Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Ottava Edizione – 2009
Giorgio Giaccaglini
Il velo di Adila
“Ho sonno. Sono Stanca. Ho voglia di dormire e non mi va di andare a scuola. Eppure mi devo alzare così presto!”
Adila si doveva svegliare la mattina di buon’ora e andare al bagno quando il padre e i fratelli erano ancora a letto. La madre no, non dormiva, si sistemava prima di tutti e preparava le colazioni. Adila pensava che non fosse giusto che dovesse dormire di meno perché i maschi di casa non potevano vederla un po’ spogliata. Si ammirava davanti allo specchio del bagno. Alzarsi presto le permetteva, se non altro, di prendersi tutto il tempo di cui aveva bisogno per farsi bella. Aveva sedici anni e già si sentiva donna. Si dava un trucco leggero, non si doveva notare. Si guardava gli occhi, il viso, e cercava di immaginare i pensieri dei ragazzi. Si ammirava i seni, cresciuti negli ultimi anni. Ne andava fiera. Era felice quando la guardavano lì; era un’emozione che le coloriva le guance ma, appena lo sguardo si faceva insistente, ne rimaneva turbata. Non era ancora una donna, ma quel ragazzo conosciuto a scuola, quello della classe vicina di un anno più grande, la faceva sentire più matura. Stavano bene insieme. Parlavano, ridevano e qualche volta si sfioravano.
I capelli corvini, come fossero dei serpenti ribelli, le scendevano giù, sulle spalle; seduta, con i gomiti appoggiati al banco della scuola, passava intere lezioni a intrecciare quei riccioli che si infilavano tra il collo e la camicetta. Gli occhi marroni, che a distanza sembravano ancora più neri dei capelli che cadevano davanti, spiccavano sul colore pallido del viso. E poi un corpo, piccolo e flessuoso, che sapeva mettere in risalto con i suoi jeans stretti e sdruciti. Ne aveva due paia uguali per non rimanerne mai senza.
Quei seni che con soddisfazione ammirava ogni mattina, non erano così cresciuti il giorno che arrivò in Italia. Aveva dieci anni quando la famiglia poté unirsi di nuovo al padre, partito anni prima. A quell’epoca Adila aveva lo sguardo fisso di chi si trovava improvvisamente immerso in un mondo sconosciuto e gli occhi impauriti di chi doveva affrontare una realtà di cui non sapeva nulla. Aveva vissuto in una terra piccola, semplice e povera, come fosse sempre stata su un’isola, e all’improvviso si trovava immersa nella frenesia delle persone, nelle luci delle strade e nei colori delle vetrine, nella confusione delle parole e dei rumori. Ormai Adila aveva assorbito l’essenza di quella nuova realtà. Si considerava fortunata: lei era come le sue amiche italiane. Là, lontano, era tutto diverso. E lei lo sapeva.
Non era solamente bella. Sotto quello sguardo fisso c’era una mente curiosa, capace di rubare i segreti del mondo, e un’intelligenza emotiva che le permetteva di vedere la vita con gli occhi degli altri.
“Come è possibile”, pensava spesso tra sé e sé, e una volta aveva pure espresso questi pensieri in una discussione in classe, “che si possa far del male a qualcuno quando si entra nella vita di una persona, si percepisce il suo dolore, si comprende la sua anima? Come è possibile che si prenda in giro la compagna di classe perché è po’ cicciottella? Starà soffrendo perché non riesce ad attirare l’attenzione di quel ragazzo che le piace tanto o perché vorrebbe mettersi la taglia trentotto o perché le amiche non la portano a ballare con loro! Sarà così grassa perché la madre la trascura o il padre la picchia o è affetta da una rara malattia che la fa ingrassare senza quasi mangiare! Come si fa a ridere di tutto ciò? E quel bambino che, lontano, sulla televisione, piange davanti ai ruderi di una casa, come si fa a non pensare ai suoi genitori, se siano vivi, o morti, o se ci sono mai stati, quale sarà il suo destino, se sia ancora vivo e che senso ha avuto o avrà la sua esistenza! Come si fa a non piangere per tutto questo? ”
Lei parlava, parlava con abbondanza di parole durante quella lezione. I compagni di classe erano meravigliati di fronte a tanta veemenza.
“Il dolore è uguale per tutti. Come si fa a non comprenderlo?”, continuava Adila.
Per lei era così semplice.
“E allora”, la interruppe l’insegnante, come per voler stemperare quella sua sicurezza “come mai ci sono e ci sono state tante guerre tra gli uomini?”
Adila non era forte in matematica, ma la storia, non quella delle date bensì quella dei popoli, la conosceva bene.
