Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Prima Edizione – 1995
Carlo Amadei
Trent’anni fa
All’inizio dell’estate, di tanto in tanto, telefonavo ad Anna Grazia. Anche durante il mese di luglio, subito dopo la fine della scuola, ci eravamo visti qualche volta nella noia della città semideserta con l’afa che mozzava il respiro. Quegli incontri erano poi durati per tutto il resto dell’estate.
Non provavo nulla per Anna Grazia, la frequentavo solo perché mi faceva comodo avere una ragazza con cui uscire di tanto in tanto.
Ci eravamo scambiati talvolta qualche fuggevole carezza e qualche bacio. Tutto lì. Anna Grazia era una ragazza semplice, incapace di complicare una situazione, sempre sorridente, quieta e disponibile, apparentemente non mostrava mai alcun turbamento come se non avesse un’anima dentro di sé.
Quando stavamo insieme sopportava in silenzio le mie malinconie improvvise e le mie sfuriate impotenti con dolcezza disarmante, quasi materna. Me ne veniva una sensazione di colpa che poi finivo per scaricare su di lei con insolenza.
In settembre ottenni un lavoro di manovale presso un grande magazzino. Nelle ore di libertà ero quasi sempre stanco e stavo a dormire o rimanevo in casa a ruminare la mia solitudine ostinata anziché sopportare la grigia compagnia degli altri. In autunno inoltrato telefonai ad Anna Grazia e le proposi di rivederci. Comprai dei fiori ed andai a prenderla sotto casa. Mi avvolse in un sorriso di riconoscenza per quei poveri fiori che le offrivo. Per la prima volta mi parlò di sé, dei suoi progetti immediati, di quanto si aspettava dalla vita, un impiego che sarebbe dovuto arrivare da lì a poco, ora che era riuscita a conquistare il diploma, poi l’amore ed infine una famiglia tutta sua.
La noia mi stava addosso come un vestito troppo stretto.
Fingevo di ascoltarla, con la mente rivolta altrove, aspettando che terminasse di mangiare, troppo lentamente, la sua pizza.
Fumavo una sigaretta dopo l’altra, rimproverandomi nell’intimo di aver cercato quell’incontro, mentre faticavo per nascondere il mio disinteresse. Sotto casa sua indugiammo nel tepore dell’auto in qualche carezza furtiva. Ad un tratto la baciai come si bacia una donna che si desidera. Sul suo volto improvvisamente avvampato si leggevano i segni di una nascente euforia. L’indomani ruminai tutto il mio malumore, odiandomi per essermi lasciato andare. Qualche sera dopo, uscendo dal lavoro, la trovai ad attendermi, felice come una bambina per avermi fatto una sorpresa. Tacevo con disappunto.
Anna Grazia parlava di continuo e sembrava in preda ad una incontrollabile eccitazione. Ci appartammo dentro una stradetta buia e deserta. Aveva una luce speciale negli occhi, io tacevo ostinatamente. Quando fummo troppo vicini, accadde quello che non avrei voluto. Mentre le mie mani si muovevano impazienti sulla sua pelle tesa e solida, quel suo abbandono mi procurava una inspiegabile rabbia intima e dolorosa. Si lasciò spogliare come un pacco postale, abbandonandosi con gli occhi chiusi a gemiti e trasalimenti, mentre introduceva la piccola mano nella patta dei miei pantaloni. Così in cambio, per momentanea incertezza, le promisi la vita ed il mondo intero. Appena la ritrasse sporca, mi parve che i suoi occhi azzurri non avessero più la solita purezza. Ci lasciammo tra complicità e vergogna.
Cominciammo da allora a vederci ogni sera e sempre in silenzio ci scambiavamo effusioni sempre più azzardate e puntualmente io, al culmine del mio piacere, le giuravo amore eterno, mentre pensavo che il giorno dopo avrei fatto in modo di non rivederla più.
Ogni volta mi dicevo che avrei dato un taglio a quella storia, ma poi me ne mancava la volontà e continuavo ad indugiare sui soliti giochetti nel tiepido afrore dell’auto, senza amore, con l’ansia del proibito e la curiosità del vedere sin dove potessi arrivare.
Nei momenti di abbandono mi compenetravo nella parte con tale rigoroso puntiglio che a volte mi pareva che dietro quegli abbandoni vi fosse un sentimento vero.
