Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Prima Edizione – 1995
Primo premio
Ivan Cotroneo
Prova scritta
“Il candidato esamini la figura del Manzoni e della sua opera più importante in relazione allo sviluppo del romanzo storico in Italia e in Europa.”
Svolgimento.
A colorare.
A colorare il tempo ci avevo provato. A lasciarlo passare sopra di noi piano, a farcelo morire addosso. Quando eravamo due.
Era il freddo.
Era ancora inverno, ed era il freddo a tenerci uniti insieme nella classe troppo grande, e teneva insieme anche me e i miei pezzetti confusi. Io, che non parlavo mai con nessuno, vi sentivo quando parlavate di me. Era naturale, tutti insieme da quattro anni e poi io, da fuori, dal nord, anche se da poche centinaia di chilometri. Parlavate di me e mi guardavate dentro cercando di indovinare cose nello spessore giallo degli occhiali.
Cose che non dicevo, era ancora inverno.
Non lo so perché ti interessasti a me, che ti avevo giudicato male da quando ti avevo vista per la prima volta, pullover grigio e minigonna a pieghe. Ti avevo giudicato male cercando di non guardarvi, te, il pullover grigio e le pieghe della minigonna. Ti avevo riconosciuto subito, la più carina della scuola, quella che i diciassette anni sembrano già un libro di bei ricordi mentre ancora ci sei dentro. E non potevo fare a meno di pensarti quando ero solo. E quando finalmente c’eri, lasciavo che i miei occhi si muovessero intorno a te, ai tuoi vestiti e alle tue arie, e che le ore, le mie, passassero insieme al vuoto del miei sguardi che ti giudicavano e non potevano fare altro che assolverti sempre.
Ti interessasti a me come ad un giocattolo curioso, con gli occhiali e un po’ sgraziato. Una cosa che si muoveva con movimenti diversi dagli altri. Un giocattolo così non lo avevi mai avuto. Subito avrei voluto evitarti e fuggire e scappare, mentre sentivo che piano mi entravi dentro e mi chiudevi dove non sarei più uscito. E invece già ti parlavo, diventavo stupido nelle parole che ti rivolgevo e che cercavo di creare a immagine tua, per essere sicuro che ti piacessero. E mi giravo e rigiravo le frasi che mi regalavi e l’amara benevolenza con cui me le concedevi. E vedevo, vedevo quando davanti agli altri mi ignoravi, o lasciavi capire che per te ero niente, meno di niente. Meno di me.
Quella volta che facemmo l’amore… non li conosci tu, i discorsi, e le paure. Per me era la prima volta. Ma tu non puoi capire, tu che hai sempre avuto tutto, che ti sei presa tutto e me.
Ti seguivo, dopo, anche quando stavi con gli altri, e quando non ero io che ti vedevo, ti sentivo comunque addosso altri odori. Avrei voluto essere io tutti e riempirti da solo. O restare dentro di te e dividere anche i tuoi tradimenti.
Che non mi sarei mai liberato di te l’ho capito quando mi sono scoperto felice anche di essere trattato male, felice anche del piede che mi calpestava, felice anche che tu andassi a letto con gli altri.
In questa città dove non parlavo con nessuno se non parlavo con te.
Era colpa di nessuno, solo mia, non di mio padre che mi aveva portato qui dopo la morte di mia madre, non degli altri che non mi rivolgevano la parola, non del pomeriggio che finiva mentre ancora studiavo, non delle luci al neon della mia casa, e delle pareti troppo bianche. Tu, però, sapevi e sapevi, sapevi sempre. Che c’ero, a casa di Paola, che c’ero anch’io dietro la porta del bagno in cui ti eri chiusa con lui. Te lo dissi, e ti parlai, e ancora volevo che capissi che di te amavo anche la mano che mi feriva e che sul mio orgoglio, su quello, ero pronto a sputare, a vomitare, a pisciare, a salire per fare un salto e ricadere giù tra le tue braccia magre d’affetto.
Perché allora, non mi volesti parlare più? Perché mi hai gettato addosso giornate di lacrime?
lo non sapevo com’era prima che tu ci fossi, prima che tu esistessi dentro di me, e non mi mancava prima quello che non avevo mai conosciuto.
E cose che non sai, feste senza amici, sere senza nessuno, volere telefonare senza sapere a chi.
Finirono anche quei giorni e forse fu già allora, fu con loro, che finii anch’io.
Ricominciasti a salutarmi, ti ricordi? Era maggio. Tra poco ci sarebbe stata la maturità e allora pensavi che si poteva studiare insieme per un po’. E io sì, sì, sì, e sai, ti avrei coperto di non so cosa, per ringraziarti di avermi voluto di nuovo con te. Sì.
Cominciasti a parlarmi degli altri, ora che come dicevi troppe volte, avevo finalmente capito che quella cosa fra di noi non aveva contato niente. Niente. Niente. E poi, per come era andata, per come io…
E forse eri ritornata proprio per quello, perché io sapessi, perché vedessi muoversi la tua voce che mi raccontava degli altri, di quegli altri che non sarei stato mai. E ti bevevo e impazzivo di gelosia e tu ridevi divertita e forse anch’io ti sembravo contento mentre ridevo e ridevo e ridevo, e tu parlavi e io mi guardavo dentro e ti sentivo forte venire fuori da quel fango in cui ti rotolavi, senza riuscire neanche per un momento a considerarti una puttana. Mi tormentavi e lo sapevi, mi guardavi e controllavi le reazioni del tuo giocattolo, i sussulti quando raccontavi certi particolari e i movimenti e le mezze frasi.
Quanto poteva durare? Ormai la maturità era vicina, e l’estate.
Il gioco sarebbe finito e non mi avresti tormentato più.
Ti avrei perso.
E tu allegramente avresti continuato a ridere nella tua vita, come avevi fatto tante volte seduta sulla poltroncina di vimini della mia stanza, a ridere del tuo giocattolo con gli occhiali con cui passavi pomeriggi a raccontare cose e cose, tutte più belle e più grandi di quelle che viveva lui. Sì, sarebbe finito così, lo sai anche tu.
E quando te l’ho chiesto, ieri, non l’hai negato e mi hai sorriso ancora.
Piano, schiudendo la bocca come un grosso fiore di carne.
E il tuo giocattolo si è rotto in tanti pezzi, tu urlavi e mi pregavi di no, di stare fermo, io guardavo i pezzi della mia mente che si dividevano nella stanza e scorrevano in tutti gli angoli, li riempivano e ti facevano uscire da me per sempre. E adesso ti scrivo queste cose, mentre intorno tutti gli altri riempiono e riempiono i fogli del loro tema, e qui tutti si chiedono della tua assenza alla prima prova. Eccoli, tutti i nostri amici, piegati sui banchi a rincorrere cose. Che ne sanno, loro.
Adesso consegno questi fogli. Mi alzo e li porto alla commissione.
Torno a casa, accanto alla poltroncina di vimini, torno.
E ti prenderò la mano, guardandoti negli occhi che ti ho lasciato ancora aperti e che non ti chiuderò. Non ancora.
Mi inginocchierò davanti a te e ti terrò la mano e te la riscalderò, mentre aspettiamo insieme che vengano a prendermi. E poggerò la testa sul tuo ventre che mi ha accolto.
Ti odorerò il vestito, bacerò il tuo sangue scuro.
Poi busseranno alla porta e mi alzerò senza fretta.
Busseranno ancora, e stavolta sarà più forte.
Allora ti chiuderò gli occhi con la punta delle dita, piano, tu smetterti di guardarmi e io finalmente potrò andare ad aprire.