“Nel momento in cui un altro essere umano è visto come qualcuno diverso da te, come un pericolo, allora… allora non riesci più a percepire il suo dolore, allora sei capace di portare la distruzione e …”.
Voleva continuare ma l’insegnante le fece un cenno. Poteva bastare.
“No, scusi…”, provò a dire Adila.
“Va bene così, brava, hai espresso chiaramente la tua idea”, disse l’insegnante voltandosi verso la cattedra e chiudendo il libro di storia che aveva tra le mani.
“No, aspetti, volevo continuare, c’è un punto molto importante.”
Quando un pensiero la tormentava, la mente di Adila era come l’acqua di un torrente bloccata improvvisamente da una frana: si sarebbe fermata per un attimo, l’agitazione sarebbe cresciuta sempre di più e alla fine i suoi pensieri avrebbero comunque tracimato.
“Dai, ma fai in fretta”, disse l’insegnante.
“La religione…, è quella che…, no, scusi, niente, niente”, s’interruppe subito Adila.
Le idee erano chiare nella sua mente ma, appena pronunciata quella parola, si rese conto che stava camminando in un terreno per lei insidioso.
L’insegnante era una donna ormai prossima alla pensione e aveva sviluppato un’inconscia avversione verso ogni segno che significasse un cambiamento o una minaccia per il suo piccolo mondo. Non era paura la sua, era, piuttosto, stanchezza di capire ancora e di spiegare concetti senza più averne la forza per sostenerli.
Vide in Adila le energie di una volta.
“Vai avanti continua” le disse.
“La religione, non la capisco. È lei la causa di tutto.”
“Cosa vuoi dire? Spiegati meglio.”
“Dovrebbe unire, invece divide. La spiritualità, dovrebbe unire e … poi, ce l’ha insegnato lei… le tre religioni più diffuse al mondo hanno basi comuni, tuttavia servono solo per dividere. Ma…” e qui la ragazza ebbe di nuovo un’esitazione, “la religione è fatta dagli uomini non da Dio.”
Adila era libera nei pensieri. Adila la giusta. Questo era il nome che le aveva dato il padre, ma non sarebbe stato contento a sentirla parlare così.
“Bene”, disse l’insegnante con affettuosa ammirazione.
“Ho letto il tuo diario”, disse una sera il padre di Adila, “non devi più vedere quel ragazzo. Non ci devi parlare.”
Seduta, a tavola, la ragazza era rimasta sola con il padre. I fratelli erano stati mandati a giocare nell’altra stanza ancor prima che avessero finito di cenare e la madre era in piedi, di spalle; si era messa a preparare qualcosa per il pranzo del giorno dopo. Quelle parole furono pronunciate senza neanche alzare lo sguardo, continuando a fissare la forchetta e il coltello con cui stava tagliando la carne nel piatto. Adila esaminò dapprima, per un solo attimo, il viso del padre ma subito, per paura di incontrare i suoi occhi, si rivolse verso la madre in cerca di uno sguardo che potesse darle un sollievo. Nulla. La madre rimase di spalle; eppure lei era l’unica a sapere del suo diario.
“Padre, non faccio niente di male.”
Doveva dire qualcosa.
“Non rispondere Adila, non ho finito. Non devi più parlare con i ragazzi e da domani indossi il velo.”
Le mani, i polsi, le braccia della ragazza tremavano; lo stomaco era chiuso, la testa le girava come stesse per svenire. Gli occhi si stavano riempiendo di lacrime. Si trovava gettata, di nuovo, in un mondo che non era più il suo. Le parole del padre non dovevano mai essere contraddette ma non poteva accettare che qualcun altro prendesse in mano le redini della sua vita.
“Ti prego padre, non mi obbligare a indossare il velo, mi vergogno. Voglio essere come le altre ragazze, ti prego…io non lo metto…”
Uno schiaffo, il dolore, un padre che mai l’aveva picchiata prima di quella sera. Era cambiato, non era più lo stesso. Il viso severo si era trasformato, in quegli ultimi giorni, in un viso cupo.
“Se vuoi continuare ad andare a scuola ti metti il velo, altrimenti rimani a casa, ad aiutare tua madre.”
Il padre si alzò e andò nell’altra stanza in cui lo aspettava la televisione già accesa. La madre rimase sempre di spalle. Adila era seduta, sola su quel tavolo. Si trovava ad affrontare un mondo di cui aveva dimenticato l’esistenza ma, con la stessa velocità con la quale la vita le aveva riservato quella sorpresa, capì che doveva mettere quel velo: la scuola era diventata l’unica ragione di vita, l’unica speranza a cui si doveva aggrappare con tutte le forze.
