Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Terza edizione – 1999
Francesco Tassinari
Una strana nonna
Una giornata di sole mi fa pensare a un funerale: non parlo di una qualsiasi giornata di sole, ma di una giornata di sole vero, improvviso, atteso da tanto tempo, trasparente. Forse la cosa più importante non è tanto il sole, quanto la trasparenza. Nei funerali conta molto il tempo che fa. …Stava per morire mia nonna; era una persona così viva che era difficile credere che stesse per morire. Viva lo era ancora, ed era difficile pensare che fosse vicina alla morte. La nonna si preparava a questo evento da molto tempo, ma di nascosto, anche da se stessa. Un primo allarme era venuto da un piede che improvvisamente si era indebolito, gonfiandosi a tal punto da non entrare più nella scarpa. La nonna, però, non si era arresa, aveva comprato un paio di enormi pantofole e così continuava a sbrigare quei lavori e quegli impegni che aveva sempre sbrigato. A un certo punto arrivava Nicola, l’autista, e la nonna andava all’Istituto (era medico del lavoro), poi alla riunione della Società di Terapia Medica, poi a un consulto, poi faceva un salto (la nonna era d’origine polacca) dai suoi parenti polacchi che, secondo un tacito accordo che durava ormai da molti anni, non frequentavano la nostra famiglia, poi ritornava per pochi minuti a casa, dava disposizione per la cena del marito e tentava di decidere con grande titubanza se fosse il caso di andare ad un banchetto per festeggiare la dissertazione scientifica di un suo assistente. Era molto stanca (ed era più che vero) e non aveva voglia di andarci (il che non era del tutto vero). Infatti, in fondo, voleva andarci, ma era un desiderio che nascondeva persino a se stessa.. Alla fine usciva, perché prendeva sul serio e amava tutte le occasioni di riunione, aveva una passione per i segni di attenzione, per la patina d’onore e di rispetto: un rispetto che non viene obbligatoriamente dall’anima o dal cuore, ma che è dovuto alla forma, alla condizione sociale. Pertanto non poteva non uscire: il suo desiderio era più forte della stanchezza. Però tornava presto, assisteva soltanto alla parte solenne, che le piaceva in maniera commovente, poiché riusciva a riempire qualsiasi sia pur blanda falsità di un apparente senso. E così lei tornava presto perché, oltre che al piede, soffriva anche di diabete e al banchetto non poteva permettersi niente, eppure tornava quasi alticcia; i discorsi solenni le facevano l’effetto dello spumante: ringiovanita, rosea, felice, raccontava al marito come tutto fosse andato bene, quanto calorosa fosse stata l’atmosfera. Poco a poco si chiariva che le cose più belle le aveva dette lei… E in questi istanti, a guardarla in viso, sarebbe stato difficile credere che avesse settant’anni compiuti e che ci fosse questo piede; eppure questo piede c’era, bastava abbassare gli occhi per vederlo. E dopo avere raccontato ogni cosa, dopo aver servito una tisana al marito quando questi andava a letto, la nonna si riempiva una bacinella di acqua calda e se ne stava seduta a lungo con il piede a mollo, improvvisamente spenta, svuotata “come un sacco”, secondo la sua espressione. Rimaneva a lungo così, “come un sacco”, a guardare il suo piede che moriva. Era un grande medico. Adesso di medici così non se ne trovano più. Mi accorgo di usare una formula che sin dall’infanzia mi è sempre sembrata ridicola: sappiamo benissimo che tutto è sempre stato come adesso, uguale, non migliore. Non è che mia nonna guarisse tutti… Per quanto riguarda la medicina aveva meno illusioni che per tutto il resto. Riteneva non tanto che fosse possibile prestare aiuto a tutti, ma che fosse necessario. Sapeva bene, e non in base alla sua scienza, ma con un suo particolare senso, quando non c’era più niente da fare; ma nel