Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Terza edizione – 1999
Giorgio Venturi
Quel sabato di settembre
Era un sabato sera d’inizio settembre, fuori non era ancora buio sebbene il sole, quel sabato, non fosse mai riuscito a perforare il muro di nubi grigie che rendevano la giornata un po’ cupa e un po’ malinconica. Me lo ricordo bene quel sabato e mi ricordo così bene quando, tornato a casa dal giro con gli amici, mi misi a sedere sul divano davanti alla tivù in attesa di pensare a cosa prepararmi per cena dal momento che i miei genitori erano fuori città per il fine settimana. Farmi un caffelatte, oppure un panino? Dovevo anche ricordarmi di dare da mangiare al canarino, mia mamma me lo aveva ripetuto prima di partire. Mi raccomando, ricordati di Chicco. Eh già, non dovevo certo dimenticarmi. Dunque: il canarino, la mia cena, eppoi la doccia. Dovevo prepararmi anche la doccia, dopo la camminata del pomeriggio, nonostante il cielo grigio, c’era ancora afa nell’aria. Stavo pensando a tutte queste cose, sempre più stanco e assorto dai miei pensieri, quando il telefono, con il suo squillo invadente, mi riportò immediatamente a casa mia. Saranno i miei, pensai. Saranno i miei che chiamano per vedere se sono tornato a casa, se ho chiuso le finestre, se ho dato da mangiare al canarino. Ho 25 anni e ancora mi trattano come un bambino. Figlio unico. Non avrei mai voluto essere figlio unico. Troppe attenzioni. Attento a questo, attento a quello. Stai male, hai bisogno di qualcosa? Hai caldo? Hai freddo? Hai fame? Hai sete? Vestiti bene, mettiti un pullover la sera che è fresco, torna a casa presto. Ma insomma! Sono maggiorenne, ho 25 anni. Lavoro in banca, so badare a me stesso. Ancora uno squillo di quel telefono. Sì, arrivo. Un attimo solo. Ricordo, poi, del mio “pronto” quasi svogliato come uno che sa già a chi appartiene la voce dall’altra parte del filo. Sa già che cosa vuole, che cosa ha da dire. E invece mi sbagliavo. “Ciao Maurizio, sono Elena, come stai? È da un po’ che non ci sentiamo”. Riappariva, Elena, dopo un anno di silenzio. Dopo un anno che la nostra storia era finita. Dopo che io le avevo detto, forse anche un po’ troppo brutalmente, che non eravamo fatti l’uno per l’altro. Un anno di silenzio e adesso, quando meno me l’aspettavo, rieccola. Era stata una storia strana, quella con Elena. Ci siamo voluti bene quasi in clandestinità, nel senso che lei non voleva farsi vedere da nessuno. Era la mia ragazza virtuale che non usciva quasi mai di casa tanta era la vergogna iniziata quel giorno che la polizia venne a casa sua. La vergogna di vedere suo padre uscire prelevato dagli agenti che lo trascinavano via con le manette ai polsi. E poi la sua foto sui giornali. E quel nome che anche lei continuava a portare. Mi fece promettere, Elena, di non dire mai a nessuno il suo cognome. Doveva essere soltanto Elena. Elena e basta. Quel cognome era la sua vergogna. Ecco perché non voleva frequentare i miei amici, non potevamo mai uscire in compagnia, inevitabilmente le avrebbero chiesto come si chiamava e pronunciando quel cognome maledetto tutti avrebbero abbinato lei a suo padre. Era Elena e basta, e per me era sufficiente quello. Mi ero innamorato della sua semplicità, di quel viso dolcissimo incorniciato da una cascata di capelli neri che scendevano morbidi fino alle spalle. Ci eravamo conosciuti ad una festa di amici comuni. La notai subito in quel suo giubbotto rosso che se ne stava in disparte a bisbigliare solo con la sua amica. Avevo bevuto forse qualche birra di troppo, ero un po’ allegro e per questo mi decisi, dopo averla tenuta d’occhio tutta la serata, ad andare da lei chiedendole se potevo presentarmi. Forse anche lei mi aveva tenuto d’occhio tutta la serata e in cuor suo sperava che andassi, con qualche pretesto, da lei. Lo capii dalla sua occhiata decisa nei miei occhi. Ma alla fine della