Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Terza edizione – 1999
Sandro Boato
Formiche
Una brezza leggera socchiude la porta della camera, un cinguettio sommesso giunge da lontano, una fessura di luce tenue s’affaccia, s’allarga, schiarisce appena un ventaglio di parete; adesso entra un parlottio indistinto, una voce inafferrabile, un’altra, un’altra ancora. Sollevo appena la testa dal cuscino, infastidito dalla sveglia inattesa, non mi rendo conto di quel che succede, Odile dorme tranquilla, i ragazzi sono fuori, chi mai può essere, come saranno entrati? Si spalanca la porta per un colpo d’aria, la luce viene dal piano-terra, si distinguono più chiaramente tre o quattro voci. Voglio scendere subito, sono ansioso di capire, ma devo prima vestirmi, senza far rumore e vedendoci a fatica … ecco la camicia, questa però non è mia, dove l’avrò appoggiata ieri sera? Ma quelli laggiù chi sono, cosa vogliono, cosa fanno in casa d’altri? Se fossero ladri non resterebbero a chiacchierare, sarebbero già spariti o ci avrebbero aggrediti … e questi jeans? Sono i miei, meno male, anche se mi secca presentarmi vestito così di fronte a quelli là. Ora provo a infilarmi anche i calzini, senza poter vedere il dritto o il rovescio, ma accidenti e le scarpe? Stanno nello sgabuzzino di sotto, mi tocca scendere in ciabatte, che figura! Ma di quale figura ti preoccupi, e loro che figura fanno, loro che occupano l’abitazione di sconosciuti, sì, di noi sconosciuti … a meno che non siano amici, uno scherzo notturno di amici? No, non è mica possibile, Carnevale è passato da un pezzo e la chiave di casa non l’abbiamo data a nessuno. Toh, la mia camicia finalmente, chissà se mi riesce d’abbottonarla, tremo come un cretino, che rabbia, e quelli stanno sempre là, parlano, ma di cosa parlano? Non saranno per caso immigrati arabi o esuli iugoslavi, senzacasa, venuti qui a reclamare lo spazio che abbiamo in più, ad accamparsi da noi non sapendo dove andare, sarebbe proprio un’occupazione in piena regola. Ma quale regola! Non siamo mica nel Sessantotto, eppoi si occupano le case sfitte, vuote, abbandonate, mica quelle abitate, e proprio la nostra poi, oh bella, che beffa … che buffo però, ti pare? Dunque sono quasi vestito, manca il maglione e magari l’eskimo, sì, per solidarietà con gli occupanti – testa de rava che no ti xe altro – come diceva il povero papà quando passavi il segno; ma adesso il segno non lo vuoi proprio passare, eh? Hai paura, dì la verità: su, anzi giù dalla scala devi andare, per farti vedere e sentire, capperi! Vengo vengo, cioè scendo, eccomi qua, ci sono, sto scendendo … mamma mia, quanta gente c’è, ne vedo una dozzina, uomini e donne, di età varia, ben vestiti direi, e sembrano locali, roba autoctona insomma, non di fuori, seduti in soggiorno, dove arriva la scala, e in cucina; confabulano a gruppetti, mangiucchiano, servendosi familiarmente delle provviste di casa. Mi avvicino a due amiche in conversazione, le saluto e mi presento, poi le invito caldamente ad alzarsi e a lasciar libera la mia abitazione, data anche l’ora notturna, ma sembrano non capire, mi guardano meravigliate e riprendono a chiacchierare tranquillamente. Allora mi rivolgo a un gruppetto, lì a fianco, che se la spassa ridendo, parlo amichevolmente, gesticolo con misura mostrando loro l’uscita, senza però alcun risultato. Vado verso l’ingresso e trattengo un giovane appena entrato, nonostante il portoncino sia chiuso, lui resiste però, vuole anzi aprire ad altri, glielo impedisco, mi evita destramente e va a sedersi a fianco di un tizio assorto in lettura, caso unico nella vivace compagnia notturna, tanto che per un momento credo di essere io stesso, rassegnato e propenso ad aspettare nonsoché, ma non sono io, infatti io sto qui, piuttosto lontano da quello e mi pizzico per esserne sicuro e sento male, mentre lui continua a leggere, imperturbabile. Avvicino altri due signori, in completo blu con farfalla gialla e sigaro, spento per fortuna, se no bisognerebbe dar aria subito al soggiorno – chi respira con quella roba puzzolente? ; invece loro non fumano, annusano ogni tanto il tabacco, tutt’e due insieme, come quei gemelli monozigoti, che si copiano e non capisci chi è la copia … ma a te cosa importa? Sono a casa tua, non ti salutano neanche, fanno i comodi loro, e tu dimentichi che devi farli uscire, come tutti gli altri. Sono disperato, mi rivolgo a una coppia di anziani, che stanno mangiando cioccolato fondente preso in cucina, e mentre cerco di comunicar loro il mio disappunto, sempre gentilmente, quelli si alzano ed escono dalla finestra chiusa, con agilità sorprendente, assottigliandosi come foglie. Intanto altre persone cercano di entrare, aprono la porta d’ingresso, io la richiudo a fatica, mentre viene spalancata la finestra e poi anche la porta-finestra, mi guardo intorno sgomento: la gente è raddoppiata e continua ad entrare. È come non ci fossi, è come non parlassi, sono frustrato e impotente, cerco di restare calmo, m’accosto alla scala senza parere, la risalgo lentamente, col timore di venire seguito, ma nessuno mi guarda, nessuno forse mi vede. Guardo la scena dall’alto, pare un animato salotto borghese o una prova di commedia, durante una pausa, mi sento addosso la febbre, accelero e rientro in camera, non so che fare, sono tentato di svegliare Odile ancora ignara, ma a che pro rovinarle la notte? Mi corico vestito e nonostante l’angoscia m’addormento. Ma l’incubo dell’occupazione riprende nel sonno, si ingigantisce, non mi dà requie, maledetta casa! Accendo la radio a basso volume, sono le ultime battuta di “Una notte su Monte Calvo”, le campane del mattino fanno dileguare gli spiriti del sabba, e suona pure la sveglia. A Odile, meravigliata della mia foggia, racconto confusamente quel che è successo, affrettandomi poi a scendere per verificarne il seguito: tutto è sottosopra a piano-terra, ma non c’è anima viva. È la trasmigrazione delle formiche – commenta lei – come sempre in primavera; tu cerchi di evitarle o di fermarle, ma loro attraversano inesorabili la casa, poi spariscono.