Narrativa – Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Terza edizione – 1999
Secondo premio
Donatella Trevisan
Ulisse
Stava lì, legato all’albero maestro della nave, con gli occhi liquefatti e le nere pupille che mi fissavano immote. Stava lì, madre, i polsi gli sanguinavano, la pelle era arsa dalla salsedine, potevo scorgere i tendini tesi e i muscoli pronti ad esplodere, potevo contare i battiti del cuore dalla vena pulsante sulla fronte, indovinare il membro eretto sotto il perizoma, leggere il desiderio che pervadeva ogni poro. Potevo sentire lo spasimo gutturale delle voce, non parlava, solo gemiti che dal centro dell’addome salivano alla gola roca – come conosco bene quel suono primordiale che accompagna gli amplessi al loro culmine, l’ho udito mille volte e mille volte ancora da infiniti uomini affondati nelle mie carni… ma così mai, madre, mai. Nessuno mi ha mai desiderato così intensamente. Sapeva che non gli sarebbe bastata solo la volontà per resistermi, lo sapeva bene.
Mi conosceva assai meglio di tutti gli altri, quegli ingenui bambini che al primo accenno di melodia dimenticavano i loro propositi e accorrevano tra le mie braccia, ansimanti d’impazienza, ansiosi di raggiungere la meta agognata, felici di addormentarsi nel mio grembo. Incapaci di scorgere il fondo tragico della vita, di provare il dolore della scelta, ignari della grandiosa e crudele bellezza del sogno, del rimpianto, della nostalgia. Lui, invece, era consapevole del mio potere. Si era fatto legare all’albero maestro, per impedirsi di seguirmi. Aveva scelto. Sì, aveva scelto. E tuttavia si era abbandonato al mio richiamo come nessun altro prima di lui. Come se volesse incidere a fuoco nella memoria l’anelito dei sensi e della mente. Per non dimenticare mai ciò che si era negato. Perché fossi la sua più sofferta rinuncia.
Stava lì, madre, in balia del mio canto, ogni poro un abisso di lava implorante, avrebbe dato la vita per cingermi anche solo un attimo, le funi gli tagliavano i polsi senza cedere nemmeno di un millimetro, nodi professionali, da marinai, aveva dato istruzioni precise, si era preparato a dovere. Poi, naturalmente, che nessuno lo potesse liberare. Sordi alle sue suppliche. Sono certa, madre, che non fosse quella l’unica ragione dei sigilli di cera. Sì, lo so, doveva proteggere la sua ciurma dal nostro incanto, oltre che da se stesso. Ma seguiva anche un intento diverso, più nascosto: voleva che fossimo soli, io e lui. Una cerimonia sacra senza testimoni. Perché nessun altro possedesse la chiave allo sguardo remoto delle notti a venire, alla sottile piega delle labbra nelle giornate di risacca, alle palpebre abbassate durante i brindisi di vittoria. Solo io l’avrei visto immolarsi. Solo io avrei sentito la sua disperata preghiera. Così, solo io sarei stata in grado di decifrare la nostalgia. Lo vidi immolarsi. Sentii la sua disperazione. Se fossi con lui, basterebbe un istante a capire il baluginio dei ricordi. Ma sono qui, madre, eternamente lontana. Presenza irraggiungibile. Dea degli abissi negli abissi confinata. Sapeva anche questo. Certo, lo sapeva.
Stava lì, simulacro dei sensi ondeggiante sulle acque, le narici gli tremavano, la bocca socchiusa lasciava intravedere appena l’avorio dei denti denti forti e labbra arrendevoli ogni nota un vibrare di pelle, la mia voce riflessa in ogni antro del corpo. Nel respiro, nelle anche, nella curva del collo…per lui solo è valso cantare… Perché ti racconto quei giorni? Perché, madre, furono gli unici giorni veri della mia lunga esistenza. Ora che la forza declina e il canto si affievolisce, non faccio che pensare a quelle ore di grazia, rievocando nella memoria ogni più piccolo dettaglio. Sta dunque lì, legato all’albero maestro della nave, gli occhi liquefatti e le nere pupille che mi fissano immote.