- Premio letterario Merano Europa – Tredicesima edizione 2019
- I vincitori della 13^ edizione – Die Sieger der 13. Ausgabe
- Tina Caramanico – Narrativa in italiano – Italienische Erzählprosa
- Hugo Ramnek – Narrativa in tedesco – Deutsche Erzählprosa
- Finalisti: gli autori e le opere – Finalist-innen Autoren und Werke
- Ivana Gini – Narrativa in italiano – Italienische Erzählprosa
- Fabrizio Tumolillo – Narrativa in italiano – Italienische Erzählprosa
- Maximilian Gasser – Narrativa in tedesco – Deutsche Erzählprosa 2019
- Barbara Pumhosel – Narrativa in tedesco – Deutsche Erzählprosa 2019
- Giuria 2019 – Jury 2019
- Bando 2019
- Ausschreibung 2019
- Traduzione dall’italiano al tedesco 2019
- Traduzione dal tedesco all’italiano 2019
Premio Letterario Internazionale Merano-Europa –Tredicesima Edizione – 2019
Internationaler Literaturpreis Merano Europa 13. Ausgabe 2019
Narrativa in italiano – Italienische Erzählprosa 2019
Primo Premio
Tina Caramanico
I tre giorni che sono stata madre
Download del racconto in formato PDF
Lunedì, 20 giugno
Stamattina mi sono chiusa in bagno, appena i miei sono usciti di casa, e ho fatto il test di gravidanza. L’avevo comprato venerdì sera, infilandomi in farmacia quando ormai mancava tipo un minuto alla chiusura. Non c’era nessuno, tranne il farmacista giovane, parecchio scocciato per la mia apparizione a un pelo dal fuori tempo massimo. “Desidera.” mi ha chiesto, senza nemmeno il punto interrogativo. “Eh. Vorrei… un attimo, lo cerco io.” ho risposto, ricordandomi dopo un secondo di panico che di solito i test di gravidanza li tengono esposti, e prenderlo io e pagare semplicemente mi avrebbe risparmiato quello scambio di duetre battute imbarazzanti, indispensabili nel caso avessi chiesto a lui il prodotto (Quale preferisce? Sa come si usa? Ne ha già usati prima di oggi? Quanti giorni di ritardo? O, peggio di tutte: Quando è stato che avete fatto la frittata?).
Ho girato tra gli scaffali, mentre lui sbuffava impaziente e senza nessuna vergogna dietro il banco, e infine ho adocchiato quelli che cercavo, esposti proprio sotto i preservativi: un modo come un altro di farti sentire cretina. Stavolta t’hanno inguaiato, la prossima volta però fatti furba. Che poi ci sono tanti motivi per ritrovarsi il venerdì sera in farmacia a comprare un test di gravidanza, ma essere cretine sì, bisogna ammetterlo, è quello originario e fondamentale.
“Posso aiutarla”, ha chiesto il giovanotto col camice e senza punti interrogativi, sempre più sfinito e desideroso di strascinare giù anche per quella sera la benedetta serranda e andarsene a casa a vedere la fidanzata, o la tv.
“No no, fatto”, ho detto io agguantando un prodotto a caso tra i milioni di marche disponibili e portandolo con frettolosa riservatezza alla cassa.
Pagato, incartato, infilato in borsa, lasciato lì per due giorni e tre notti.
Non che non ci abbia pensato, ovviamente. Posso dire con grande tranquillità di non aver pensato ad altro mentre studiavo, mangiavo, dormivo, parlavo di varie ed eventuali e perfino mentre baciavo Gabriele, il mio ragazzo. Correo, ma che non sa ancora nulla, perché prima di prendere la sua vita per mano e sbatterla al tappeto di qua e di là come uno spietato karateka devo capire io stessa dove voglio andare a parare, con questa storia.
Ci ho pensato anche mentre dormivo, a giudicare dai sogni che ho fatto per tre notti e in cui sono stata madre amorosa, madre rinunciataria, non madre con un grande sospiro di sollievo (mi tornavano le mestruazioni e per fortuna era tutto un sogno). Ah, no. Non era un sogno, dovevo fare il test.
E così, stamattina, l’ho fatto. Ci ho messo mezz’ora a leggere tutte le istruzioni e i consigli per l’uso, che poi, ho scoperto, si risolvono in tre sole parole: ritardo, pipì, righetta rosa. Il ritardo ce l’ho, ormai più di una settimana. La pipì l’ho fatta, giusta sul tampone. Righetta rosa: c’è. Oddio, sbiadita da morire. Quasi non si vede. Ma, a guardare bene, c’è. C’è. Sono incinta. Non era un sogno.
Oggi non ci vado, all’università. Devo stare sola e capire.
Ho 23 anni, sono giovane, ma non abbastanza per dare la colpa di quello che è successo all’adolescenza. So come si fa, a fare un figlio, e so come si evita. Non era la prima volta. Non era il momento. Eppure è successo lo stesso.