“Adila, Adila!”
Era pomeriggio, d’inverno; un giorno alla settimana la ragazza doveva tornare a scuola per colmare le lacune di matematica. Marco lo sapeva. Da tempo Adila toglieva lo sguardo quando incontrava quello del ragazzo, cercava in ogni modo di non rimanere sola con lui, evitava di incontrarlo in corridoio, a scuola e percorreva strade diverse dalle solite. Conosceva le abitudini e le giornate di Marco: gli orari delle lezioni, gli allenamenti di pallavolo, le passeggiate per il corso del paese. Star lontano da lui, come fosse arrabbiata, significava per Adila una morsa continua allo stomaco. Ma doveva resistere per il bene di entrambi, non doveva cedere; sarebbe cresciuta e diventata maggiorenne, avrebbe litigato con la famiglia, suo padre avrebbero capito, o forse no. Non importava. Avrebbe scelto lei cosa fare della sua vita. Doveva aggrapparsi con tutte le forze a questi pensieri. Ma ora no, non doveva vederlo.
“Adila, Adila…”
Marco l’aveva aspettata all’uscita della scuola; anche lui sapeva della vita della ragazza. Adila non poteva spostare l’orario delle lezioni, unico punto debole del suo piano elusivo.
Il ragazzo la segui, aspettando il momento giusto per parlarle. Quel vicolo senza lampioni e con le finestre dei palazzi tutte spente, era l’occasione cercata. Nessun passante occasionale li avrebbe mai riconosciuti in quell’oscurità.
“Adila, aspetta, fammi parlare, che succede?”, disse mettendole una mano sulla spalla.
“ Marco lasciami stare, è pericoloso.”
“Ma…”
“Se ci vedono… è pericoloso…”
“Adila, io ti voglio bene, voglio vederti… parlarti, voglio ridere con te.”
“Anch’io lo voglio, Marco, ma no, no, ora è meglio di no. Non è possibile. Anch’io ti voglio bene Marco, ricordatelo sempre.”
“Ma perché non è possibile, cosa significa?”
“Niente, niente… è che…”
“Cos’è successo, Adila? Perché non possiamo vederci?”
“Marco, vedi questo velo? Tre mesi fa io non lo indossavo, ora si. Lo capisci questo?”
Marco credeva di capire. Prese il velo, lo portò fin sopra la bocca e il naso di Adila lasciando solo gli occhi scoperti.
“Hai degli occhi bellissimi, anche così ti riconoscerei, anche così ti vorrei”, disse Marco. Lasciò cadere il velo e avvicinò le sue labbra a quelle della ragazza. Fu un bacio frantumato, spezzettato, interrotto finché Adila non cedette al calore delle labbra. Pochi secondi e la ragazza fuggì tra la gioia e il dolore.
Adila non era più serena come una volta; sentimenti contrastanti si alternavano nel suo cuore, emozioni belle e brutte, in ogni caso dolorose. Il bacio e il velo, come gli alfieri di due eserciti perennemente in guerra, si insinuavamo nelle pieghe della sua mente: ora aveva il sopravvento l’uno e subito dopo l’altro.
La notte non riusciva più a dormire, si girava continuamente da una sponda all’altra del letto, prendeva il cuscino e lo piegava in due, si tirava su le coperte e poi di nuovo, accaldata, si scopriva. Era inutile sperare in un sonno che, piano piano, la potesse sopraffare.
“Studierò, diventerò maggiorenne, cercherò un lavoro, al bar, al ristorante, aiuterò gli anziani, qualunque cosa pur di vivere la mia vita. Nessuno può decidere al posto mio.”
E poi pensava a quel bacio. Le dava coraggio e speranza.
“Devo resistere ancora, ancora un po’.”
Le piaceva leggere. Leggere le dava sollievo, le permetteva di pensare ad altro, a storie diverse dalla sua. Leggeva tutte le sere. Aveva un debole per gli autori russi, per le passioni che così intensamente vivevano i personaggi. Anche se quelle storie, in cui lei si immedesimava così profondamente, non avevano spesso un lieto fine.
“Devo resistere ancora, ancora qualche mese”, si ripeteva Adila ogni notte.
Era inutile rimanere a letto con quei pensieri. Doveva alzarsi, andare in cucina, prendere qualcosa da bere e magari fare un piccolo spuntino, una fetta biscottata o un biscotto. Negli ultimi mesi era ingrassata di qualche chilo, ma non si vedeva, non poteva più indossare i suoi jeans attillati.