caso in cui ci fosse anche una piccolissima speranza, si poteva essere sicuri che avrebbe fatto tutti il possibile. Proprio questa esigenza, questo imperativo era l’essenza dei “vecchi medici come non se ne trovano più adesso” dei quali era l’ultima rappresentante. E il tutto con una semplicità quasi provocatoria. Ad esempio, se qualcuno le dice: “Ho i nervi a pezzi, nonna, dammi qualcosa per i nervi…”, lei ti guarda freddamente e dice: “Cerca di controllarti, non esiste nessuna medicina per i nervi”. E invece un’altra volta, senza che tu chieda niente, improvvisamente ti mette in mano un certificato di malattia da presentare al lavoro: aveva visto che la sera prima eri stanco, un po’ depresso… era il caso che ti riposassi un po’. E se qualche perspicace intellettuale avesse tentato una formula razionale per il suo comportamento, lei non l’avrebbe capito: “Ma di che sta parlando?” avrebbe detto stringendosi nelle spalle. Come si trasforma quando entra nella stanza di un malato! Diventa un’altra, ecco tutto. Nulla di particolare, eccetto una grande serenità; non si avvertono né i settant’anni, né i malati pallidi, sudati, penosi che le alitano ogni giorno in faccia, né l’esperienza professionale o personale: neppure un’ombra della propria vita! Com’è brava a fare sfogare il malato! Com’è confortante la sua maniera di chiedere: “Fa molto male?”. In quel momento solo due persone sanno quanto duole: il malato e lei. Sono gli eletti del dolore. Dopo che lei se ne andata, il malato è quasi orgoglioso del proprio male, della sua sacralità. Non ho mai visto in vita mia una tale capacità di partecipazione. Alla facoltà di medicina non esiste un esame di “Partecipazione”. Ma mia nonna manifestava questa partecipazione all’istante e in quell’istante rinnegava la propria vecchiaia e il proprio dolore. Le era sufficiente girarsi a guardare la tua faccia e, se davvero eri malato, con la velocità della luce eri investito dalla sua partecipazione, consistente nel fatto che essa dimenticava completamente se stessa per concentrarsi completamente su di te. Questa straordinaria capacità, questa compassione allo stato puro, è diventata per me l’Essenza del medico. E nessuna nota falsa, niente di forzato, nessuna paroletta dolciastra. Sino alla fine dei suoi giorni aveva sempre portato la stessa pettinatura, quella che un tempo le stava bene. Evidentemente da ragazza l’aveva particolarmente colpita un complimento: che aveva dei bellissimi capelli, e questa convinzione l’accompagnò per mezzo secolo, e ogni mattina gonfiava le onde canute e le fissava in tre movimenti: in mezzo, un po’ più in basso, un po’ più in alto, e finalmente al centro e sempre allo stesso punto piantava un pettine di tartaruga. Erano molti abili quelle sue ormai incerte mani: un po’ più in su, un po’ più in giù. Ed ecco il punto preciso; tutto questo l’ho ancora davanti agli occhi. Cioè davanti agli occhi ho le sue mani che si muovono tremando ma centrano sempre il bersaglio, mani che fanno sempre qualcosa…. Non si doveva mai far notare la sua età, e io ancora oggi ho voglia di dare un bacio a mia nonna, cosa che non ho fatto mai, benché l’amassi più di molte persone che ho baciato. Ora nel ricordo vedo il pettine, l’acconciatura, le mani, e d’improvviso nettamente tutta la nonna: come se avessi sfregato una decalcomania ed avessi improvvisamente staccato la pellicola, ed ecco l’immagine: ecco le grandi macchie colorate del suo giubbino cinese color lampone, i fiori che ha in mano sono bellissimi, sono crisantemi cinesi arricciolati; sono i fiori che preferisce ricevere ad ogni compleanno; sono uguali a quelli che avrà nella bara. Lei era di una decina d’anni più vecchia del nonno ed era di origine polacca: nell’indole e nella vita portava con sé le caratteristiche della sua terra. Per me, bambino, poi