Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Prima Edizione – 1995
Luigi Baldassarre
Ricordi di Dachau
“23 settembre 198…” datava il giornale.
Un qualunque giorno della monotona successione del tempo umano. Per gli altri, comunque. Per sé- Enrico Giorgi – di anni cinquantasette – restituito dal lager con un braccio anchilosato, quella data rappresentava lo spartiacque della propria vita; di là il “prima”, di qua il “dopo”. Una separazione netta e contrapposta, come fra due paesaggi antitetici fra loro, eppure facenti parte della medesima montagna. No, non si trattava del contrasto tra due età, l’una ancora avvolta nella bruma della spensierata incoscienza e l’altra ormai uscita alla piena luce del giorno. Perché il ventotto settembre millenovecentoquarantacinque, quando agli occhi delle truppe americane apparve l’orrore del campo di Dachau, egli toccava appena i diciassette anni, due mesi e cinque giorni. La giovinezza fisica gli aveva permesso di sopravvivere. Durante i ventiquattro mesi di internamento, trascinati giorno dopo giorno, si era abbarbicato all’intontita speranza di ritrovarsi vivo il mattino seguente. E dopo, a liberazione avvenuta, quella stessa ansia aveva continuato a seguirlo e a possederlo, oltre il reticolato, nel vagone del ritorno, dentro la casa ritrovata. Per anni essa lo aveva tenuto prigioniero, inquinandogli i sogni con inquietudine e delirio, artigliandogli il cuore in gola, ad ogni risveglio mattutino. Poi era subentrata l’apatia. Fissò lo sguardo oltre la vetrina del caffè. La piazza del mercato era animata a quell’ora, specie sotto i portici, ove le fioraie esponevano con uso antico le macchie multicolori dei fiori, ingentilendo la severa scansione degli archi a tutto sesto. Seguì per un tratto due coppie di giovani che si ostinavano negli abiti estivi, quasi a sfida della brezza già fresca di brividi alpestri. Li vide sparire dietro la fontana.
“28 settembre” gli riecheggiò nella mente. Sospirò. E un’altra volta si chiese quale significato potesse conservare, a quarant’anni di distanza, quella data. A nessuno, oggi, poteva importare. Del resto anche allora, quarant’anni prima, il mondo si era affrettato a cancellare dalla memoria la più atroce fra le nefandezze mai concepita da mente umana. Dimenticare, ecco l’imperativo. Ripensò alle parole di Primo Levi “Sono stati proprio i disagi, le percosse, il freddo, la sete che ci hanno tenuto a galla sul vuoto di una disperazione senza fine, durante il viaggio e dopo. Oggi è qui il nostro scopo di arrivare a primavera… O all’ultimo inverno”.
Mentre la mente riprendeva il filo dei pensieri, le mani aprirono il giornale. Lo sfogliarono con gesti usuali, indifferenti, mentre l’occhio sfiorava le parole senza coglierle. D’un tratto lo sguardo si imbatté in una fotografia e qui s’arrestò. V’era ritratto un uomo di età non più giovanile ma indefinibile. I lunghi capelli ricadevano sulle spalle. Il volto, asciutto e scavato, comunicava un senso d’inerme mestizia. Ma fu l’espressione degli occhi a turbare Enrico: fissi, aperti sul volto e, nello stesso tempo, pregni di sconsolato rimprovero.
“Chi sarà mai?”, pensò. Ma subito dopo lo riconobbe.
“È lui, sì.” Forzò la memoria a ricordare il nome. Non gli sovvenne. Allora scorse il titolo che sovrastava l’articoletto: “Una morte misteriosa”. Si concentrò nella lettura. Il cronista riferiva che, nella mattinata precedente, alla riapertura dei giardini pubblici comunali, il guardiano aveva trovato su di una panchina il corpo riverso e ormai inanimato di uno sconosciuto. La polizia, subito accorsa aveva dedotto trattarsi di un suicidio. Avvalorava quest’ipotesi un particolare curioso.
“Accanto alla panchina”, proseguiva l’articolo, “è stato notato un mucchietto di cenere, in mezzo al quale gli inquirenti hanno rinvenuto l’angolo bruciacchiato di una carta di riconoscimento”. Da ciò il cronista traeva la conclusione che il suicida non solo aveva deliberatamente distrutto la propria vita, ma insieme ad essa ogni traccia della propria identità.
