Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Terza edizione – 1999

Felice Martelli

La felicità del Gatto

A quarant’anni la mia vita scivolava via silenziosa, dentro una notte che intuivo soltanto. L’angoscia mi mangiava allora improvvisa l’aria in fondo a una strada o mi capitava dentro in un bar alla stazione. Mi svegliavo nell’incubo, fradicio di sudore e schiacciato da un lenzuolo. Il cuore diventava la fatica di vivere che colpiva le tempie. Improvvisa, uguale, remota eppure lì dietro la porta, oltre il muro giù in strada. Se ne andava lenta, con i minuti respirati in silenzio nel buio della stanza. Diventava giorno e rumore. Poi un giorno ho vinto all’Enalotto. Otto miliardi, la terza volta che giocavo. D’improvviso ero ricco nella mia stanza vuota in via Battisti. Mi vedo sul letto, il foglietto sottile tra le mani e gli occhi fissi dentro il soffitto bianco attorno al lume. Ricordo il silenzio, il mio silenzio sdraiato sul letto della stanza vuota, sento uno strano vuoto intorno ma in me non c’è stupore. Neppure il mattino dopo e nemmeno il giorno dopo e nemmeno dopo un mese, quando dei miliardi non avevo speso ancora una lira. Non un’auto, non un viaggio, neanche un vestito. I soldi erano fermi lì sul conto in banca, una presenza che sapevo intorno e mi sentivo dentro. Ma la mia vita era cambiata. La vita adesso era l’aria che scendeva piena nei polmoni la mattina, il passo leggero delle scarpe sul marciapiede sotto in strada, le voci allegre della gente nell’autobus verso l’ufficio. Mi capitava magari di smarrirmi nelle cose del giorno, mi perdevo al lavoro, seguivo un pensiero. Ma poi improvvisa una gioia infantile mi svegliava da tutto. Una vaga presenza, subito felicità cosciente: l’immagine di una ricevuta tra le mie mani nella stanza. La gioia era soprattutto un pensiero o un’idea, la possibilità di nuovo e diverso che mi aspettava lì dietro la via. Salivo sulla mia vecchia Torpado e la gioia era la catena stridente o lo sferragliare dei pignoni, la sofferenza del ferro che in ogni momento potevo lenire, il cigolio che diventava fruscio, il graffio che deragliava in carezza sulla lega leggera dell’Ultegra Shimano, la tecnologia al velluto che scivolava discreta sotto i vecchi pedali: bastava volerlo e comprarlo, il cambio Shimano. Bastava un assegno. Bastava tracciare una firma al Banco di Roma. Che io non tracciavo, felice come un gatto con le zampe sul topo. E la vita scorreva diversa anche dentro l’ufficio, adesso che nulla più era dovuto e tutto era solo l’inezia di una firma. Mi capitava di vedere la carta incepparsi nel trattore della stampante, schiacciavo il tasto dello stop e liberavo il foglio senza fretta, lo facevo scivolare tra i denti dei rulli e lo avviavo con un clic che risolveva tutto d’improvviso. Intorno tutto era distante, vedevo la mia mano attaccare il francobollo sulla busta e sentivo la mia voce tornare nell’orecchio non più mia. Ero diverso, e Senzani un giorno me lo gridò in faccia rosso di fatica e di rabbia, io fermo incantato di sogni davanti al computer. Lo guardai, sorrisi, alzai le spalle e tornai alla fattura dentro lo schermo. Ero diverso, in quella attesa certa di un futuro ora mio. Leggero, sicuro, potente e immortale. Godevo nel vestirmi degli stracci di prima, andavo a letto presto la sera, mi svegliavo all’ora di sempre al mattino. Ma avevo otto miliardi in banca tutti interi sul mio conto che tutti quanti mi sentivano dentro e intorno solo miei. Le donne, soprattutto. Che io un tempo temevo e schivavo e ora cercavo sicuro. Era forse il sorriso deciso, la voce più ferma, il passo leggero per strada e la mia mano su un viso. Sul viso di Lisa, una sera di giugno. Una sera d’estate a cena nel Torre. Ricordo il silenzio per strada, il rumore dei passi, il suo imbarazzo sulla mia porta di casa. La sua pelle bianca nel buio e la mattina, in un arrivederci, l’addio. E poi fu Silvia e l’amica di Lisa, l’insegnante e Verena, la Sandra, Martina, una storia e poi l’altra, quasi per sfida. Era bello allora sentire l’energia uscire da un sorriso e catturare la gente di fuori. Tutto mi sembrava irreale, lontano e vicino, era una vita virtuale. Alla vita reale mancava una firma. Che io non facevo, temendo l’attonita angoscia del gatto alla fine del topo. Poi tutto cambiò quando la vidi scendere una sera le scale di un bar. Mi passò accanto e lasciò una striscia sottile di profumo nell’aria. Ci tornai la sera dopo e ancora, finché la scorsi tra la gente e la seguii per i vicoli