adolescente, poi giovane, la nonna non aveva né sesso, né età, né nazionalità; mentre tutti gli altri parenti queste cose le avevano. Chissà poi perché non vi vedevo nessuna contraddizione. Tutti stavano al gioco: accettare incondizionatamente tutte le sue condizioni; la nostra condiscendenza veniva stimolata fin troppo generosamente, e le nostre “sceneggiate” avevano uno spettatore grato. Non si sapeva chi fosse superiore in generosità, ma tutti andavano un po’ sopra le righe. Forse le sue condizioni dichiarate in anticipo altro non erano che la reazione alla nostra mancanza di condizioni? Non era forse questa la ragione per cui l’unica persona che mia nonna temeva e che blandiva oltre misura era la nostra cuoca? La quale era libera di non giocare al nostro gioco e sapeva benissimo che la nonna era più vecchia del marito… Che la morte era vicina… E la cuoca riusciva a rivelare questa sua conoscenza, semplice ma crudelmente esatta, in un accentuato servilismo, senza arrivare ad una formulazione netta. Per questo suo silenzio veniva ripetutamente ricompensata in gratitudine. Noi volevamo davvero bene alla nonna, e questo amore non solo c’era, ma veniva anche dichiarato ad alta voce. La nonna era una persona con la P maiuscola! Suona amaro: molto spesso noi pronunciamo le parole con la maiuscola proprio per nascondere qualcosa. Un’eccessiva ammirazione delle virtù di qualcuno è sempre sospetta. Sospetta di servilismo, oppure di apartheid. Ma lei era una persona… grande, generosa, appassionata, molto viva, molto buona. Io m’accorgo adesso che per tutta la sua vita aveva elargito le sue meravigliose qualità a tutti. Avevamo tutte le ragioni per magnificarla e amarla: le cose che lei aveva fatto per noi tutti, nessuno di noi le aveva fatte, neanche per se stesso: aveva salvato dalla morte me, e per ben due volte il nonno, suo marito. E le volte che ci aveva aiutato anche quando non si era in punto di morte non si potevano contare. L’elenco cresceva e veniva canonizzato di anno in anno. Queste cose però erano rammentate, ma non serbate con esattezza nella memoria. Trascorso il tempo è rimasto un fondo minaccioso. Le strutture portanti della memoria sono arrugginite. A distanza di anni nella nostra famiglia rinascono notizie sotto forma di lapidi tombali. Anch’io adesso sto costruendo un piedistallo. La nonna era un grande medico e non riesco ancora a liberarmi della curiosità di sapere quanto lei stessa si rendesse conto della propria malattia. A volte penso: non poteva non sapere. E a volte: forse non sapeva. Prima il piede, poi un infarto. Comunque, alla meno peggio, riuscì a tirarsene fuori. Cosciente che per questa volta ce l’aveva fatta, appariva quasi ringiovanita e ricominciarono le sedute, le riunioni, le tesi di dottorato, i consulti. Ma questa situazione non poteva durare e non durò a lungo. La realtà era ormai chiara: la nonna stava morendo. A questo punto non era più un segreto per nessuno…. E per lei? Si era fatta così debole che, stanca e smarrita, ogni giorno faceva un piccolo passo verso la fine. Il piede era diventato tutto nero e lei insisteva perché glielo amputassero, benché tutti, eccetto lei, capissero che non era in grado di sopportare l’operazione. Il piede, l’infarto, il piede, l’ictus….. Ma lei si aggrappava alla vita con una nuova forza, era l’unica fra noi ad averne tanta. Il letto. Insisté per avere un altro letto. Chissà perché contava molto sul mio aiuto fisico. Mi chiamava per darmi istruzioni: capivo male il suo linguaggio ma acconsentivo, non vedevo grandi difficoltà nel compito. Ci procurammo un letto speciale, d’ospedale, e lo portammo nella camera matrimoniale della nonna, regno di specchi, cristalli, tappeti, parquet lucidi, e subito la stanza divenne irriconoscibile: come se tutti gli oggetti si fossero