, compensava la generale mancanza di cultura. E sì, perché se c’è una cosa cui abbiamo sempre tenuto molto è proprio un certo coltivar noi stessi. Senza snobismo, intendiamoci. Comunque, lì si poteva almeno fare un giretto senza difficoltà, la strada iniziava all’altezza della sala giochi di quel mascalzone del Tiberio e finiva dentro l’ingresso di casa nostra. Bastava avviarsi.
Qui stiamo al centro. Non che ci sia frastuono di auto o di folla, questo no. Anche nelle ore di punta non ci sono grandi problemi, dal momento che la nostra via è alquanto ritirata, a patto di restarsene in casa e non imboccare uno dei viali principali, sempre ammesso che noi si decidesse di scendere dabbasso e farsi due passi, o due ruotate, se preferite.
L’appartamento è stato adattato alle nostre esigenze, ruote comprese. Evelina ha speso una parte dei soldi lasciatile dal marito per allargare porte e corridoi, abbassare vani finestre e interruttori, acquistare mobili sbilenchi, allungare fili del telefono, e tutto il resto, insomma per far sì che anche la casa sia handicappata almeno quanto noi. C’è anche una veranda spaziosa, dove mamma si ostina a coltivare una selva di piante orribili, altra presenza asfissiante nella mia vita. Non che le piante non mi piacciano, intendiamoci. Ma se quella che potrebbe essere una stanza abitabile diventa una specie di serra, un miscuglio indefinibile di svariati odori e colori e forme, e dove nell’aria aleggia un vago e persistente tanfo di fertilizzanti chimici e altre diavolerie, atte a garantire la miglior vita dei vegetali, e se poi mi capita di passare davanti ad uno specchio, allora il mio senso della giustizia si ribella. Poi ci sono i fiori secchi e quelli artificiali, i quali però in genere mi stanno simpatici. Nella loro inerte falsità avverto la patetica mitezza di chi, come me, è rassegnato alla compassione dei forti. Oltretutto esse, le piante finte intendo, proprio come me, non necessitano di cure, avendo raggiunto, con la vita apparente, la quiete dell’assenza.
Le ore dei pasti celebrano la sacralità del rito. Clara viene fuori dall’immensa cucina recando con ogni solennità enormi vassoi, sui quali sono stati disposti con cura superflua pietanze di discutibile originalità. Evelina ci tiene, e a lungo andare ha contagiato anche me. Mi sento un baronetto, quando, alcuni minuti prima di andare a tavola, mi cambio d’abito. Il che poi vuol dire indossare una giacca diversa, di lana o di cotone, a seconda delle stagioni, visto che le gambe, così come le ruote, le mie come quelle di mamma, sono sempre nascoste da una discretissima coperta, della stoffa adatta al clima.
Il tavolo da pranzo è ovale. Perciò sediamo l’una di fronte all’altro, lungo le curve più larghe, lei con le spalle alla finestra, e quindi teoricamente a capotavola.
Clara mangia con noi, cosa inaccettabile secondo il codice aristocratico, ma inevitabile nella nostra pantomima. Tanto più che, di fatto, all’ora di pranzo chi comanda è Clara.
La cena è tutta un’altra cosa, dal momento che siamo soli, mamma e io, perciò ci rintaniamo in cucina, e su due strofinacci a quadri poggiamo i nostri piatti, le nostre posate, pane, bicchieri, una bottiglia, del formaggio o un’insalata o una minestra cucinata da Clara la mattina, forse frutta. Il tutto si conclude in pochi minuti. Poi si fa l’ora di andare a letto, ed è il regno dei normali, di quei due cafoni che ci prestano braccia e gambe, fino al giorno dopo, e alla nuova nostra vecchia solitudine.
Mia madre avrebbe voluto che io mi sposassi. Parlava per affetto, ovviamente, Evelina. In effetti ci fu un tempo in cui la cosa sembrò plausibile anche a me. Avevo conosciuto – non ricordo neppure come – una ragazza, di quelle normali. Non proprio ragazza, comunque neppure tanto male, visto che era solamente un po’ bassina e odorava sempre di cipolla. Ci sentivamo per telefono, ogni tanto lei veniva a trovarmi e, forse per accattivarsi le simpatie di mia madre, portava un mazzo di fiori. Ignorava che in casa nostra i fiori recisi sono considerati alla stregua di pellicce di visone in casa di un animalista. Comunque la cosa andò avanti per un po’, finché un pomeriggio Evelina prese ad insistere perché offrissi del tè alla nostra ospite. Dovetti assecondarla e servire un’immaginaria tazza dell’antica bevanda, con latte per lei, e con limone all’atterrita fanciulla, che dopo quel giorno sparì per sempre.