serata, nonostante la mia “allegria da birra”, non ebbi il coraggio di chiederle dove l’avrei potuta rivedere. Mi diedi più volte dello stupido, quando, a notte fonda rientrai a casa. Ma qualche giorno dopo fu lei a rintracciare me. M’apparve all’improvviso in banca. Io ero allo sportello occupato con un cliente, le vidi entrare e mi agitai. Il cliente continuava a parlarmi, io avevo in mano un pacco di banconote da contare che mi s’impigliavano tra le dita delle mani tremanti. Elena si mise in coda al mio sportello. Il cliente che stavo servendo continuava a chiedermi cose nuove e a me quei momenti parevano interminabili. Poi se ne andò. Lei si avvicinò, mi salutò con semplicità, chiedendomi se potevo uscire a bere un caffè. Fortunatamente dietro di lei non c’erano altri clienti e così potei uscire. Elena mi spiegò che tramite i comuni amici aveva saputo che lavoravo in quella banca e, visto che per altri motivi doveva venire proprio da quelle parti, era passata da me per chiedermi alcune cose su dei fondi comuni d’investimento. Ma fu evidente che quella delle informazioni sui fondi comuni era soltanto una scusa per mascherare il vero motivo della sua visita che ero soltanto io. Durante quel breve incontro al bar, infatti, non mi fece nessuna domanda lavorativa, ma parlammo semplicemente del più e del meno. “Allora, Maurizio, perché non ci vediamo? È da un po’ che non facciamo una bella chiacchierata? Dove eravamo rimasti? Perché non riprendiamo il discorso interrotto un anno fa?”. Elena, con la sua telefonata in quel sabato sera d’inizio settembre e con quella richiesta, mi prendeva in contropiede. Si confermava ancora una volta ragazza intraprendente, decisa e piena di iniziativa. Sorpreso com’ero, io non riuscì ad opporre alcun ostacolo alla sua richiesta. “Perché no? – le risposi – quando ti va bene?” “Guarda, la settimana che viene sono un po’ impegnata, facciamo per sabato prossimo nel pomeriggio?” “Si può fare – le dissi accettando la proposta – magari se fa bel tempo possiamo andare in piscina”. “Certo, quest’anno ci sono andata solo una volta in piscina. Va bene. Dai, ci sentiamo sabato mattina per definire e ci si vede nel pomeriggio. Ciao Maurizio”. E riattaccò. Restai con la cornetta alzata a mezz’aria per qualche secondo, o forse per qualche minuto, non lo so. In pochi istanti la mia vita stava cambiando. O almeno così pensavo. Conoscevo tanta gente, tanti amici, ma da quando la storia con Elena era finita, non avevo più avuto una ragazza. Tutti i miei amici, nel frattempo, ne avevano trovata una. Il fine settimana loro uscivano con la ragazza ed io mi sentivo spesso solo e in imbarazzo tra le coppiette. Sarebbe piaciuto anche a me avere una storia, ma non ne facevo un dramma. O, semplicemente, cercavo di non pensarci. Adesso, però, che si ripresentava la possibilità, non volevo perderla. Ma d’altra parte avevo anche i miei dubbi. Con Elena ci eravamo lasciati dopo le sue scenate di gelosia. Io amo la compagnia e gli amici. Lei non voleva che io frequentasi i miei amici, dovevo stare solo con lei. Sempre solo con lei. Lei e basta. Lei, i miei amici non voleva neppure conoscerli. La sua vergogna era diventata la sua fobia per la gente. Era possessiva, mi teneva legato come si lega un cane al guinzaglio. E ricordo quando alla fine, stufo, esasperato da questa storia, con lei fui anche scortese e la trattai forse anche un po’ troppo brutalmente. Fu proprio quel ricordo che fece nascere in me dei sensi di colpa: ero stato maleducato con lei e dovevo riparare. In fondo era una ragazza così sola e bisognosa d’affetto. Chiedeva solo quello ed io, in fin dei conti, non avevo mai smesso di volerle bene. Mi accorgevo, mentre facevo tra me e me queste riflessioni, che a lei ci tenevo ancora. E molto. La settimana che precedette quel fatidico sabato fu per me carica di emozione. Stavo per tornare ad avere