Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Ottava Edizione – 2009
Claudio Riccardo Emilio Granchi Nencioni
Il mio nonno Emilio (ovvero: La politica dei polli)
Dalla meravigliosa giogaia che sovrasta il mio antico e amato paese natio di Vicopisano, ultima propaggine sud-orientale del Monte Pisano, là dove il Sasso della Dolorosa si staglia inconfondibile nel cielo con la sua cupola cinerea di massi verrucani imbavagliati da un vetusto bosco di castagni, si lascia cadere dolcemente al piano la Valle di Lupeta, in un tripudio di olivi e casolari tutti volti a mezzogiorno, a rimirare il sole lì davanti.
Nel punto più ridente del declivio sorge la grande villa Krastam. Dietro alla villa c’è una bella chiesa “romanica” dell’VIII° secolo d.C., ristrutturata qualche decennio fa.
Mio figlio ha voluto sposare lassù, il 4 di Ottobre scorso. Abbiamo trovato la chiesa nell’abbandono: assai sporca, il tetto comincia a fare acqua, la sacrestia è un ripostiglio di “ogni ben di Dio” e i soppalchi del campanile sono ricoperti da uno strato di polvere e detriti vari, alto un palmo; una delle due campane è inservibile: il pesante batacchio è staccato e abbandonato in un angolo, tra la sporcizia.
Una settimana prima delle nozze, abbiamo lavorato sodo per dare un aspetto decente all’edificio sacro. Una di quelle mattine, apparve in chiesa un uomo vecchio, colà residente. Mi riconobbe subito, lui: “Te sei il nipote d’Emilio, il “fattore”. – mi disse – Quando c’era il tu’ nonno quassù, la chiesa, anche se era in rovina, non perdeva un capello;…e le campane suonavano…e dentro e sul prato davanti ci si poteva “leccare”…e nessuno toccava mai niente…”.
Nonno Emilio era in principio un bracciante della famiglia Krastam; era così severo, preciso, fedele, puntuale, affidabile, segreto, sincero, che quando il padrone se ne accorse, quasi subito, lo volle con sé come factotum e guardiano della villa, e delle sue pertinenze, comprese le rovine del monastero e della chiesa.
Divenne responsabile del podere, della vigna, della cantina, dei contadini, dei raccolti; trattava con i fornitori e con i clienti. Nemmeno alle sue figlie dava un grappolo d’uva in più oltre alle pigne stabilite dal padrone.
Al mio nonno era stata assegnata in comodato una porzione di una delle case coloniche del vasto podere, non molto distante dalla villa; inoltre, a titolo di compenso per l’attività svolta a tempo pieno alla villa, riceveva annualmente dodici stai di farina di grano e sei di mais, sette galloni di olio di oliva e dieci damigiane di vino, cinque di rosso e cinque di bianco, una dozzina di polli e una di conigli.
La casa era composta da quattro stanze: il classico cucinone di una volta, con il camino centrale tutto annerito, due camere assai spaziose e un ampio locale ad uso magazzino, con lo stabbio per i conigli e la stia per i polli, che i nostri vecchi chiamavano “cigliere”, alla pisana; tutto dignitosamente umile e modesto, ma con l’odore sgradevole che dal “cigliere” si mischiava al fumo acre del camino in una miscela inconfondibile, e indimenticabile, quasi adorabile, unica nel suo genere. Ce l’ho ancora nel naso, la riconoscerei tra mille,…ma non l’ho più incontrata.
Dalla moglie Annina aveva avuto tre figlie: Rosa, Sidonì ed Emilia, per ultima, la mia mamma, nata nel 1914. Rosa si maritò per prima, in giovane età, e tornò ad abitare nel centro del paese.
Mio nonno era stimato da tutti, anche dal podestà, durante il regime fascista; erano amici d’infanzia.
Nel ’35, Rosa si ammalò gravemente; aveva bisogno di cure e di assistenza, soprattutto quando suo marito faceva il turno di notte alla fabbrica del carbone, dove lavorava.
Nonno Emilio, quando sapeva che Rosa restava sola, a qualsiasi ora della notte scendeva a piedi in paese per andare a trovarla, nonostante il divieto assoluto di circolazione, disposto dal podestà, a partire dalle ore 21 alle 6 del mattino.
Una notte fu intercettato dalla ronda armata fascista e condotto davanti al podestà. Gli disse: “Ci conosciamo da sempre, ma purtroppo hai disatteso un ordine fascista, inderogabile!”.