allontanati con orrore dal nuovo letto, nascondendosi negli angoli, tremando, stringendosi fra di loro. Mi è rimasta nella mente una sensazione giovane e ingombrante di muscoli, di forza esagerata, inadatta alle circostanze: i miei muscoli vivevano, esageratamente evidenti di fronte a una persona vecchia, paralizzata, morente, e un senso di imbarazzante goffaggine mi perseguitava: cozzavo contro gli angoli, inciampavo, sbattevo un malleolo, come se il letto m’avesse dichiarato guerra. La nonna sedeva in mezzo alla stanza e dirigeva l’ingresso trionfale; me la ricordo proprio così, anche se in realtà è improbabile, perché nel centro della stanza c’era il posto per il letto, e perché lei non poteva stare seduta… Il suo sguardo ardeva di una strana luce febbrile, i suoi occhi non erano mai stati così cerchiati e profondi. Tale era il desiderio di andarsene dal suo talamo ormai quarantennale che si era già trasferita mentalmente in quel letto che avevamo appena portato dentro. Ma rischiavamo di rovinarlo, quel complicato letto, perché non ci capivamo niente: dovevamo aprirlo un po’ e poi accostarlo, poi spingerlo un pochino più su, un pochino più giù. Non riuscivamo a fare quello che lei ci diceva e non capivamo proprio niente. Doveva fare tutto da sola…. E mi sembrò persino di vederla alzarsi, mettere tutto a posto – vedete che non è poi così difficile, basta metterci un po’ di intelligenza – e, terminato il tutto, coricarsi con la sua paralisi, lasciando a noi lo spostamento dei cuscini, dei materassi, dei piumini, lavoro più adatto al nostro grado di sviluppo mentale, benché anche qui commettessimo non pochi errori. Oh, Dio mio! In trent’anni non era cambiata assolutamente. Continuava a non rassegnarsi all’ultimo cambiamento che le toccava la vita. Era religiosa? Nell’altro mondo certamente non credeva, ma aveva un’alta considerazione dei comandamenti cristiani. Fu trasferita dunque nel nuovo letto. Ci mise molto a sistemarsi, dimostrando anche una legittima soddisfazione e non guardando mai dalla parte dell’abbandonato talamo coniugale. Mi sembrò di sentire un enorme sospiro di sollievo quando la sollevammo dal talamo: fra tutto quello che continuava a non capire nonostante la sua enorme esperienza di medico, l’unica cosa che capì in maniera inequivocabile fu che non sarebbe più tornata in quel letto. Noi non capivamo, non capivamo niente di quello che lei sapeva invece benissimo, meglio di ogni altra cosa: che cos’è un malato, come si sente e che cosa gli serve in realtà. Adesso era lei ad avere bisogno e nessuno poteva renderle il debito. Sistemata ci disse un grazie rassegnatamente nervoso, come se davvero avessimo fatto qualcosa per lei, come se davvero capissimo… “E’ stato molto difficile?” ci chiese con partecipazione. “Ma no, nonna, cosa dici! E’ stato facile”. Ma non era così che avrei dovuto risponderle…. Questo letto però non le andava: era obiettivamente scomodo. E allora portammo nella sua stanza l’ultimo letto, quello della bisnonna, quello sul quale tutti noi, della nostra famiglia, moriamo…. E in questo letto, essendosi aggiustata per l’ultima volta i cuscini e avendo accarezzato con la mano tremando il risvolto del lenzuolo sulla coperta, dopo aver chiuso gli occhi con un senso di sollievo, sospirò: “Finalmente sto bene”. Il letto stava nel centro della stanza come una bara, e il volto della nonna ora era sereno. “Finalmente sto bene….” ripeté con un filo di voce. Il letto stava al centro di una stanza divenuta stranamente vuota, in cui gli oggetti abbandonano il proprietario un minuto prima di esserne abbandonati. I volti di questi oggetti hanno ora un’espressione stupita; questi mobili, che erano sempre sembrati così preziosi, non sono che roba vecchia. Si tengono in disparte da quell’oggetto che sta in mezzo alla stanza, loro che sono