silenziosi di notte. Fino sotto le porte di un palazzo, dove sparì senza incontrare i miei occhi nella luce del lampione. Ci passai la sera e la mattina, poi un giorno da quelle porte la vidi uscire con un bambino per mano. Ma fu subito lontana sulla strada e i miei passi si spensero nella rincorsa di un secondo. Iniziò a prendersi il mio tempo e la mia mente, riempiva i miei occhi aperti sul soffitto bianco nella camera in via Battisti. Oppure la vedevo perso dentro lo schermo, oltre le fatture del computer nell’ufficio di Senzani. La conobbi sei mesi dopo, quando maggio era già il primo caldo dell’estate. Grazie a una parola di Michele, sbiadito mio compagno di liceo e suo collega di lavoro. Ricordo la mia angoscia stretta attorno alla sua mano che fugge via alla presa, carne troppo rapida e tiepida di cortese indifferenza. E la cena al lago, io anonimo ospite di un gruppo di amici in festa. E poi la sua risata, i suoi capelli, la luce sul suo collo. Ricordo le cene e poi gli incontri al caffè in piazza, sempre pieni di gente e di rumore. I miei vani tentativi di incontrarla e il desiderio di parlarle senza gli altri. Sentivo di scivolarle via indifferente e rimanevo senza fiato quando il suo saluto era davvero la fine di una sera. Il pensiero di lei diventava spesso un respiro più corto o la violenza di un ricordo. Ripensavo il giorno e le parole dette, immaginavo un domani forse diverso. Ma non c’era più la felicità a sorprendermi improvvisa e il mio passo lo sentivo di nuovo pesante sull’asfalto. Così un attimo sciolse un dubbio lungo un anno. Entrai in banca, feci la firma, ritirai i soldi ed uscii nell’aria fresca della strada. Alla gioielleria passai quella mattina stessa, acquistai l’anello e glielo feci recapitare senza nemmeno un biglietto. Poi andai a casa, mi sdraiai sul letto e negli occhi avevo le sue mani adesso decise sul pacchetto, le sue mani adesso forti, le sue mani nella carta, le sue mani dentro l’astuccio. Quelle mani altrimenti sempre tiepide e fuggenti, così lontane nelle cene sempre uguali al lago con Michele o in piazza con gli amici. Fu poi un accendino d’oro, la pelliccia pensata un mese davanti alla vetrina, il Fisher acquistato alla mostra di Colonia. Ogni giorno un regalo, anonimo e discreto, un pacchetto che io sapevo il giorno stesso lacerato e penetrato dalle sue mani adesso mie. E ai regali iniziai poi ad accompagnare anche i biglietti. Che tuttavia io non firmavo mai, temendo il suo rifiuto. Una poesia, il racconto di un sogno, le parole di un amore. Vivevo nell’illusione di un pensiero, vivevo delle sue mani nei miei occhi. Finché un giorno mi rimase soltanto l’illusione e non le mandai più nulla per un mese. Poi una notte le scrissi una lettera e un invito. La prima era finalmente anche il mio nome, il secondo l’ora e il luogo di una cena. Che io attesi come in trance e vuoto di energia. Pieno di domande che mi fermavano per strada. Immaginavo situazioni, provavo risposte, accettavo conclusioni. Trovavo tutto assurdo e allo stesso tempo facile e normale. Mi vedevo al tavolo da solo e poi al tavolo con lei. Temevo l’incontro e lo attendevo febbrilmente. Mi bruciava il pensiero di un’idea che diventava realtà. Mi sorpresi a sperare un appuntamento vano. Ma alle sette e mezza quella sera ero già dentro il parcheggio davanti al ristorante. Uscii dall’auto, feci pochi passi e mi misi in attesa dietro l’edicola all’incrocio. Faceva freddo e il mio pensiero tornava in testa sempre uguale. Lo spezzava ogni tanto solo la muta lancetta dei minuti, il passo di qualcuno che tornava all’auto nel piazzale. Finché alle otto e dieci lei arrivò davvero. Ne riconobbi la figura in fondo al viale. Si fermò davanti alle scale del palazzo. Fu solo un secondo: si volse verso l’ingresso, salì e poi scomparve nella luce del ristorante al primo piano. Allora io uscii dal quadro d’ombra dietro l’edicola. Feci quattro cinque passi oltre al buio. Cercai con lo sguardo in cima alle scale ma trovai solo il mio volto nella vetrina di un negozio. Mi arrestai in mezzo alla strada. Proseguii, mi arrestai di nuovo. Poi mi voltai lentamente e tornai all’auto. Misi in moto e uscii in fretta dal parcheggio. Sul parabrezza si erano schiacciate le ultime foglie morte dell’autunno. Le lacerò il primo colpo di tergicristallo, il secondo ne spazzò via i brandelli. Tra i rami nudi degli alberi, oltre il vetro, le mani di lei erano gli artigli del gatto nella carne immobile del topo.

   

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