“Sì, è proprio lui”, ripeté Enrico a se stesso. Le parole gli si ripercossero nel cuore. Spesso, negli ultimi anni, egli lo aveva incontrato in città’, in luoghi sovente lontani gli uni dagli altri. Taciturno, lo sguardo fisso verso prospettive che sembrava fossero scrutabili soltanto da lui. Vestiva abiti poveri e fuori moda, ma puliti ed ordinati. Come le camicie del resto immacolate, pur se gli orli dei polsini e del colletto rivelavano l’opera di mani pazienti che più e più volte avevano provveduto ai rammendi.
“Dignità”, era questo il sentimento che provava Enrico ad ogni incontro. Eppure, trattenuto da un’indecifrabile soggezione, mai gli si era avvicinato per farsi conoscere. Forse, appunto, a causa dello sguardo che scivolava lontano al di sopra degli uomini e delle cose. Ogni nuovo incontro riproponeva ad Enrico il ricordo della comunanza di dolore e di strazio, nel ‘lager’ maledetto. V’erano giunti a distanza di giorni l’uno dall’altro, giusto quattro mesi prima della liberazione, ossia in tempo per sopravvivere, chè la durata media di un deportato variava dai tre ai sei mesi. Esile quel compagno, spaurito e sperduto. Anche lui sui diciassette anni, ma con volto imberbe d’adolescente. S’erano riconosciuti grazie alla cadenza del comune linguaggio, durante le estenuanti ore di lavoro in fabbrica. Poterono scambiarsi i rispettivi nomi e poche parole, badando con occhio attento a cogliere i movimenti del guardiano aguzzino, un macilento russo ormai giunto allo stremo delle forze. Enrico ne provò una delusione violenta che riversò sul disgraziato compagno il quale, ormai inebetito dalla prostrazione, non parve avvedersene.
“Walter”, echeggiò in quel momento nella sua mente. Ne gioì, come al ritrovamento di una persona cara. Già, Walter. Per un attimo rivide il volto sparuto di lui e l’espressione sperduta dei suoi occhi. Dov’era improvvisamente finito, là, nel ‘lager’? Forzò ancora la memoria. Ecco, sì, era stato trasferito alla baracca dieci, ove regnava con il terrore un delinquente comune, di sicuro psicopatico, a cui i carcerieri nazisti avevano conferito diritto di vita e di morte. Lungo le file spossate dei deportati correvano mormorii di atrocità insensate e disumane. Ora in Enrico i ricordi si facevano più netti. Rammentò la prima notte in cui, dalla baracca maledetta, si levò una voce limpida, appena tremolante, a cantare una vecchia canzone italiana.
“è il tuo compaesano” aveva sussurrato ad Enrico uno dei compagni con cui divideva il pagliericcio. “Quel bastardo di ‘kapò’ s’ubriaca e poi lo costringe a cantare”.
Seguirono altre notti in cui, nell’aria resa cristallina dal gelo, quella voce vagolò trasportando con sé un brivido macabro. Poi tacque.
“Non ce l’ha fatta “? Appunto come altri centinaia, migliaia che finivano ogni giorno nelle fosse comuni o dentro i forni crematori dei campi di sterminio. Infine venne il giorno della liberazione. Ad Enrico, mentre attendeva il proprio turno per la disinfestazione, parve di riconoscere Walter. Poi scosse il capo. Com’era possibile distinguere gli uni dagli altri quei corpi ridotti allo scheletro, senza più parvenza d’esseri umani?
Il ricordo scosse Enrico. Si sentì prendere alla gola dall’antica ansia. Non riuscì a rimanere seduto. Pagò in fretta ed uscì. Appena posto piede sulla piazza, cercò di scacciare da sé la insistente immagine di Walter.
“Dimenticare, dimenticare”.
Allora lo decise l’idea che, forse, Walter aveva sostato più volte là dentro. S’accostò al banco. Chiese di Walter e mostrò la fotografia del giornale.
“Come mai lo cerca”, disse l’oste. “Sì, viene quasi ogni giorno, vede laggiù? quel tavolino sotto la finestra? Siede là e tira fuori dalla borsa il mangiare”. Sbuffò. “Mangiare: si fa per dire. Un pezzo di pane e un foglio di mortadella. Ordina una gazzosa. Adesso è un bel po’ che non viene. Qualcuno gli allunga mille lire ogni tanto. Ma lui niente, le lascia sul tavolino. Senza aprire bocca. Non parlava mai, neanche per dire buongiorno”.
Enrico uscì e s’allontanò in fretta. Ma fece pochi passi. Una donna stava sulla soglia di una casetta e lo fissava.