Gli mise davanti un bicchiere di olio di ricino. Nonno Emilio non si fece pregare due volte e cominciò a bere. A metà, prese un po’ di fiato e, probabilmente, al podestà rimorse la coscienza; gli strappò il bicchiere dalle mani e gli disse: “E che la prossima volta non ti venga in mente di disubbidire agli ordini fascisti!”.
Il mio nonno gli chiese: “Cosa ne fai di codesto mezzo bicchiere d’olio?”.
“Lo butto via” gli rispose.
Allora nonno Emilio replicò: “A casa mia non ci possiamo permettere di buttar via nemmeno una briciola di pane!”. Afferrò il bicchiere e bevve tutto di un fiato il restante liquido ripugnante.
Da quella volta, sembrò che le ronde fasciste non lo vedessero più mentre nel buio della notte si aggirava da solo per i vicoli pietrosi e scoscesi del paese che si arrampicavano fino alla casa di Rosa.
Tutte queste cose ci raccontava il vecchio, mentre noi, io e mia moglie, stavamo spazzando il pavimento della chiesa e spolverando le panche per la cerimonia del Sabato a venire.
Ne aveva da raccontare, il vecchio! Si sedette su una panca già pulita e ci fece compagnia gradita con i suoi ricordi.
I vertici ombra del nascente movimento locale comunista contattarono nonno Emilio, per convincerlo a stare dalla loro parte. Lui gli rispose: “Per me siete tutti amici, finché rispettate la Legge di Dio”.
Rosa non guariva, anzi peggiorava. A Vicopisano c’era allora un grande luminare della medicina: il Professor Mancini. Abitava nella “casa gialla” sopra a “La Lastra”, un boschetto di querce pedemontano situato all’inizio della strada panoramica per la Verruca. In realtà, è una bella villetta solitaria, a due piani da terra, circondata da tanto verde e da un’aria ancora oggi fiabesca.
Se il medico condotto non riusciva nel suo intento, allora si interpellava il Professore, non appena ritornava a casa dalla sua clinica ospedaliera di Pisa. Quando c’era, era sempre disponibile; e non chiedeva denaro, soprattutto ai suoi compaesani; e soprattutto a quelli che sapeva poveri e disgraziati. Però questi non si facevano mai misurare nella loro miseria e, a costo di “levarsi il pane dalla bocca”, vi andavano sempre provvisti, cioè recando seco una mezza dozzina di uova, la gallina grassa, il coniglio migliore o un fiasco di vino, di quello buono.
Era tutta gente che non si può dire morisse di fame, ma comunque mangiava sì e no giusto giusto per vivere.
Il Professore faceva la sua diagnosi e azzeccava sempre la prognosi; poi dava la cura, ma in primo luogo si raccomandava di far mangiare “roba” sostanziosa all’ammalato, soprattutto uova e poi miele e poi frutta, se nella stagione giusta; alimenti comuni, più o meno accessibili a tutti.
Rosa era magra e avvilita. Nonno Emilio, dopo 12, 14 ore di lavoro nella villa, scendeva in paese, di notte, e almeno un uovo, quando c’era, glielo portava.
Un giovane contadino della villa Krastam rimase vedovo molto presto, con un bambino piccolo da tirare avanti. Era originario della Calabria e non aveva nessun parente in tutta la Toscana.
Il povero bambino era più magro e avvilito di Rosa: era rachitico. Nonna Annina si prese cura di lui: lo teneva tutto il giorno con sé, come un figlio, e alla sera lo riconsegnava al papà, che se lo riportava a casa a dormire.
Servivano tante uova a nonno Emilio, ma l’unica gallina che aveva era vecchia e più di un uovo al giorno, quando andava bene, non lo faceva. Erano merce preziosa, allora, le galline. Nonno Emilio decise perciò di allevare tre o quattro pollastrelle tra quelle della dozzina annuale di sua spettanza, solo per le uova; rinunciando quindi, lui e tutta la famiglia, a mangiare un buon pollo, una volta al mese, per tre o quattro mesi…
Ma una bella notte stellata di Maggio, qualcuno entrò nel “cigliere” di nonno Emilio e gli portò via tutti i polli, e anche la gallina. Al loro posto, lasciò un biglietto, dov’era scritto: “Ma da che parte stai, brutto codardo!”.