Eppure, quando con gli occhi chiusi, mordendosi le labbra si abbandonava all’ultimo sussulto, per il piacere che le mie mani impudiche le procuravano esplorando le sue intimità, dal modo con cui si scomponeva con il corpo, offrendosi senza riserve, nasceva prepotente in me la voglia di strozzarla. Quell’inganno andò avanti per tutto l’inverno. Coinvolta completamente, mi offrì quello che rimaneva della sua verginità, proprio quando io pensavo di liberarmi di lei senza che la mia coscienza avesse troppo da ridire. Sentivo comunque che eravamo oramai all’epilogo di quella storia, ma ciò che c’era nel finale mi attraeva. Quel corpo agile e flessuoso che non attendeva che di consegnarsi. Il pulsare dei seni, la tensione del ventre che avvertivo sotto la stoffa dei vestiti non mi davano pace, anche se un’ombra si frapponeva ed avvelenava l’ansia piacevole di quell’attesa.
Salimmo le scale di una pensione maleodorante, per la verità entrambi turbati, temendo di tutto e di tutti. Dio sa che me ne sarei volentieri tornato indietro piuttosto che sopportare lo sguardo ammiccante di quella troia di pensionante mentre ritirava i documenti. Ci chiudemmo la porta alle spalle, affannati come dopo una lunga corsa. Mentre osservavo lo squallore della stanza senza prendere iniziative, Anna Grazia cominciò a spogliarsi con troppa fretta. Aveva un’aria infelice e spaventata. Forse non era proprio così che aveva sognato quell’avvenimento nelle sue fantasie di fanciulla, ma oramai non avrebbe potuto tornare indietro, trattenuta dal miraggio di quell’inganno.
L’osservavo in silenzio togliersi gli indumenti, mentre il mio sangue cominciava a mescolarsi nelle vene. La presi tra le braccia. Capivo che ora si sentiva più sicura. Ci baciammo a lungo, poi la lasciai scivolare sul letto, come avevo visto fare al cinema. Così nuda e raccolta sembrava più bella e desiderabile. Le carezzavo i seni teneri e lisci come la seta. Allora, trasalendo, riversò il corpo all’indietro offrendomi la bocca, come pervasa da un desiderio incontenibile. Era soltanto suggestione. Voleva sembrare una donna e tremava come una bambina.
Mi dividevo tra la voglia e la vergogna. Mi distesi sopra di lei con tutto il mio corpo, le afferrai il volto affondando le mani tra i capelli, anche questo era un preliminare preso in prestito dal cinema. Fu in quell’attimo di finta tenerezza che incontrai il suo sguardo, quello di una bestia avviata al macello, anche se la sua pelle scottava per l’eccitazione.
Più di tutti mi ferì quella certa luce di incertezza che aveva nei limpidi occhi azzurri. Mi sollevai di scatto lasciandola come si lascia un ferro rovente. Le dissi che non potevo, che proprio non potevo!
“Io non ti voglio, non ti ho mai voluta” le dissi, ben sapendo che era la cosa più infame che potessi farle.
Attesi in silenzio una risposta qualunque che non venne; continuava a fissarmi con quell’espressione incredula come si aspettasse che dicessi che stavo scherzando.
“Perdonami” le sussurrai tra i denti mentre raccattavo la giacca, vergognandomi di chiederle perdono.
L’ultima cosa che vidi furono le rosee natiche impudicamente scoperte mentre era riversa a singhiozzare sul cuscino. Sembrava improvvisamente più vecchia.
Sono passati ormai troppi anni da quel pomeriggio. Non ho più saputo nulla di Anna Grazia. Ho i capelli quasi tutti bianchi e la vita è trascorsa quasi tutta sorprendentemente.
L’altra sera, entrando in un bar, ho avuto un attimo di smarrimento.
Dietro la cassa, Anna Grazia sembrava stesse lì ad attendermi sin da quel lontano pomeriggio.
Il volto ed il corpo disfatti dal tempo, aveva conservato negli occhi quella luce cobalto che di lei più di tutto ricordavo. Mi ha riconosciuto subito e mi ha sorriso con malinconia, senza sorprese.
Dopo lo stupore iniziale, ora, provavo solo imbarazzo, mentre nella mente le immagini prendevano a scorrere lentamente all’indietro.
– “Come stai ?” – le chiesi cercando di placare il tumulto che avevo nel petto.
– “Ho un figlio che è sposato ed ha già una bambina” -.
La gola secca mi impediva di replicare. Feci uno stupido segno di assenso con il capo, mentre tentavo invano di sorridere, per darmi un contegno. Mi allontanai verso il banco. Soffrivo adesso per quello sguardo azzurro che sentivo penetrarmi la schiena. Mandai giù quel caffè come fosse veleno.
Andando verso l’uscita le feci un cenno con la mano ed un leggero inchino con la testa. Mi rimandò quel suo sorriso disarmante di sempre. In quell’attimo mi sembrò ancora bella.
Per caso sollevai lo sguardo contro i vetri della porta e vidi riflessa la mia immagine. Provai una gran pena. Distolsi lo sguardo con forza e mi allontanai.
Il sangue appesantito rendeva incerto il mio passo.