Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Terza edizione – 1999

Terzo premio

Laura Furlan

Corvi di Vienna su sfondo veneziano

L’anno più faticoso dei suoi trent’anni stava per uscire di scena, lasciandola- Adagio assai – sullo sfondo di un pomeriggio veneziano. Il grigio mostrava le sue diverse gradazioni, ma lei non s’incupiva. Questo grigio era luminoso e non si frapponeva tra il percepibile e il percepito. In Austria, dove lei era finita per trascorrere una fase di vita, aveva sofferto un grigio senza luce, un grigio dalla “Stimmung” pesante. Aveva un senso rimanere in quella provincia, in una regione senza luce? Un apprendistato scientifico era ormai concluso, conclusa era una tesi su Carlo Michelstaedter e lei aveva troppo bisogno di luminosità. Il grigio veneziano le suggeriva di cercare la luce. Qualcuno la influenzava? Era stato Michelstaedter con la sua idea ossessiva di verità, con il suo “farsi fiamma da se stesso”? O forse era soltanto una legittima esigenza di aderire di nuovo ad uno sfondo lagunare, di navigare – Adagio – tra le isole dove era cresciuta, di respirare aria salata e … di rivedere i colori?
Da Klagenfurt a Grado. Da Grado a Vienna. E poi? Chi lo sa. Lei sapeva che qualcosa finiva, sapeva che l’anno finiva. Sapeva che anche alla fine di dicembre Venezia avrebbe saputo regalarle una tessera di vita.
Venezia, del resto, con lei era sempre stata chiara, trasparente, generosa. In determinati momenti lei sentiva il desiderio di andarci, ma era sempre la città a chiamarla, a fissare un appuntamento. Il luogo? Sempre diverso. Prima di arrivare lei si scopriva impaziente, sicura di venir sorpresa da quella parte non ancora conosciuta che la città aveva in programma di rivelarle. Venezia sa esser spiritosa. Conoscendo la sua simpatia per le maschere, non mancava di indossarne delle nuove, di nascondere il suo volto dietro innumerevoli altri volti, fischiettando un … Quasi allegretto.
La possibilità del trasferimento aveva sempre esercitato su di lei una forte attrazione. I carnevali della sua infanzia, che le fotografie raccontano, tradiscono una spontanea inclinazione per quello che in fondo altro non è se non il gioco più complesso della vita. Alla ragazza che andava al liceo era stato Pirandello a spiegare le regole del gioco. Le parlò di maschere, di inganni e verità, di un vivere che significa sopravvivere. Uno scherzo: Allegro vivace. L’idea di vivere una tragi-commedia in fondo non le dispiaceva. Decise di farlo. Partecipare, recitare, dirigere e… perché no? Guardare… per poi piangere o ridere.
Questa volta Venezia l’aspettava a Ca’ Rezzonico e lei avrebbe dovuto scorgerla e poi riconoscerla nello spirito di Giacomo Casanova. Lei percepiva quello spirito come un qualcosa di vivo che da un passato ricostruito nel presente vibrava nelle diverse atmosfere che le sale di un museo, attraversate al fianco di un compositore, riuscivano a suggerire. Casanova viaggiava, registrava e raccontava. Casanova sapeva vivere la vita. Aveva colto l’importanza del movimento, degli spostamenti, degli incontri e degli scontri con il diverso. Aveva capito che il fascino dell’esistenza consiste nelle continue modificazioni del processo di crescita. Casanova sapeva partecipare e recitare, sapeva guardare… per poi piangere o ridere.
Durante la visita al museo, la luce di piazza San Marco creata dai pennelli di un tempo si spegneva nei boschi degli scenari del Nord che l’illustre personaggio aveva attraversato. Alle pareti gli esterni brulicavano di gente che s’incontrava, comunicava e animava i primi piani di quei quadri tanto veri. Lui richiamava l’attenzione sugli interni e per lei era divertente immaginare quanto era accaduto, quanto accade nello spazio di una stanza: inviti… amori goduti e consumati… colazioni al cioccolato… Allegro molto. Più tardi in un piccolo bar nei pressi dell’Accademia fu ordinato un cioccolato caldo. Solo voglia di cioccolato? Può darsi. Voglia di cioccolato mista al desiderio di mantener vive le voglie della vita, le voglie che Casanova sapeva appagare. A questo lei pensava quando fu servito il cioccolato.