Questo avveniva parecchi anni fa.
Non mi lamento. Possiamo dedicarci alla lettura, non abbiamo problemi economici, parliamo persino fra noi, ho rinunziato all’idea di…
Comunque oggi esco. La lascio sola. Che se la apra lei la finestra e tutto il resto. Si prepari da sé il suo schifoso tè inesistente. Voglio respirare aria fresca, , vedere le strade, incontrare gente, finire sotto un grosso camion e inguaiare l’autista procurandogli insonnia perenne.
Entro in soggiorno. Mia madre non c’è. Giro per i corridoi, guardo in tutte le maledette stanze sproporzionate, coi loro mobili deformi. Dalle finestre, contemporaneamente aperte e chiuse, da sopra i davanzali nani, penetra il chiarore del primo mattino. Arrivo nella serra. Lei è lì, intenta ad accarezzare le foglie di uno dei suoi mostri vegetali.
“Io vado”, dico a voce troppo alta, “e non torno più”. Ma quest’ultima frase mi esce in un sussurro.
Lei continua a sfiorare amorevolmente il suo tronco di verzura.
“Adesso chiamo il signor Leo ed esco”.
Ma praticamente l’ho detto a me stesso, e intanto guardo fuori dalla vetrata il sole che ha superato i comignoli degli edifici vicini, e si è voltato dall’altra parte.
Lei spruzza con gesti lenti un’acqua maleodorante da un flacone giallo.
“Già che esco, ti serve qualcosa ?”, chiedo illogicamente, poi mi pento e soggiungo tardivamente: “ma tanto non torno”.
Evelina si è fermata, ha deposto il medicinale che tiene in vita le piante e tutto ciò che nella nostra casa può solamente vegetare. Poi si è voltata appena, la mia mamma, ha socchiuso gli occhi e, sfiorandomi con lo sguardo, con un sorriso dolcissimo mi ha detto: “prenderei volentieri un’altra tazza di tè …”.
Vincenzo Maria Pasqua
La produzione letteraria è rappresentata dalla narrativa sia breve che lunga. Ha scritto decine di racconti e due romanzi, uno dei quali è in via di pubblicazione, mentre un terzo è tuttora in fase di stesura. Nel 1999 ha pubblicato per “l’Autore Libri Firenze” un volume di racconti dal titolo “La ricerca del labirinto”. Sta per pubblicare un’altra raccolta di racconti.
Ha conseguito i seguenti riconoscimenti in diversi concorsi letterari: 1° classificato all’VIII^ edizione del Premio letterario nazionale “Anteka Erice 2002”; – 2° classificato al Premio Nazionale di narrativa “Leonardo Sciascia”, indetto dall’Accademia Nazionale “Ruggero II di Sicilia” di Palermo 2002, menzione speciale alla IX^ edizione del Premio letterario nazionale “Anteka Erice 2003” per il volume di racconti “La ricerca del labirinto”, 2° classificato all’XI^ edizione del Premio letterario nazionale “Anteka Erice 2005”, 2° classificato alla III^ edizione del Concorso di Poesia e Narrativa “Ricordando un amico” di Sorbolo (PR), finalista al Premio Letterario Internazionale Merano-Europa 2007, VII edizione, 3° classificato al Premio Nazionale di narrativa “Leonardo Sciascia”, indetto dall’Accademia Nazionale “Ruggero II di Sicilia” di Palermo, 1° classificato al Premio Internazionale di poesia “Sacra Famiglia”, indetto da OTMA Edizioni di Milano, 3° classificato al Concorso Nazionale di poesia e narrativa “Ugo Foscolo”, indetto dall’Accademia Nazionale “Ruggero II di Sicilia” di Palermo; menzione d’Onore al Premio Internazionale Agenda dei Poeti 2009 indetto da OTMA Edizioni di Milano.