di mogano, loro che sono di noce chiara…. La nonna stava comoda. Al centro del tumulo funerario troneggia il letto, sul quale la nonna è comodamente sdraiata, con gli occhi chiusi e la mascella legata; indossa il suo amato giubbino cinese. Il nonno, e dietro a lui l’autista, si tengono vicini, già semicoperti dalla terra che cade a ricoprire questa fossa. E non solo: tutti gli inquilini della nostra vecchia casa sono già qui, sotto il tempo che incombe sopra di noi. Sprofonda il tempo con la sua viva umanità, con tutto quello che non hanno sopportato i suoi portatori, con tutto quello che ha potuto fare di noi…. Da quando sono scomparse la mia bisnonna prima e mia nonna poi, il mondo non è diventato migliore…. E forse così sarà sempre. Dio onnipotente! Dopo la morte non ci sarà più ricordo di Te! Ho già tentato di scorgere il tuo volto…. Se un uomo sta in un pozzo profondo, perché non deve credere di far capolino dal mondo e non nel mondo? E se, fuori dal pozzo, tutto a destra, a sinistra, davanti e dietro sarà vuoto, non ci sarà nulla? Solo il buco del pozzo da cui è uscito? Per quale motivo un allievo, magari poco dotato ma pieno di buona volontà è stato buttato in questo carcere senza fondo ed è stato dimenticato? Dio onnipotente! Nonna! Io sto piangendo. Il sole! Quello stesso sole da cui è partito il racconto… Ci sono degli angoli nella mia città in cui non sono mai stato. Soprattutto se sono vicini a luoghi famosi e sono schiacciati dalla loro celebrità. Ma un bel giorno devi trovare un indirizzo e scopri che da quelle parti ci sono case, vie, gente che vi abita… e improvvisamente si ha una tale sensazione di bellezza che ti sembra che tutto si sia conservato nell’ombra del monumento d’arte… Va bene, al posto del gabbiotto del portiere adesso c’è un’anticamera, al posto della cancellata distrutta c’è una palizzata….. Però il portale è ancora intero e il portiere, un vecchio invalido, sta al suo posto all’ingresso della Casa degli Invalidi (evidentemente è uno dei monumenti del passato). Il fantastico portale barocco è spalancato in modo ospitale. Il mattone rosso della strada riprende il tono delle foglie di acero che vengono spazzate via da un meticoloso mongoloide, fiero dello strumento che gli hanno affidato; alcune vecchiette grigie, slavate, si muovono frettolosamente nel parco, indistinguibili dalle ragnatele d’autunno, Ofelie sopravvissute…. L’ergoterapia all’aria aperta in una giornata di sole. L’aria si è svuotata e la luce del sole si è diffusa regolare e senza ostacoli; appare il fumo di un piccolo falò che raduna attorno a sé un gruppetto di attenti oligofrenici… L’antico odore delle foglie putride scompare nel fuoco purificatore; tutto è disordinato, ma attraverso questo caos si delinea un futuro ordine; è stata ripulita l’aria, la strada evidenzia il suo colore rosso; i mutilati mattutini, le vecchiette autunnali… tutti si accordano benissimo con la stagione. “Di là” mi indica con rispetto un oligofrenico. Dove stavo andando? Raggiunto il fondo del viale, arrivo al cortile dell’ospedale. Mi tocca passare attraverso un cumulo di foglie che sprofonda piacevolmente sotto i piedi, l’oligofrenico attraversa la strada, in mezzo a noi passano due automobili lussuose. Ah, ecco. Ecco dove sto andando. La nonna è già qui. All’obitorio c’era stato un momento d’imbarazzo, non l’avevano riconosciuta subito. Mancava l’acconciatura. Nessuno era in grado di gonfiarle la solita ciocca. La nonna aveva comunque un bell’aspetto. Il suo volto era sufficientemente solenne, sereno e bello, ma leggermente allarmato. Evidentemente tendeva l’orecchio a quello che si diceva e non ne era pienamente soddisfatta. Si enumeravano indolentemente i suoi meriti, si ammucchiavano sempre nuovi epiteti, ma neppure una parola veramente viva: “immagine, figura luminosa…. Sempre nei nostri cuori…”. Un generale parla per primo e poi s’allontana: attraverso le porte dell’Aula Magna spalancate nel dorato autunno si sente l’irrispettoso scoppiettio della sua automobile che si allontanava. Ha però fatto in tempo ad elencare tutto, il generale, soprattutto i meriti della defunta: “Non li dimenticheremo mai!”