Venezia nei panni di Casanova: peccato non averli conosciuti prima. Ed ora? Il recupero… Presto. Bisognava saperne di più, fare un salto nelle vicenda ricreata di un amante della vita. Guardare, ascoltare, percepire, stupirsi… per poi piangere o ridere. Il ritmo? Si era dimenticata di chiedere al compositore il ritmo con cui lui aveva dato anima al suo Casanova. Con che ritmo avrebbe vissuto Casanova nella versione di chi crea con i toni? Andante? No, Presto. Lui era veloce.
E presto il compositore volle un cambio di scena. Era necessaria una pausa: bisognava produrre la neve e giocare con gli effetti di luce. Bisognava sporcare il grigio veneziano con tocchi di grigio opaco, il grigio dell’Austria che lei conosceva. Non molto tempo prima, proprio in Austria, lei e il compositore avevano accettato un ruolo in una commedia. La stessa. Avvenne per caso: un caos improvvisato. Un po’ di gente era stata chiamata ad esprimersi sul tema SPAZIO­SUONO­SPAZIO. Artisti, musicisti, letterati, docenti, carinziani, veneziani, veneti, giuliani e qualche viennese doc in aggiunta. Intellettuali? Alcuni sì. Un invito a partecipare, a recitare. Che cosa? Un atto unico grottesco. Grigio scuro. La luce concentrata solo in un angolo dove un pellegrino da New York aveva allineato in file parallele dei cappelli dai tanti colori. Sullo sfondo solo una bocca enorme. Si muoveva sempre, ma solo ogni tanto si ricordava di emettere dei suoni, di formulare delle parole. Una voce metallica. Avanguardia. A Casanova però la bocca non sarebbe piaciuta. Lui non l’avrebbe capita e molto probabilmente non l’avrebbe baciata. Il pubblico non aveva reagito, non era venuto. Lo avevano chiamato? Nessuno a guardare… per poi piangere o ridere. Lei mediava il pensiero di altri in una lingua che non era la sua, ma nella quale si era ormai abituata a pensare, alle volte persino a sentire… non ancora a sognare. Moderato. Il compositore non portava la maschera. Proponeva esperimenti passati. Lui era riuscito a far coincidere SUONO­SPAZIO­TEMPO. Per il compositore la sequenza, il ritmo dovevano essere rapidi, fluidi, pronti a passare dall’intensità alla stasi. Nella contemporaneità due era meglio di uno. Stereofonia. La voce di lei: una chiave interpretativa. Nella successione dei ritmi con cui lei sistemava le frasi ­ Presto ­ Andante amabile con moto ­ Allegro vivace ­ nei suoi toni qualcuno aveva voluto guardare per trovare alti e bassi e assenza di grigio. Nessuna maschera neanche per lei. Un modo di essere era stato definito. Monofonica per scherzo, Polifonica verso l’ignoto.
Il compositore non disapprovava quel ritmo di vivere di vita. Si ricordò di Beethoven e cercò di riproporre in pochi secondi la magia dell’Eroica. Si servì di un segmento. Un segmento per riassumere. Voleva che lei capisse. Non fu difficile. Per lei sapere di esistere significava realizzare le opposte emozioni di quel segmento. Michelstaedter aveva chiamato lo stesso segmento Persuasione. Nel segmento la morte era la vita e la vita era la morte… Nel segmento bruciava la fiamma del vero. Anche Michelstaedter sentiva la vita nell’Eroica e credeva in Beethoven. Beethoven era persuaso, Michelstaedter lo era, lei cercava di esserlo, e il compositore? Il compositore amava Beethoven. Mozart non lo aveva convinto. Nella musica di Mozart percepiva uno scarto tra arte e vita. Assenza di Persuasione.