una ragazza. Era chiaro che lei voleva riprendere la nostra storia da dove si era interrotta per incomprensioni e, in fondo, anch’io lo volevo. Se era stata lei a chiamarmi, che sapeva benissimo i motivi della nostra rottura, evidentemente, sapeva anche che doveva fare un piccolo passo verso le mie esigenze. Io ero disposto a farne uno verso le sue. Ero troppo felice, volevo esternare la mia gioia a qualcuno. Così lunedì in ufficio parlai di Elena e della sua telefonata a Paola. Paola lavorava assieme a me: non era una semplice collega, ma una ragazza con la quale era nata una amicizia profonda. Come amici ci volevamo bene e ci scambiavamo spesso opinioni e confessioni. Paola mi stette ad ascoltare; alla fine, però, invece di condividere il mio entusiasmo, mi gelò. “Maurizio, se con questa ragazza già ci sei stato e avete rotto per la sua possessività, vuol dire che non è la persona adatta a te”. Lei rimase scettica anche quando le spiegai più volte che Elena mi era sembrata cambiata. Che, prima di riprendere la storia, avevo intenzione di chiarire subito alcune cose, che volevo la mia libertà. “Sarà – mi rispose Paola – sarà, ma stai attento i caratteri non cambiano nel giro di dodici mesi”. Considerata la sua risposta non la ascoltai più di tanto. Il mio desiderio di avere, così come i miei amici, anch’io una ragazza, era più importante delle sue idee. Ero convinto che al novanta percento ci saremmo rimessi assieme e questa volta sarebbe durata a lungo. Quella settimana tornarono anche i miei genitori. Neppure loro sapevano nulla dell’esistenza di Elena. Neppure a loro lei mi aveva concesso di dire il suo cognome e così, anche l’anno precedente quando stavamo assieme, ai miei non dissi mai niente. Se l’avessi fatto mi avrebbero fatto un sacco di domande e se, costretto, avessi rivelato il suo nome e cognome, sicuramente mi avrebbero rimproverato. “Ma con tante ragazze, ma proprio con la figlia di quello lì dovevi andare a metterti? Per carità, lascia perdere, ci sono tante brave ragazze in circolazione”. La vigilia di quel fatidico sabato avevo dentro me una tempesta di emozioni. Da una parte ero tristissimo perché sul lavoro tutto stava andando maledettamente male, dall’altra, invece, ero eccitatissimo, entro 24 ore la mia vita sentimentale da single sarebbe mutata di colpo e non ne vedevo l’ora. E venne anche il giorno dell’appuntamento. La mattina ci sentimmo per telefono, chiamai io. Pioveva, quindi niente piscina. Decidemmo per un giro al lago. Dopo pranzo l’andai a prendere in auto. Quando la vidi uscire dal portone di casa il cuore mi balzò in gola. Era graziosa come la ricordavo, era così carina che immediatamente mi diedi dello stupido: ma come avevo fatto a mollarla? Dovevo essere proprio matto. Ci salutammo cordialmente come si salutano dei vecchi amici. La fissai negli occhi e vi lessi un vocabolario di parole. Passeggiammo tutto il pomeriggio in riva al lago. Mi disse che durante quei dodici mesi aveva pensato molto a me, che le ero mancato. Che voleva ricominciare daccapo. Ero disposto? Eccome se ero disposto, mi sentivo un mostro per come mi ero comportato con lei l’anno precedente, per come l’avevo trattata. Le dissi che volevo anch’io riprendere, ma lei, però, non doveva negarmi la libertà di frequentare anche i miei amici. Non volevo perdere i miei amici, tenevo tanto anche a loro, anche se in maniera diversa. “Non c’è nessun problema, Maurizio. Gli amici sono importanti, è giusto che tu li mantenga”. Allora era fatta. Stavo salendo al settimo cielo. Era fatta e io ero fatto dalla gioia. Dopo una lunga camminata, dopo un gelato e dopo tre, quattro, non ricordo più bene quante ore di parole, la riaccompagnai a casa. Quella sera, quel sabato sera, avevo un appuntamento con i miei amici. Invitai anche lei, ero orgoglioso di farmi vedere anch’io, finalmente, con la “mia” ragazza. Mi disse di