. Ma erano già dimenticati: tutto e tutti vengono dimenticati, i vivi e i morti! Nessuno ha più tempo di ricordare. Nessuno aveva più tempo di ricordare la nonna: ora mi rendevo conto che era stata depennata molto tempo prima di morire; mutano i tempi, i vecchi ce la fanno a fatica ad adeguarsi… L’oratore seguente ripete le stesse cose e nessuno riesce a scaldarsi. Gli amici della defunta, divisi dal catafalco come da un fiume, sembrano i parenti poveri degli oratori. A sinistra ci affollavamo noi, a destra i parenti polacchi: non sapevo che fossero tanti. Neppure una faccia conosciuta; forse uno soltanto l’avevo intravisto nell’ingresso di casa nostra. Egli coglie il mio sguardo e mi fa un cenno. Due occhi grigi spersi, quasi miopi. Perché non l’ho mai cercato? Non capivo ancora, ma già mi sentivo impacciato, imbarazzato, insomma a disagio. Supponevo però che a dispiacermi fossero gli oratori e non noi, non io stesso. “I suoi meriti sono stati riconosciuti – diceva l’oratore in quel momento – e ricompensati”…. Che c’entravano i meriti? Discorsi oziosi: la morte è morte! La nonna era sempre più insoddisfatta del monotono borbottio degli oratori. All’inizio non era troppo seccata: erano venuti anche degli accademici, dei professori, dei generali…. Ma poi morì definitivamente, di noia. A un certo punto mi sembrò quasi che fosse pronta ad alzarsi e a pronunciare lei stessa l’orazione. Lei sì che avrebbe trovato le parole giuste! Sapeva farle scaturire dal cuore. La tentazione di far piacere alle persone era sempre molto forte in lei e riusciva a pronunciare di tutto cuore lodi di persone che non valevano neppure una modesta frazione del suo calore. Non è un’esagerazione, non è una metafora: la nonna era la più viva di tutti ai suoi funerali! Ma come morendo non era potuta venire in soccorso a se stessa, e nessun altro aveva potuto farlo, benché tutti si affollassero attorno al suo capezzale, così succedeva ora attorno alla sua bara, non le restava nient’altro da fare che essere irritata. La nonna stesa nella bara fu portata fuori, completamente insoddisfatta dei funerali, al sole autunnale di quel cortile d’ospedale. Il cortile era irriconoscibile. Era fitto di folla. Accanto alla porta piangevano le infermiere e le inservienti, piangevano con un insolito rispetto per i meriti della defunta segnalati dalla qualità e dalla quantità di coloro che erano venuti a seppellirla… Gli infermieri insieme agli storpi spingevano indietro con le spalle una folla di handicappati che a loro volta spingevano indietro una folla di vecchiette che si tenevano modestamente al di là di una linea invisibile. I loro volti erano illuminati dalla luce di un quieto entusiasmo. Questa luce illuminava anche noi. Ci sentivamo importanti: la bara lussuosa, le ghirlande e i cuscini di fiori, le capo-infermiere in lacrime…. i generali!! (Ce n’era anche un altro, meno frettoloso del primo…). Le automobili con gli autisti che aspettavano… L’oro autunnale degli ottoni della banda, il sole ansimante del contrabbasso e dei piatti… C’era di che gloriarsi! E la folla aspettava, in preda a un umile entusiasmo. La bara sembrava navigasse come una nave, dividendo con la prua i presenti in due parti di umanità: i subnormali erano a destra, mentre i più che normali, i rampanti e gli emeriti, a sinistra. Gli handicappati guardavano quello che avrebbero potuto diventare se si fossero arrischiati ad essere persone normali. Loro erano “in viaggio” come noi, per