Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Prima Edizione – 1995
Ermellino Mazzoleni
Madre
Alla vergine Clarissa che l’inverno è sul finire, tutta la valle è blu cielo e squillo di vento, anche la neve è blu. Un sole tiepido splende dopo mesi di nebbie e gelo; sghiaccia alle Ca Quadre e l’acqua gorgoglia nelle grondaie. È l’ora che mia madre mi chiamava a tavola e si arrabbiava se non mi sedevo subito, che il mangiare veniva freddo. Dieci giorni che è morta; ho un grumo allo stomaco e non gioisco la gloria della valle. Nella cucina vasta il sole entra sghembo e m’illumina metà fronte; sul davanzale interno della finestra c’è la Bibbia aperta al libro della Sapienza. è la tredicesima ora, il raggio sghembo la rade appena e la pagina si avvolge di una luce astratta. Non mi va di leggere, penso a fratello Luisio; è giorni che lui tace, ieri quasi al crepuscolo si è messo a piangere che lui è tenero come il fiore del tiglio. Anche fratello Franco è tenero, quando guarda la poltrona vuota che gli viene i capelli bianchi. Io, mia madre mi gira in testa; ricordo i suoi occhi rivolti alla luce, ma lo sguardo era dentro l’abisso di se stessa. Tentava la parola e non la trovava, allora unghiava la coperta a inciderla, d’improvviso lampeggiava un sorriso quando la parola le affiorava alle labbra. Nella stanza evaporava un tempo diverso da ogni tempo, segnato dal respiro e dal ritmo del sangue, dall’unghiata sulla coperta che era un modo folle e sacro di esprimere l’esistenza. Esco a camminare il bosco, gli entra il vento a vortice e fa spiovere la neve dai rami; svolano i passeri e qualche merlo, si posano sull’alto delle betulle e si scaldano al raggio. Ascolto il silenzio del cielo lontano da ogni mito e da ogni dio, assente dei segni dell’uomo. Nel bosco il passo si fa insidioso che non c’è nessuna traccia di sentiero, nemmeno le peste della lepre. Frano in basso in cerca della mulattiera e non la trovo, affondo nella neve fino al ginocchio, poi taglio per un prato tutto ghiaccio e arrivo alle case abbandonate della Selva. C’è uno scricchiolio di travi, cade qualche blocco di neve e un tetto spiomba a terra con un rumore che dilaga per la contrada vuota. Scarpono per un pendio ripido giù allo spiazzo dei quattro noci, dove da ragazzo venivo la sera con i fratelli. Mio padre e mia madre dicevano il rosario, noi non rispondevamo alle avemarie, scalciavamo i sassi e mio padre si arrabbiava. Non ho voglia di andare a casa, scendo a contrada Corna per un vallone fondo, gli spini degli agrifogli mi graffiano la faccia e le mani. Dai rami crolla un morto pettirosso, le ali rattrappite e le zampe. Non è più volo, né canto, né gioia delle piume, non è più pettirosso, ma un’orma rossa sulla neve, che lentamente affonda e dispare. Attraverso veloce la contrada per non incontrare nessuno, ma la Marì mi vede e viene vicino, mi leva la neve dal braccio quasi per carezza. è la coscritta di mia madre, come lei ha occhi di nuvola e un’aureola di capelli bianchi. “Se era bella tua madre” ! – sorride – “La bellezza le veniva da dentro”. – Mi viene il grumo allo stomaco. La Marì ancora mi pulisce la neve dal braccio e dice: “Devi stare contento, Ermelì, che tua madre è nel Signore.” – “Io, mia madre la volevo qui.” “Ognuno ha il suo giro come la luna e il sole. Anche gli uomini hanno il suo giro.” Smette di sorridere. “Ti benedico, Ermelì.” Mi arrampico alle Ca Quadre, entro nella cucina mentre il raggio del sole svanisce; la montagna splende blu, ma il cielo comincia a farsi di latte, una nuvola avanza verso il Fienile Alto, là che il sole cala. E’ la sedicesima ora. Prendo la scure e vado nel prato a spaccare i ceppi di frassino con fratello Luisio. Insieme spacchiamo un’iradiddio di tronchi, poi li catastiamo contro la siepe. Il cielo si è fatto completamente bianco, soffia il vento di nord, il sudore ghiaccia collo e la schiena, allora rientriamo. è Luisio che accende il camino, fa la fiamma alta e s’incanta a guardarla, poi mette sul fuoco la pentola per la minestra. Sfoglio la Bibbia, intanto mi si fa in testa la fantasia di mia madre; verso il tramonto stava alla finestra e sussurrava i Salmi a taglio delle labbra. La fantasia scompare, alla fiamma di carpine leggo la Sapienza: “E il nostro nome sarà col tempo dimenticato”. Mi viene furia nelle vene, che niente di niente declina e tutto è mutare della vita in altra vita, niente di noi è dimenticato, né l’ortica, né la polvere della mulattiera. “E nessuno si ricorderà più delle opere nostre”. Provo una collera fonda a queste parole, che io voglio esistere per sempre nell’erba e nella foglia, nella nuvola e nel vento. Ogni cosa è assunta nella memoria di Dio, perciò dura perenne il gesto di spaccare i frassini, così mia madre e quel suo sussurrare i Salmi. Luisio mette il lardo nella pentola, poi la patata intera e i sedani, intere le carote e la cipolla, riso e il sale, infine i cotechini freschi di cantina. è la diciottesima ora e mezza; fuori è sera opaca di nuvole, di tanto in tanto nel cielo delle Ca Quadre appare un aglio di luna. Nella cucina entrano fratello Franco con sua moglie e Lucia, la mia sposa, pallida di gelo. Sediamo a tavola e mangiamo la minestra con le verdure intere, un cotechino per ognuno, il riso nel brodo grasso. Franco ha palpebre serene, la Lucia conta storie di paese, parliamo della sera gelida e che va a nevicare, poi facciamo pausa lunga e ci viene in mente la madre che la neve la immelanconiva, desiderava il sole e il chiaro dell’estate che le notti non sono notti e la luce non declina. Franco fa il rosario, conta le avemarie con le dita, un po’ lo seguo, un po’ no. Nella mente mi torna l’alba che c’era il silenzio della morte uguale a nessun altro silenzio, che mia madre era spirata e pareva ancora respirare, che la tempia pareva battere, il nostro fiato era fermo e le nostre palpebre, il silenzio c’incantava e c’incantava la morte e Franco disse toccando la mano della madre: “Sei davanti a Dio.” Stiamo senza parlare intorno al camino finché si fa notte. Resto solo nella cucina a spegnere le braci; ho ancora il grumo allo stomaco, che mia madre la pensavo eterna, sento la pena dell’amore sbagliato, il rimorso della carezza che mi vietai per pudore. Le braci si sono spente, il freddo dà i brividi alla pelle; fuori comincia a nevicare con levità, la neve viene giù estrosa e pare fiore di ciliegio e pare luna. In testa mi brucano le parole della madre che, nel pausare della malattia, mi guardò fisso mormorando: “Ho voglia di pane e di andare alla messa”. Sorrise appena come quando stava seduta sotto il tiglio alla primavera delle farfalle. Quel riso, che mi fermenta alla memoria, mi libera dall’ossessione di morte. Nella notte delle Ca Quadre la fiabo con estro di figlio, le faccio la ninna nanna e le conto il tempo eterno che il cielo non passa e non passa la stella sopra le betulle e lei levita nella luce di neve e non tramonta.