sì, all’ora fissata si sarebbe fatta trovare puntuale all’appuntamento. Non mi pareva vero: in un anno tante cose erano cambiate, soprattutto lei. In piazza, luogo classico ed abituale d’appuntamento con gli amici, quella sera arrivai addirittura in anticipo. Se Elena fosse giunta prima non volevo farla aspettare. Gli amici arrivarono un po’ alla volta e un po’ alla volta l’orario fissato arrivò. E passò. Di Elena nessuna traccia. Allora la chiamai dal mio telefonino. Mi rispose direttamente lei, si scusava, non aveva voglia di uscire, semmai potevo andare io a casa sua. Ma come facevo, ero già d’accordo con gli amici! Fissammo, allora, per rivederci l’indomani. La sera successiva mi chiamò dicendomi che mi aspettava a casa. La andai a prendere, ma lei non volle uscire. Parlammo per un paio d’ore del più e del meno: del mio lavoro, dei suoi studi, delle prospettive professionali. Mi disse anche che alla fine della settimana sarebbe partita per il mare: due settimane, al paese dei suoi. Ci restavano cinque sere prima della sua partenza e dovevamo sfruttarle bene. Ma di quelle cinque, solo in un’occasione io riuscii a farle mettere il piede fuori di casa. Fu quando passeggiammo, abbracciati, per le vie del centro e io sentivo il suo braccio diventare teso ogni qualvolta qualcuno, per strada, mi salutava. Mi chiedeva chi fossero quelle persone che salutavo. Quella sera, sapendo che saremmo usciti, avevo anche fissato un appuntamento con i miei amici ai quali volevo presentare, con grande orgoglio, la mia ragazza. Ma questa fu solo una mia illusione. Infatti, non appena imboccammo la strada verso la piazza, ritrovo fissato, lei mi chiese dove fossimo diretti. Non mi dette neppure il tempo di spiegarle chi erano gli amici che avrei voluto presentarle che si svincolò dal mio braccio, mi puntò in fronte due occhi di ghiaccio dicendomi che non avrei dovuto permettermi di tenerle nascosto il fatto che avevo già fissato quell’appuntamento e che lei era stanchissima e non voleva venire. Cercai di calmarla, ma fu inutile e volle essere riaccompagnata immediatamente a casa. Cosa che feci. A malincuore. Ai miei amici, vedendomi poi arrivare da solo, dissi una mezza verità: che Elena non stava tanto bene ed aveva preferito starsene a casa. Andammo al solito bar. Mi divertii. Mi diverto con poco, io. Mi basta una buona compagnia. Tornando a casa mi trovai a fare un pensiero davvero curioso: mi ero divertito più con gli amici che assieme ad Elena. E quel pensiero mi suonava quasi come una sorta di campanello d’allarme. Sabato sera Elena partì per le ferie. Andai in stazione a salutarla. Le augurai una buona vacanza e lei mi promise di chiamarmi tutte le sere. E fu proprio quello che fece. Tutte le sere per chiedermi dov’ero, perché mai uscivo, con chi ero e che cosa stessi facendo. Voleva sapere tutto. Fu durante quelle due settimane che, improvvisamente, lei mi mancò. Mi mancava la sua presenza e quindi, proprio per questo, potevo frequentare i miei amici senza che lei mi tenesse il broncio. Sentivo di essere libero ed apprezzavo, improvvisamente quella libertà. Che cosa voleva dire? Lo capii quando fece ritorno, quello che voleva dire. Voleva dire essere tornato indietro di un anno. Credevo che tutto fosse cambiato, invece tutto si ripeteva uguale a prima. Ma fu una sera in particolare che capii quello che avrei dovuto fare. Me lo diceva Paola, in ufficio; “Maurizio, ci sei ricascato. Maurizio, ti vedo triste, è per Elena vero? Se devi limitare la tua libertà per lei, dai retta a me, lascia perdere”. Paola me lo ripeteva, ma io, abituato dai miei genitori che mi dicono sempre cosa fare e cosa non fare, volevo agire di testa mia. Sbagliare, magari, ma di testa mia. Ed è quello che feci. Elena rientrò dalle ferie con un brutto raffreddore che divenne influenza quando si espose alla temperatura autunnale della città. E così ogni