arrivare, alla fine del cammino, a questo momento. Se loro sono mezzi uomini, anche noi in fondo lo siamo… Loro non avevano avuto, noi avevamo perduto. Sarebbe stato il caso di prendersi per mano e di farsi passare per un tutto unico; solo così non sarebbe stato spaventoso presentarsi davanti a Lui, “misericordia e bontà infinita”. Eccoci tutti in fila, fila grigia, rispettosa, con le nostre teste piccole o grandi, come fiori di diverse dimensioni, i micro e macrocefali e la bara che contiene l’unica persona viva tra di noi! Noi morti seppelliamo una persona viva. E vivi forse sono anche gli handicappati… Ecco la sensazione che mi fece rabbrividire, come una fredda corrente autunnale tra le scapole, tra i muscoli giovanilmente tesi: infatti, che razza di peccato possono avere loro nell’anima? Ed eccoci qua, noi, tronfi di meriti. E se dobbiamo gettare prima uno sguardo nell’anima di un idiota, vedere il trasparente azzurro dei suoi occhi, per poi guardare invece con durezza nell’anima del generale o di chiunque tra noi, oh Dio, meglio non vedere qual è il nostro vero valore! E io sono lontano, oh quanto lontano dal ficcare il naso nei vicoli proditori e maleodoranti del nostro cammino vitale: se mi propongo di guardare dentro questa nostra anima insospettabile, mi giro spaventato. Ecco perché questi “poveracci” della vita non vengono dalla nostra parte, sono inconsciamente impietriti non solo dall’entusiasmo, ma anche dall’orrore. Fin dall’inizio, da saggi, ne hanno avuto paura, quand’erano in culla, o ancora prima, nel ventre materno, e non sono venuti dalla nostra parte, ma sono rimasti lì, accanto alla culla, coi loro giocattoli, e non piangono la loro dottoressa: la dottoressa è viva, siamo noi i morti. Nessuno di noi in realtà poteva a buon diritto guardare negli occhi la morte, non per paura, ma perché era già morto…. Anime non nate nel Paradiso, anime morte nell’Inferno; la nonna fluisce tra noi come lo Stige. Ci avviammo in quella fila priva di vita lungo il sentiero sanguigno del parco, che era stato perfettamente messo in ordine. Gli handicappati, non ammessi dagli infermieri, rimasero alla fine del sentiero e costruirono una sorta di grigia parete, che si fuse con la palizzata fino a sparire. L’ultimo mio sguardo sfiorò un mondo definitivamente svuotato: dietro il parco, immobile, si elevava il tumulo funerario sul quale uno alla volta salivano i pazienti per andare ad accomiatarsi dalla loro dottoressa. La nonna era stata un grande medico, ma neppure adesso mi sono liberato, in tutte queste pagine, di una banale curiosità; lei, come medico, cosa sapeva della propria malattia e della propria morte? In verità, a giudicare da alcune pagine che aveva scritto, qualcosa sapeva, sapeva senz’altro…. Ma qual era il suo rapporto con questa conoscenza? Non sono riuscito a rispondere e continuo ad essere incuriosito da questo interrogativo: come un professionista si rapporti con le proprie conoscenze quando queste conoscenze riguardano lui stesso. Come sono le lettere d’amore di uno scrittore alla propria amata? E un ginecologo come fa l’amore con sua moglie? Con quale lucchetto chiude la sua porta un ladro? Quant’è goloso un cuoco? Come vede il Signore il risultato della propria creazione? Come vive un architetto nella casa che si è costruito? Quando penso a tutto questo, arrivo alla naturale conclusione che anche i grandi specialisti sono soggetti a condizionamenti. Poiché quei percorsi stretti e misteriosi lungo i quali si muove nelle situazioni più scabrose la loro coscienza, aggirando la propria capacità, ragione e esperienza, portano ad una vittoria dell’umano sull’uomo…… E si può soltanto rivolgere il nostro volto perplesso a Lui che è fatto di stelle, d’azzurro e di nubi e chiedere: Signore, quanta fede c’è in Te, se Tu hai previsto tutto?