Nonno Emilio non si perse di coraggio. Qualche notte dopo, disse ad Annina: “Se domattina faccio tardi, non stare in pensiero; devo fare anche un lavoretto per degli amici…”. Prese due balle di iuta, l’uovo rimasto e scese dall’amata Rosa.
La mattina seguente, prima della Santa Messa delle 6, si presentò al curato del paese, Don Luigi Sassi, con due sacchi pieni di “roba che non stava ferma”.
Don Luigi gli chiese: “Cosa vuoi, Emilio, così presto, e cosa c’hai mai costì dentro?”.
“Padre – gli rispose – ho rubato!”.
“Hai rubato? – stralunò Don Luigi – Per l’amor di Dio! Santa Maria! San Giuseppe! Sant’Antonio da Padova! Ma ti rendi conto di quello che hai fatto? Vergogna,…vergogna…, vergogna…”.
Prese la stola dall’armadio della sagrestia e intimò a nonno Emilio: “Subito, nel confessionale, ladro di polli!” (è ancora oggi un modo di dire, qui nel pisano, per appellare un poveruomo che vive di piccoli espedienti per campare).
“Ma è proprio così, Padre, – confessò nonno Emilio – ho rubato dodici polli, anzi, dieci polli e due galline giovani; sei, al podestà, e sei, al “comunista”, Nello di Pascale!…Loro ne hanno così tanti…”.
Don Luigi volle sapere tutta “la storia”. Nonno Emilio non tralasciò neppure una virgola.
Alla fine della lunga confessione, Don Luigi riprese il suo tono amorevole e paternalistico, di sempre, ed esclamò: “O Signore , nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra: sopra i cieli si innalza la tua magnificenza. Con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza contro i tuoi avversari, per ridurre al silenzio nemici e ribelli…(Sal 8, 3)…Se questi polli e queste galline sono indispensabili per la guarigione di figli e bambini, allora io…ti assolvo, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, Amen”. “Amen!”, rispose nonno Emilio.
“Ah, ah,… – riprese Don Luigi – mi dimenticavo la penitenza. Perché non si ruba, sai! Anzi, se dovesse succedere un’altra volta, io non ti assolverò più! Dunque, dunque…: per prima cosa, ti obbligo a prenderti cura di questi poveri animali…; per seconda, ti invito a recitare tutte le sere tre Avemmarie e un Miserere…Non te lo dimenticare mai!”.
Dette così la benedizione a nonno Emilio; e anche ai polli…
Ora mi spiego perché nonno Emilio, tutte le sante sere, immancabilmente al primo scampanare vespertino, si fermava, dovunque si trovasse, e, come estasiato, fissava un bel po’ il cielo, che intanto si apprestava a far posto alle stelle, e alla luna, allorché presenti…
Il podestà non sopportò il furto dei polli e della gallina. La mattina seguente, di buon’ora, si recò dal comandante della locale caserma dell’Arma dei Reali Carabinieri, per denunciare il furto: “Sarà stato sicuramente un comunista!” disse il podestà.
Fu convocato immediatamente in caserma Nello di Pascale, ritenuto – a ragione – ben più di un simpatizzante di sinistra; gli spiegarono il motivo della chiamata e lui subito esclamò: “Ma anche a me sono stati rubati polli e gallina!…Sarà stato un socialista!”.
Il comandante invitò in caserma il giovane contadino di Krastam, rimasto vedovo da poco, con un bambino piccolo da crescere; la sua famiglia originaria era nota all’Arma per aver sostenuto l’ideale socialista prima della soppressione del partito da parte del regime fascista.
Il giovane cascò dalle nuvole: “Non mi posso permettere di allevare polli! E poi la notte scorsa sono rimasto a dormire da Emilio, il “fattore”, perché a mattina avevamo da fare un lavoro urgente nella vigna…Chiedetelo a Emilio o anche al padrone”.
C’era lì presente, con il podestà, uno della ronda armata notturna: “A proposito! – esclamò quello – Cosa gira spesso e volentieri in paese, a notte fonda, quel leccapreti di Emilio?!”.
Al comandante gli mise una pulce nell’orecchio: “Ma perché gira di notte nonostante il divieto?”.
Rispose il podestà: “Una volta sola, sì, ma è stato adeguatamente “catechizzato”!
Anche nonno Emilio fu convocato in caserma: “Meno male che mi ha chiamato, – disse al comandante – perché anche a me hanno rubato tutti i polli: undici, per la precisione, e una gallina! E poi, guardi qui, comandante, cosa mi c’hanno lasciato di scritto nel “cigliere”!”.
Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni il foglio con su scritto “Ma da che parte stai, brutto codardo!”.
“Voglio sporgere denuncia contro ignoti, – proseguì nonno Emilio – che tanto ignoti poi non lo sono se scrivono di pugno questa roba!”.
Intervenne il podestà: “Suvvia! Non facciamo le cose difficili! Se noi siamo tutte vittime, vorrà dire che il ladro sarà un anarchico, che se lo becco gliela faccio passare io la voglia di rubare i polli! Nello, quanti polli ti sono rimasti?”. “Una ventina”, rispose.
“Allora facciamo così: io a Emilio gli do 6 polli e 6 glieli dai te, sei d’accordo?”. Furono tutti d’accordo. Rimasero tutti contenti.
Quando, durante la seconda guerra mondiale, il fronte tedesco si fermò di là d’Arno, proprio di faccia al paese di Vicopisano, i tanti sfollati sul Monte Pisano, in gran parte donne, vecchi e bambini, avevano fame, tanta fame, mancavano di tutto e avevano paura, una grande paura.
Il podere della villa Krastam era rimasto attivo fin quasi ad allora, grazie a nonno Emilio, e nei suoi magazzini e nelle cantine c’erano ancora viveri in abbondanza. Quando i bisogni dei poveri sfollati si fecero impellenti, dalla villa cominciarono a “uscire” generi di prima necessità, anche in grande quantità.
Il padrone, originario della Confederazione Elvetica, si era trasferito a tempo opportuno in Svizzera, insieme a tutta quanta la sua famiglia, di alta estrazione monarchica.
Quando cessò il conflitto, tornò nella sua proprietà di Vicopisano; pur considerando gli eventi bellici, si rese conto che qualcosa non andava, e molto mancava nei magazzini. Chiese immediatamente chiarimenti e giustificazioni a nonno Emilio, che gli rispose: “Abbiamo affrontato la guerra, la fame e…gli anarchici, che, bontà loro, ci hanno lasciato almeno tutte quante le galline!”.
Ne aveva allevate ben 107 nel mezzo ai ruderi del vecchio convento annesso alla chiesa, che io e mia moglie stavamo pulendo. Anche con le loro uova aveva sfamato un bel po’ di gente.
Mi disse il vecchio seduto sulla panca: “Il tu’ nonno Emilio ce la sapeva davvero fare con la sua politica dei polli”.
Ho avuto la fortuna di conoscere nonno Emilio: aveva quasi cent’anni; e io quasi novanta meno di lui: era seduto davanti ad Bar Italia, sulla piazza del paese, e stava leggendo, senza occhiali, “Il Telegrafo”, con molto interesse. Gli chiesi: “Nonno, come state?”.
“Bene, figlio mio, – mi rispose – ma da quest’occhio comincio a vederci un po’ male!…”.
Morì qualche mese dopo, di vecchiaia.
Negli ultimi tempi, si fa un gran parlare della possibilità di dare ai figli anche il cognome della madre, in alternativa a quello del padre. Io ho già scelto da solo, molto tempo fa: al mio già lungo nome, solo apparentemente nobiliare, ho aggiunto anche il cognome del mio nonno materno.
Al centro, i nomi: ben 3; ai lati, i cognomi: paterno e materno. Uno, a destra, l’altro, a sinistra, senza con questo fare torto a nessuno…
Claudio Riccardo Emilio Granchi Nencioni
Ex impiegato, pensionato dal 1° Gennaio 2007; dopo una prima, sofferta esperienza letteraria giovanile, di nuovo aspirante scrittore amatoriale, a tempo pieno, da tale data.
Dal 2008 viene segnalato o premiato in vari concorsi per poesie e racconti, quali il:
Concorso Nazionale di Poesia, Narrativa e Vernacolo “RIVALTO – ROBERTO MAGNI” – Rivalto (Pisa) – Sezione Speciale Romanzi Inediti, 2° Premio Nazionale di Poesia e Narrativa“LA TAVOLOZZA” – Pontedera (Pisa) , Concorso di narrativa e poesia “FRANCO BARGAGNA” -Pontedera (PI) , Concorso Nazionale di Poesia e Prosa “Fazio Degli Uberti” – San Giuliano Terme (PI); infine 1.o classificato al Concorso di Pasqua “Andrea da Pontedera” – Pontedera (PI)