sera andavo da lei per vedere come stava. Un venerdì sera andai da lei verso le otto, parlammo per circa un’ora poi la lasciai riposare. Uscito da casa di Elena raggiunsi i miei amici. C’era anche Paola e, dopo una sosta al bar e un giro in centro, finimmo la serata in discoteca fino all’alba. L’indomani restai a letto quasi fino a mezzogiorno. A svegliarmi fu mia madre che, entrando nella mia camera, con il mignolo e il pollice allungati vicino all’orecchio a mo’ di cornetta, mi fece segno che mi volevano al telefono. Era lei. Elena. Guarita, quasi miracolosamente. Ancora mezzo addormentato, lei mi svegliò di colpo urlandomi nei timpani che mi credeva una persona seria, che dopo la visita a casa sua avrei dovuto andarmene subito a letto e non a ballare in discoteca. Che non avrei dovuto essere tanto disonesto con lei, che questa cosa la si doveva chiarire subito. Mi presi qualche giorno per meditare sul da farsi. Lunedì raccontai a Paola della telefonata ricevuta. Qualcuno in discoteca mi aveva visto e glielo aveva riferito. E allora? Cosa c’era di male? Per Elena, evidentemente tutto. Per me, evidentemente, nulla. Anche per questo eravamo tanto distanti. Tanto diversi per restare assieme. Fu in quell’occasione che Paola mi prese per mano e, finito il nostro lavoro, m’invitò in gelateria. E mi parlò da amica. “Maurizio, lo so, non sono affari miei – mi disse subito mettendomi con le spalle al muro – ma la tua situazione mi sembra molto chiara. Sono preoccupata per te perché non ti vedo più sereno come una volta. Se tu vuoi una storia con una ragazza perché tutti i tuoi amici ce l’hanno e tu no, non è detto che debba sacrificare la tua libertà e rinunciare alle persone con le quali ti diverti. Devi trovare una ragazza con la quale ti senta a tuo agio, che ti faccia star meglio di come stai ora. Una ragazza che ti accetti soltanto per quello che sei e non per quello che lei vorrebbe che tu fossi. Una che non ti voglia condizionare la vita. Quella appartiene solo a te, scegli bene la persona con la quale iniziare una storia…”. La stetti ad ascoltare senza dire niente. Aveva ragione. Proprio su tutto. Ed io, probabilmente, avevo già preso la mia decisione. Ero così triste, ma allo stesso tempo, determinato e convinto. Quando mi rividi con Elena per discutere la questione, entrambi ci trovammo subito d’accordo. Eravamo nella stessa situazione di un anno prima. Ci avevamo provato, erano cambiati i tempi, forse le circostanze. Ma noi no. Ci lasciammo, dunque, così come ci eravamo rimessi assieme. E quando, dopo averla salutata, feci rientro a casa mi sentii leggero e felice proprio come quel sabato del nostro primo incontro. Avevo riacquistato la mia libertà anche se tutta quella situazione, vissuta in un solo mese, ma intensa dal punto di vista delle mie emozioni, mi aveva lasciato dentro un segno. Gioia e amarezza. Avevo sognato, risvegliandomi deluso perché la realtà non era così come nel mio sogno. Chissà oggi che fine ha fatto, Elena. Da allora sono mesi che non la vedo, Che non la sento. Resterò sempre amico suo, le vorrò sempre bene, ma di quella storia, di quelle due storie, non potrò mai dimenticare l’intensità, la dolcezza, ma anche il sacrificio e la delusione. Lei continuerà a restare chiusa in casa, a non uscire. Prigioniera più lei delle sue vergogne che suo padre delle sue malefatte. Continuerà a restare Elena, Elena e basta, per non rivelare mai a nessuno quel cognome che le ha cambiato la vita. E ancora adesso quando qualcuno mi chiede chi fosse mai quella Elena, io per non venire meno alla promessa fatta, io m’invento un cognome: Elena Sabato. Sabato come quel sabato sera d’inizio settembre quando due vite, due comete, per caso si sono incontrate e si sono scambiate la loro reciproca luce. Ma è stato un breve tragitto. Solo una folgorazione. Prima di immergersi, ancora una volta, nel buio della notte.