Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Terza edizione – 1999
Alberto Di Santo
Senza più titolo
“Dio si manifesta all’uomo nella parola:
Egli è l’invisibile, ma non l’inudibile”.
Ricorderò sempre di Aldo Beikmann, mio professore d’italiano al liceo, l’aria assorta con la quale invitava gli studenti alla cattedra. Dopo aver rivolto la prima domanda, distoglieva lo sguardo rivolgendolo alla carta geografica appesa al muro alle nostre spalle. Poi sembrava come perdersi in spazi siderali, privi – immagino – di scuole, banchi e studenti. In seguito – senza per altro dare l’impressione di ascoltarci – cominciava a contrappuntare le sconnesse frasi dell’interrogato di turno con numeri pronunciati a mezza bocca, inudibili ai banchi più lontani: “28!”…”31″…”12″…”49″…e così via. Quella litania – ma lo venimmo a sapere solo più tardi, ormai diplomati – era il risultato della velocità impressionante con cui Beikmann contava il numero delle lettere che componevano le nostre frasi. Nel restituirci il valore puramente quantitativo dei concetti, finiva per privare di ogni significato i nostri sforzi di studenti. Un’altra delle sue manie consisteva nel fissare uno di noi senza rivolgergli parola. L’imbarazzo cresceva inevitabile, con il passare dei momenti. Quando la tensione sembrava ormai insostenibile, Beikmann chiamava il malcapitato con il primo nome che in quel momento gli fosse venuto in mente. Lo studente – che io ricordi, non avvenne mai diversamente – rispondeva in modo automatico, dando così il via alla dotta quanto ridicola esposizione del nostro mentore: “I nomi di battesimo non sono i nostri veri nomi, in quanto questi ultimi sono preesistenti alle persone che designano”. A tale proposito si presentava come un uomo estremamente discreto: “Sarà mio figlio stesso a trovare il suo nome, quando sarà grande”. Non sapevamo che fosse sterile. Ho solo un ultimo ricordo di questo uomo, ed è la frase, peraltro offensiva, con cui si congedò da noi l’ultimo giorno di scuola. Disse: “Non avete più bisogno della mia guida, ormai sapete strisciare da soli”. Poi l’oblio, lo perdemmo di vista e lo dimenticammo. Se il caso non avesse impresso una svolta al mio rapporto personale con Beikmann, sicuramente non starei qui a ricordare quest’uomo, tanto più che non nutro nostalgia né alcuna forma di affetto per il passato. Tuttavia è arrivato per me il momento di rendere nota, a coloro che la vorranno conoscere, l’assurda scoperta e la paradossale verità legate alla vita del professor Aldo Beikmann. Circa sei mesi fa l’ho incontrato per strada; per caso, come accade spesso in questa città di tre milioni di abitanti. Il bisogno di parlare, credo, con chiunque rappresentasse un tassello pur insignificante del suo passato, ha fatto sì che Beikmann mi rivelasse aspetti inediti della sua vita:” Mi chiamo Aldo Beikmann, sono nato a Ferrara il 14 dicembre 1911. Ho ricordo di me come un bambino biondiccio e fotofobico, bravo a scuola e molto attento. Mio padre, proprietario di una azienda tessile, era un uomo soddisfatto, favorito al di là di ogni aspettativa dall’autarchia e dalla guerra d’Africa (fabbricava un orlo colorato per le divise coloniali). Intorno al ’22 o ’23 (la memoria difetta ormai per quel riguarda i numeri), accompagnato dai miei genitori, andai a Roma in vacanza. Qui conobbi Lena, la figlia di una lontana cugina di mia madre. La bambina era più grande di me di qualche anno e non fu certo attirata da un moccioso in calzoni corti. Nondimeno è stato l’incontro fondamentale della mia vita. Circa 25 anni dopo, io e Lena ci siamo sposati. Lungo il viaggio di ritorno, lo sguardo perso nel paesaggio al di là del finestrino, compresi che ROMA-È- AMOR-E. Quel semplice e (allora non sapevo) conosciutissimo gioco di parole acquistò per me un significato straordinario, come se la Storia di Lena e Aldo fosse già stata, una volta per tutte, incisa nelle stelle. Dopo il liceo, mi iscrissi all’università. Nel ’33 conseguii la laurea in lettere e filosofia con una tesi sull’arte medievale tedesca. Nel ’38 la promulgazione delle leggi razziali bloccò la brillante carriera alla quale sembravo avviato (a 27 anni contavo già due importanti pubblicazioni, di fama europea), ma è solo verso la fine del ’43 che imboccai il tunnel. Dopo il “viaggio” nel treno merci, ricevo, tatuato sul braccio, un numero. Questa volta, a differenza di numerose altre occasioni, non vi scorgo magiche combinazioni del destino. Il secondo giorno di arrivo nel campo di Auschwitz, mi trovo di fronte a un ufficiale dalle doppie esse che rimane visibilmente stupito nel sentire il mio nome. Quell’uomo in divisa nera – me lo ricordo ancora molto bene – si mette a sciorinare in perfetto italiano i titoli dei miei lavori. Poi si avvicina, mi prende la mano stringendola e mi dice: “Professor Beikmann, sono veramente felice di conoscerla!”