In una di quelle passeggiate notturne e silenziose Adila vide una debole luce provenire da sotto la porta della camera del padre. I suoi genitori erano ancora svegli e parlavano. Sentì il suo nome.
“Adila deve partire, prima possibile”. Era la voce del padre.
“Come…che stai dicendo”, balbetto la madre.
“Mio cugino ha visto Adila baciarsi con quel ragazzo, l’altra sera, dopo le lezioni del pomeriggio, per strada”.
“Ma…come…tuo cugino…”.
“Si, ho chiesto a mio cugino di controllare Adila quando esce di casa, il pomeriggio. Deve andare sposa, è promessa, lo sai!”
“Ma è passato così tanto tempo da quando l’avevamo promessa… non si è fatto più sentire…è molto più grande di lei… è così lontano… in Pakistan…”.
“No, si è fatto sentire di nuovo. Vuole sposare Adila prima possibile.”
“No, ti prego, ripensaci…”
“Le tradizioni sono queste, dobbiamo rispettarle. Deve partire subito, prima possibile. Prepara le sue cose, l’accompagnerai. Per il momento non le diciamo nulla, lasciamola continuare la vita di tutti i giorni fino a quando non sarai pronta per partire. Ora dormiamo.”
Adila tornò a letto. Tremava sotto le coperte. Le estremità del suo corpo erano diventate freddissime come se il sangue non volesse arrivare fin là. Eppure sentiva il cuore battere, battere sempre più forte. Tremava e piangeva. I suoi pensieri diventavano sempre più confusi. La strada che si era costruita per scappare da quel mondo era ora interrotta, ogni proposito, creato con forza, svanito in un attimo.
Adila tornò a scuola. “Fino a quando”, si domandava, “fino a quando potrò venire ancora?”
Non chiese nulla al padre o alla madre di ciò che aveva udito, non cercò alcuna spiegazione. Nella sua esistenza non c’era altro destino se non quello segnato da un mondo di uomini. Non aveva più sogni o speranze, non sarebbe più stata capace di catturare il tempo, e poi i suoni, le voci e i colori delle sue giornate; c’era solo l’oscurità davanti ai suoi occhi , c’era solo un velo di tristezza.
Nella stanza della sua classe c’era una lunga ed unica vetrata. Due pini, con le loro enormi chiome, si toccavano e si penetravano formando un muro impenetrabile. I rami arrivavano a graffiare i vetri delle finestre, quasi volessero entrare.
Quante volte le insegnanti avevano dovuto alzare la voce, impaurite per lo sporgersi dei ragazzi che tentavano di prendere quei rami. Quante volte Adila era rimasta incantata a guardare quel muro verde e marrone eppur riuscendo a vedere l’azzurro del cielo. Da quella notte lo sguardo di Adila si fermava a quei rami, non riusciva ad andare oltre; quei rami sembravano dirle: “Vieni, vieni con noi!”
Un mattino Adila si avvicinò alle vetrate, le aprì, accostò una sedia e ci salì sopra. Voleva avvicinarsi a quei rami, voleva toccarli.
“Vieni, vieni con noi”, sembravano dire.
Adila si tolse il velo. Lo strinse in mano per lasciarlo solamente in volo.
Ora il suo viso era lì, sulla strada, scoperto e impertinente; neanche di fronte alla morte voleva stare coperto. Il velo leggero rimase lassù, impigliato sui rami. Fino a quando un soffio di vento malvagio non lo avrebbe portato a distruggere altre speranze.
Giorgio Giaccaglini
Giorgio Giaccaglini è nato a Jesi (AN) nel 1962, dove tuttora abita. Sposato con due figli, è laureato in Ingegneria Elettronica ed è sempre vissuto nel mondo della ricerca e della progettazione. Accanto alla soddisfazione di progettare circuiti elettronici, ha affiancato da poco il piacere di creare storie.
Nel 2008 risulta vincitore al “2° premio letterario “Raccontami una storia- narrativa sul tema della solidarietà -premio speciale Pravisani” organizzato dalla città di Ruda (UD).
Nello stesso anno risulta terzo classificato presso il concorso letterario “Versi & Prosa – Orizzonte Cultura” col patrocinio del Comune di Quarrata e della Provincia di Pistoia, e risulta selezionato per la fase finale del concorso letterario “Laboratorio Gutenberg 2008” (Roma).
Nel 2009 risulta terzo classificato presso la VII edizione del premio di narrativa “Anna Vertua Gentile” del Comune di Codogno (LO) -Biblioteca “Popolare-Ricca” con il racconto inserito nella antologia del concorso. In una antologia della Giulio Perrone Editore, è presente un suo racconto.