Narrativa -Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Prima Edizione – 1995
Laura Anzilotti
Commiato
Tirò la porta, pian piano come se non volesse che la casa si risvegliasse. La tirò a sé premendo la maniglia di bronzo: era un piccolo gioiello, ma non volle attardarsi a guardarlo. Il sommesso clic della serratura che si chiudeva le dette un colpo al cuore: dietro quella porta lasciava la sua giovinezza, i suoi sogni, tutta la sua vita. Li lasciava in custodia fra quelle mura deserte che erano testimoni di giorni lieti, tristi, tutti i giorni di una vita.
Scese i due gradini che portavano in giardino. La bambina, quando era da lei, andava su quei gradini a godersi il sole della primavera e intanto, giocava con il gatto del contadino e si raccontava delle storie che nascevano nel suo cervellino di bimba. S’inoltrò nel giardino e si guardò intorno: non c’erano più fiori, ma la rosellina piantata dal nonno non aveva risentito dell’incuria degli ultimi tempi, e c’erano due o tre fiori che aprivano al sole d’autunno i loro petali di un delicato colore rosato e che emanavano un poco di odore. E c’era la piccola pergola con ancora pochi grappoli sfuggiti alla fame degli uccelli e c’era il prato arruffato ma verde come uno smeraldo e il grande cedro del Libano e la siepe di bosso. Pareva che quelle piante non volessero morire, resistevano all’abbandono, disordinatamente, ma vive. Si avvicinò al cancelletto che immetteva nei campi: era rosso di ruggine e la Madonnina murata su uno dei pilastri sorrideva a quel giardino abbandonato. Con fatica aprì il cancello che dava sulla strada, i cardini cigolarono ed era come un singhiozzo. Entrò nella strada: quante volte l’aveva percorsa, una stretta strada di campagna che si snodava fra due mari di ulivi. Era silenziosa, tranquilla, rari i passanti: contadini con cesti di verdure e di frutta, asinelli che camminavano sotto il peso del basto, un cane che abitava nella casa di un contadino. Poi silenzio ed odore di campagna. Camminava appoggiandosi al ciglio ricco di erbe e di piccoli fiori e ne sentiva il fresco e ne sentiva il profumo. C’era una gora che correva lungo la via, ma era asciutta, da più giorni non pioveva. Camminava come in sogno, poi si sentì chiamare: “Signora Marietta, è tornata?”
Era Gilda, la contadina, i cui campi confinavano con i suoi. Marietta non rispose, sorrise alla donna, non poteva dirle che era tornata per non tornare mai più. Sentì odore di forno acceso e domandò: “Fai il pane?” “Sì, vuole un poco di schiacciata? L’ho appena tolta dal forno; ora ci sono le pere, ne vuole qualcuna?” “Grazie, ma devo affrettarmi”.
“Grazie del profumo che emana dal tuo forno” avrebbe voluto dire, ma tacque, forse la donna non avrebbe compreso.
Riprese a camminare. Quando la bambina veniva da lei in campagna, quella passeggiata lungo la stretta stradina era la preferita della piccola e lei per accontentarla la conduceva rasente i cigli sotto gli ulivi. La bambina s’incantava scoprendo una miriade di fiorellini fra l’erba ed il muschio. Voleva sapere tutti i loro nomi. Marietta, che non li conosceva, lavorava di fantasia. Quando era la stagione dei ciclamini, era una gioia per la bambina: si arrampicava sui cigli e si chinava a raccoglierli. Ne faceva dei mazzi così grandi che le sue manine non riuscivano a tenerli, allora Marietta le aveva regalato un cestello e fino a quando non era colmo di fiori, non c’era verso di far decidere la bambina a finire la sua raccolta. Tornavano a casa. Marietta aveva trovato in un ripostiglio una quantità di barattoli e barattolini di vetro, li riempiva d’acqua e, con la bambina, vi disponeva i ciclamini. Ce n’erano dappertutto nella casa, fino in cucina sulla mensola che sovrastava il camino, nella stanza da pranzo sul grande buffet dal ripiano di marmo, sui davanzali delle finestre, sul cornicione del caminetto nel soggiorno e nelle camere sui cassettoni, sui tavolinetti. Quella profusione di fiori riempiva la casa di un profumo di bosco e di quell’ineffabile odore di campagna, di erba fresca, di terra, di mille effluvi che si fondono come in un coro le voci dei cantori. Ciclamini. Era la stagione più bella quella dei ciclamini per la bambina. Il sole tiepido, le giornate più brevi che, allungando la sera, facevano sentire tutta la quiete della casa che custodiva fra le sue mura affrescate l’intimità di quelle ore serene.
Marietta camminava pian piano, voleva che la strada non venisse mai a fine.