. In un momento mi ritrovai fuori dal tunnel, nella pace dell’Università di Berlino, dieci metri sotto le strade e i palazzi della città in fiamme. Insomma, per farla breve, ho passato due anni a leggere e a scrivere. In particolare lavorai a un saggio – unico, lo devo ammettere – sui rapporti tra arte e filosofia tedesca nel Medioevo. In quei due anni mi dedicai allo studio più di ogni altra persona in quell’inferno che era l’Europa. Quando sono tornato a casa, nel ’46, non c’era più nessuno dei miei amici o della mia famiglia. La maggior parte aveva perso la vita in quel luogo che io avevo appena sfiorato. Ero stordito, e trascorrevo la notte camminando per non ritrovarmi in casa da solo. Fu proprio durante quelle peregrinazioni notturne che capii di non essere più al mio posto su questa terra. Lungi dall’essere felice di averla scampata, pensai che mi avevano tolto la vita risparmiandomela. Nessuno mi ha mai accusato di collaborazionismo. Da parte mia, però, bruciai ogni ricordo materiale di quel periodo, libri e articoli compresi. Poi smisi di studiare, cominciai ad insegnare, sposai Lena. Pensavo di essere finalmente riuscito a dimenticare quando, nel ’60, vengono stampati in Germania tutti i miei lavori realizzati durante la dorata prigionia berlinese. Faccio causa alla casa editrice, ma perdo: nessuna legge è stata trasgredita. L’uomo dalle doppie esse è tornato da allora nella mia vita. L’ho sempre ritenuto responsabile di questo; lui, l’unico essere umano sulla terra provvisto di una tale fascinazione nei miei confronti da impormi questo tipo di rapporto. Polizia e Interpol hanno avviato ricerche partendo dalla casa editrice, ma del “benefattore”, dato per disperso dagli archivi di guerra tedeschi e americani, nessuna traccia. Nel ’66 l’ultima beffa: una prestigiosa università tedesca, sulla base dei miei lavori, ormai diffusi nel mondo accademico, mi invita a prendere possesso di una cattedra. È a questo punto che tento, senza riuscirci, il suicidio”. Giunto nella sua casa e salutata l’ormai vecchissima Lena, il professore ha cominciato a investirmi con una serie impressionante di giochi e di stranezze. Fantasticherie in cui i protagonisti sono assurdi santoni o filosofi alle prese con le parole. Mi disse che aveva conosciuto un uomo stanco della vita il quale, a questo proposito, aveva deciso di rinunciare completamente alle parole: “Il mondo smette di esistere se non lo nomini più”; un altro, invece, – continuava Beikmann – rispondeva solo per categorie binomiali, del tipo “Fa/Nonfa Freddo/Caldo Quidentro/Làfuori. Mi disse infine che i nomi sono un sistema per imbrigliare le cose, una sorta di appiglio per renderle a nostro vantaggio. Sapevo che Beikmann, nei suoi strani giochi con le lettere e i numeri in realtà scimmiottava (e con una forte dose di istrionismo) la tradizione dell’esoterismo ebraico medievale, secondo il quale le parole sono chiavi magiche che permettono di intervenire sul mondo, modificandolo a proprio piacimento. Ero dunque pronto ad ascoltare il resto del racconto della sua vita. Anche questa volta mi offrì un foglio stampato a macchina nel quale riportava quanto mi rivelava a voce: “Dopo il tentato suicidio mi sembrava di aver ritrovato una relativa tranquillità. Poi l’incubo è riapparso, nel 1970, anno in cui mi è capitato un fatto che ha dell’incredibile. Stavo vedendo alla televisione un documentario sull’architettura coloniale in Sudamerica. L’argomento mi era oltremodo noioso, ma rimanevo davanti al video per stare in compagnia di Lena che sembrava gradire quell’esposizione di kitsch d’oltre manica. Al che, per far passare il tempo, mi divertivo a guardare tutte quelle cose strane che rimangono, nonostante le attenzioni degli operatori, impresse dalla pellicola, come una scritta oscena sul muro, un tizio che si mette le dita nel naso. Ed ecco che, ai piedi di una cattedrale, una persona che attraversa la strada cattura la mia attenzione: bloccato per l’eternità in quei fotogrammi c’era il mio angelo persecutore. Ho condotto ricerche in Argentina per circa quindici anni, inutilmente, a quanto sembrava, finché, proprio mentre stavo per desistere, non ho trovato questa foto in un prestigioso circolo di golf di Buenos Aires”. A questo punto Beikmann mi mette tra le mani una foto che ritrae un vecchio avanti negli anni e piuttosto patetico nella sua veste di giocatore di golf. “L’ho trovato! – mi ha detto, e poi, dopo aver ricontrollato che quella faccia fosse ancora lì al suo posto, ha aggiunto – ora gli farò quello che lui ha fatto a me”. Due settimane fa Aldo Beikmann è morto in una clinica romana. Sono andato. La moglie mi ha dato una busta nella quale ho trovato un libro: “LA GERMANIA”, dello scrittore latino Tacito (la prima descrizione in assoluto della storia del popolo germanico e della sua terra) e poi un biglietto. Nel biglietto c’era scritto: “Caro giovanotto, l’impossibilità di portare a termine il mio personale piano di vendetta comporta che io agiti una diversa soluzione. Pertanto Le sarei grato se diffondesse l’inedito gioco di parole che ho potuto rintracciare dall’esame delle parole costituenti il titolo italiano di questo libro”. A questo punto ripresi in mano il volume e solo allora mi accorsi che il titolo “LAGERMANIA” era stranamente attaccato, come per un errore di stampa. A penna Beikmann aveva poi operato una cesura tra la prima e la seconda cinquina di lettere: insomma quello che veniva fuori era che LA GERMANIA è LÁGER MANÍA.
P.S.: Beikmann mi disse spesso che la trama delle lettere del Nome di Dio è qualcosa di più di una manciata di piccoli segni convenzionali: è non solo il Nome di Dio, ma anche la sua immagine. E come la parola è suono, così il suono è il corpo della parola, mentre il senso della parola è la luce che rischiara quel suono. Mi è sembrato per qualche istante di aver capito il significato di queste affermazioni, ma adesso, ad alcuni anni di distanza, il loro senso non mi è più così chiaro.
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