Eppure Mozart sapeva farsi voler bene. Lei lo conosceva come Wolfi, bonariamente. Spesso quando non era in scena e si metteva a guardare… per poi piangere, Wolfi le faceva sentire qualcosa… Pa­Pa­Pa­Pa­geno… Una scappatoia. La faceva star meglio. Wolfi per lei aveva lo stesso gusto della vaniglia. Quel gusto le permetteva di recuperare il desiderio di non allontanarsi dalla scena. Lo stesso Wolfi, molto tempo prima, con il suo modo di fare un po’ ruffiano, era riuscito a farsi riabilitare dal compositore. A Vienna era stata la statua di Wolfi ad aspettarlo alla fermata dell’autobus dove aveva pensato di dover scendere. Quel povero Wolfi coperto di neve lo intenerì. Ascoltò in modo diverso le sue opere.
Il compositore aveva previsto di concedere nell’ultima scena delle battute al passato. Lei non sapeva. Decise di partecipare, di ascoltare, di guardare un ricordo che parlava di una Vienna percepita. Sullo sfondo: Venezia, alcune maschere, l’ombra sfumata di Casanova, i nostri passi decisi tra le calli… verso la stazione. Vienna lui non la conosceva. Non sapeva cosa fosse il grigio che lei respingeva. Vienna l’aveva vista di sfuggita recandosi ad un appuntamento. Fu un incontro d’occasione. Era mattina. L’atmosfera gelida. Il compositore parlava solamente di neve e di tanti corvi. I corvi di Vienna. Nessun Vogelfänger ad impedire che quegli uccelli contrastassero con l’immagine che di Vienna lei possedeva. Guardare… per poi ridere. Un mito distrutto? Può darsi. Lui lo stava facendo volentieri, collegando il suo racconto ad un’altra storia che in fondo non gli era mai piaciuta. La storia parlava di un leone attaccato da un’aquila.
E improvvisamente su Vienna scendevano i corvi ­ Adagio ­. Proprio sulla Vienna che Magris, quando lei s’iscrisse all’università, le aveva presentato, sulla stessa Vienna che lei aveva imparato a conoscere in ciò che di Vienna rimaneva a Trieste: nostalgia affogata nell’odore stantio di passato. I corvi nella Vienna di Hofmannsthal, dei circoli intellettuali, dei caffè… dei valzer! Quando lei si trasferì in Austria dovette imparare velocemente i passi di valzer. Es gehört dazu, le dicevano, e così lei cominciò a svolazzare ai balli dove il ritmo non era mai cambiato, dove il tempo si era fermato… un-due-tre…un-due-tre… . Ogni anno le debuttanti e i loro cavalieri continuavano a ripetere quei passi per l’evento del giovedì grasso: l’Opernball! E a Venezia si celebrava ancora un carnevale.
Vienna le fu mediata: anni di studio, letture appassionate, il mito asburgico, il sogno della Mitteleuropa – Bla bla bla -. E poi la presa diretta: il viaggio, la possibilità di frugare tra i resti della Secession. Jugendstil: lo preferiva a tutti gli altri, quel gusto dalla linea snella e veloce. La Moderne, l’epoca che lei poteva capire, il momento in cui soggetto e oggetto decisero di separarsi. Non si trovarono più. Solo Hundertwasser non fu in grado di persuaderla: Die Geradelinie ist gottlos, the straight line is godless… E la coerenza? E il segmento di Beethoven? Lei non avrebbe mai preso troppo sul serio Hundertwasser. A lei piaceva essere geradlinig. Anche Hundertwasser però faceva parte di Vienna. Per lei Vienna era tutto questo. Vienna nel grigio, Vienna nel giallo Schönbrunn. I corvi avevano ormai riempito la scena… Andante… Il racconto del compositore stava per finire. Il circuito delle associazioni di lei fu interrotto. Entrambi si misero a guardare. Si guardarono… per poi ridere… Allegro con brio… Alle risate divertite i corvi di Vienna si misero a volare. Erano tanti e gracchiavano, probabilmente ridevano… Allegro vivace… mentre lo sfondo veneziano le assorbiva, mentre il grigio diventava antracite, mentre il treno partiva e lei prendeva posto in uno scompartimento, portando con sê due maschere bianche di ceramica.

   

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