Pensava “Adesso la bambina è lontana; ha figli, un marito. Ricorderà ancora la ricerca di un fiore sconosciuto? Ricorderà ancora passo per passo la lunga via che sfocia nella provinciale e che da questa si stacca in cerca di pace e di solitudine? Sì, lo ricorderà anche se non ne parlerà, ne serberà il ricordo nel suo cuore.” Marietta mormorava fra sé. Andava avanti senza volgersi indietro; non voleva vedere allontanarsi la casa silenziosa, la lasciava dietro le spalle. Ma i ricordi no, non poteva evitarli. Ricordava il cipresso che si ergeva a custode della casa, quello avrebbe potuto vederlo per molto tempo ancora fin dalla provinciale e ancora da più lontano con il suo verde cupo che si stagliava contro il cielo fra il verde argenteo degli ulivi. No, non si sarebbe voltata a salutarlo come non avrebbe più salutato la casa, la siepe di bosso, il cedro del Libano. Non si voltò neppure quando udì uno scalpitio dietro le sue spalle: attese che il cane Fido le fosse accanto, si chinò, lo accarezzò sulla testa e proseguì accompagnata dal cane. Un carro trascinato da un asinello svogliato veniva su per la strada. Il contadino camminava accanto al carro su cui erano sistemate alcune damigiane ed un sacco. Svogliato l’uomo, svogliato l’asinello. Il contadino veniva su pian piano con aria torva e si appoggiava al carro non occupandosi dell’asino che tanto, conosceva la via. Benché il carro non fosse affatto grande, pure occupava tutta la larghezza della strada. Per lasciarlo passare, Marietta si appoggiò al ciglio. Sotto la stoffa del vestito sentiva il fresco umido della terra: era come sentirsi abbracciare in un abbraccio dolce e triste ad un tempo. Si sentiva stringere come fra due braccia, era il saluto della sua campagna, era il commiato dalla sua terra. Non si muoveva; lasciò che il carro proseguisse la sua strada. Non osava riprendere la strada, ma si doveva staccare da quel ciglio che emanava un profumo che mai avrebbe dimenticato. Restava ferma tra le braccia dell’erba e dei fiori. Il cane si fermò; la guardava, forse la capiva; capiva quanto sforzo le costasse staccarsi da lì. Il carro proseguiva su per la strada e il suo cigolio turbava il silenzio.
Marietta era immobile. L’umidità del terreno impregnava il suo abito, ma non le importava. Era così bello lasciarsi andare fra quelle braccia fresche, era così bello pensare di restare lì. Il carro ormai aveva svoltato e Marietta era sola con la sua terra. Era il commiato, un commiato terribilmente triste, un commiato pieno di lacrime, di sospiri. Si scosse. Era tardi, doveva riprendere la strada senza voltarsi. Avrebbe potuto intravedere ancora la casa fra gli ulivi, ma non voleva farlo. Voleva ricordarla accoccolata fra i grandi, vecchissimi ulivi, con le persiane chiuse alle quali batteva invano il sole.
Dietro quella persiana, la più illuminata dal sole, la più scaldata dal sole, c’era la sua stanza. Il cassettone di noce, la scrivania vicino alla finestra che faceva correre lo sguardo su un mare di ulivi fin laggiù dove la provinciale formava una cicatrice fra gli alberi. La luce inondava la stanza, il letto dal quale poteva vedere la distesa argentea degli ulivi, il letto con la coperta a grandi fiori. La sua stanza. Quanti ricordi di ore passate vicino a quella finestra che si apriva nell’uliveto, quanti notti piene di sogni. Ora dormiva la stanza un sonno da cui si sarebbe mai destata? Era stanca; eppure aveva tante volte percorso la stradetta e di corsa. Era un giuoco che piaceva alla bambina, correre giù per la via cercando di arrivare per prima allo sbocco con la provinciale. Lei non si affrettava proprio per far giungere prima la bambina che rideva: “Ho vinto io!”.
Sorrise ricordando. Era stanca, faceva fatica a camminare e ansava un poco. Il cane aveva adeguato il passo al suo e se si allontanava di poco si fermava per aspettarla. Marietta pensava guardando il cane: “Tu tornerai alla casa fra gli ulivi, io non tornerò.
È il mio commiato.
” Ma come era lunga la strada e dietro le sue spalle svaniva l’immagine della casa, del cipresso che da sempre ne era il custode. “Fino a quando il cipresso starà lì a guardia, anche la casa vivrà” pensò “Vivrà senza di me, ma nelle sue stanze rimarrà il mio ricordo, per sempre”.
Il cipresso. Si poteva vederlo anche dalla provinciale, ma lei non avrebbe alzato gli occhi a cercarlo.
Camminava trascinando i piedi. Alle spalle percepiva ancora il fresco dell’abbraccio dell’erba, della terra. Ormai pochi metri la dividevano dalla provinciale, un mezzo l’avrebbe portata lontano da quegli ulivi, da quella casa della sua infanzia, della sua giovinezza, della sua maturità . Lontana dalla sua vita, una vita che lasciava in custodia a quella terra, a quegli ulivi, a quel silenzio. Il cane le trotterellava vicino. Lo chiamò: “Fido, torna a casa!”.
La bestia la guardava con due occhi tristi supplichevoli. “Torna tu che puoi tornare!”. Come se avesse compreso, il cane si voltò e trotterellò su per la strada fra gli ulivi. Marietta avrebbe potuto seguirlo con gli occhi, ma non lo fece. Era stanca, di una stanchezza che non ricordava d’avere mai provato. Non la confortava la certezza che era ormai arrivata. La provinciale già si intravedeva alla fine della strada. Trovò un muretto basso e vi si sedé. Ancora non si vedeva la corriera che l’avrebbe portata via. Ma già ne sentiva il rumore. Ora si sarebbe fermata, l’avrebbe fatta salire. Quasi in sogno superò gli scalini che la portarono nell’interno della corriera. C’era libero un solo posto, subito dietro le spalle del conducente. Marietta sapeva che bastava alzare gli occhi per scorgere il cipresso, il ‘suo cipresso, ma non lo fece. Tenne fissi gli occhi sulle spalle dell’uomo che, ignaro, la portò via lontano.