“Scusi “, disse,” cerca qualcuno?” Enrico cavò dalla tasca una fotografia di Walter e la mostrò alla donna.
“Ma si – disse quella di botto . è Walter. Passava di qua due volte al giorno. Eh, prima della guerra, ragazzino, sa? Si era innamorato di mia nipote. Bambina anche lei. Facevano tenerezza. Povero Walter : passa ancora di qui, ma non si ferma mai. Va diritto alla casa di mio nipote. Se ne sta immobile lì davanti, non so per quanto tempo. Perché lo cerca , signore? Walter ha ancora una sorella, Adriana, che adesso è alla casa di riposo.” Il chiacchierio della donna lo infastidì. Salutò e uscì dal borgo con passo frettoloso.
Giunto alla casa di riposo, chiese di Adriana.
“Quella che ha il fratello un po’ matto? Ma un buon figliolo, sa. Viene a trovarla ogni giorno.” Incontrò Adriana ed essa parlò. La loro vita era stata stentata, ma quieta. Walter , quattordicenne aveva trovato lavoro in una modesta tipografia. “Ma il suo sogno era un altro”, mormorò Adriana con lo sguardo sperduto nella luce spiovente. “Cantare, aveva cominciato a prendere delle lezioni.
“Ebbe un singulto, lo represse e con la punta del dito asciugò una lacrima. “Muto” , disse “Non parlava più, mi è tornato così. Allora, per la prima volta, ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo”.
Istintivamente portò le mani alle tempie per esprimere il dolore. Dunque, tutto era accaduto la notte in cui la voce non s’era più levata dall’infame baracca. La bestiale ferocia del guardiano ubriaco aveva ridotto il povero corpo ad uno strazio di carni macilente, ledendo la corteccia cerebrale e condannando traumaticamente la voce a tacere per sempre. Adriana infilò allora una mano nella tasca del grembiule e ne cavò una busta sgualcita.
“Mi ha lasciato questa lettera.” Qua e là s’indovinavano le macchie lasciate dalle lacrime. Con ordinata grafia di scolaro, Walter aveva scritto :”Mia adorata sorella Adriana, me ne vado per sempre. Ho cercato di tener duro, ma adesso che sei all’ospizio, per me non ha più senso di restare in questo mondo. Tu sai che non muoio adesso. Sono morto nel ‘lager’. Non piangere. So che tu mi vuoi bene e Dio sa se te ne voglio anch’io : ma io non sono niente. Per nessuno. Non voglio il nome sulla lapide. Addio. Tuo fratello Walter”.
Enrico fece l’atto di restituire il foglio, ma Adriana scosse il capo: “Io lo so a memoria, lo tenga per lei. Per Walter.”
Lungo la strada verso casa, Enrico camminò assorto, dimentico di ciò che gli stava intorno; il lento riabilitarsi del fisico, l’alternarsi dei giorni di lucidità con quelli dell’incubo, la claustrofobia, il mutismo, dapprima solo traumatico e poi, via via che la coscienza riemergeva, voluto e determinato. E in seguito la chiara consapevolezza dell’essere fuori della vita degli altri; considerato un mentecatto, certo innocuo, e perciò oggetto di derisione o di umiliante carità. Ed accanto al suo, il dramma di Adriana, che lottava perché il fratello non si arrendesse e che, con mani amorose, opponeva alla stolidità del mondo almeno la dignità esteriore di lui. Quarant’anni di pene. E ora? C’era una promessa fra lui ed Adriana. Egli avrebbe cercato di assolverla. Pensò che forse chi soltanto portava con sé il marchio dell’orrore, poteva non dimenticare. E come far intendere la necessità, anzi l’obbligo, che invece tutti ricordassero e tramandassero il ricordo da una generazione all’altra? Perché, e questo concetto gli si chiariva sempre di più a mano a mano che s’arrovellava, c’era una verità terribile di cui prendere coscienza : ossia che la cancellazione di sé compiuta da Walter, testimoniava come, con la consumazione dell’ultima tragedia, l’umanità fosse giunta ad un punto di non ritorno. Capì che questa realtà era la resa dei conti a cui era chiamato . Misurò le proprie forze. Troppo deboli contro la volontaria e pervicace cecità del mondo nei confronti della propria storia.
Sì : tutto – sofferenze – morte ed orrore -sarebbe ricominciato, come se mai, prima fosse accaduto. Colse l’intera amarezza della propria impotenza.
Abbassò la testa e uscì. “Domani”, mormorò, “forse, domani …”