Avevo passato una brutta giornata, di quelle così. Non era capitato mica niente di grosso, solo che avevo dormito male, avevo studiato meno di quello che avrei dovuto, con un esame a giorni, volevo stare a dieta che mi sta venendo un culone così, a furia di panini, e avevo saltato il pranzo, era brutto tempo e pioveva da una settimana. E finalmente era venerdì, così la sera è arrivata e sono uscita con gli amici. Gabriele era nervoso, mi dava il tormento con le cose sue, nemmeno si accorgeva che io avevo la luna storta e non avevo voglia di starlo a sentire. Avrei voluto un abbraccio, un po’ di tenerezza, della cioccolata, cose così. Giravano birra e superalcolici, ho preso quelli. Non sono una che beve per abitudine, ma qualche sera ci vuole. E quella sera, al terzo giro, stavo decisamente meglio: mi divertivo e non pensavo a niente, basta tristezza. Anche Gabriele era cambiato, rideva quando dicevo sciocchezze e mi baciava come si deve. Tutto bene, una meraviglia. Siamo finiti a letto, ci siamo divertiti parecchio. Ma proprio parecchio, da quello che ricordo.
Adesso però devo decidere cosa fare. Se fare finta che questa cosa che è successa non sia successa, non sia importante, informarmi, prendere i dovuti provvedimenti e ricominciare la mia vita normale, col mio ragazzo a cui voglio bene abbastanza, l’Università, la laurea in Giurisprudenza, un lavoro e un futuro piuttosto interessante, se tutto va bene. Oppure lasciare che questo piccolissimo coso mi cresca nella pancia e poi nasca, con conseguenze perlopiù imprevedibili. Solo una deficiente assoluta sceglierebbe la seconda opzione, diciamocelo. Solo che io a questo affare che mi naviga dentro già sono affezionata, e non chiedetemi perché.
Mi viene da piangere. Allora tiro fuori il test di stamattina dalla borsa e me lo riguardo, e resto qui, come un’imbecille, a parlare con una righetta rosa che poi, se non strizzi bene gli occhi, nemmeno si vede.
Martedì, 21 giugno
Gabriele mi guarda a bocca aperta. Gliel’ho appena detto, senza tante manfrine: “Sono incinta.”
“Ma abbiamo usato sempre il preservativo.” “Una volta no.”
“Occazzo. Va beh, ma una volta sola…”
“Sono incinta”, ripeto pazientemente. Capisco che è sconvolto, di scemate ne ho pensate parecchie pure io, all’inizio. Gli devo dare tempo.
“Ma sei sicura? A volte i test sbagliano.”
“Sono sicura. C’è la righetta. I test sbagliano nel senso che sei incinta, ma ancora non si vede. Se esce positivo è positivo.”
“Ma…”
“Ma che? Vuoi sapere se è tuo? È la prossima domanda standard del maschio stronzo medio; le altre le hai già fatte tutte.” Eccavolo, adesso il tempo te l’ho dato. Fattene una ragione.
“Scusa. È vero”, Sorride e per un attimo mi illudo che sia felice. Che sia un imbecille come me, la mia anima gemella. Ma purtroppo dopo un po’ ricomincia: “Comunque bisogna andare dal dottore, per essere proprio sicuri.”
Sto per mandarlo a quel paese, ma continua e peggiora la situazione: “E per vedere come si fa.”
“Come si fa cosa?”, chiedo, torva e minacciosa. “A fare l’interruzione di gravidanza.”
Lo fisso e lo odio, moltissimo. Mi crolla tutto il futuro addosso: è pesante, fa male.
“L’aborto”, precisa, come se io fossi sorda o straniera. O cretina.
Respiro, perché sono una brava ragazza e non posso ucciderlo, non subito. “Ma io lo voglio, il bambino.”
Mi guarda e forse non capisce: “Come…?”, chiede con gli occhi vuoti.
“Non ho intenzione di abortire. Ho deciso che lo faccio, questo bambino.”
Continua a tacere, sembra stia per venirgli un colpo.
Io non sopporto le persone flaccide, quelle che non sanno da che parte stare quando è necessario prendere posizione. E così capisco finalmente che uno che ti piace abbastanza, non ti piace abbastanza. Mi alzo e mi allontano, mentre lui continua a emettere silenzi inopportuni e sguardi persi. Io e il piccolo coso invece siamo tosti, e ce ne andiamo per la nostra (tortuosissima) strada.
Mercoledì, 22 giugno
Per oggi pomeriggio alle 17 ho preso appuntamento dal ginecologo; voglio sapere come va il piccolino, che qua siamo in mezzo ai guai e bisogna che non ci manchi la salute, a nessuno dei due.
Invece stamattina, col caffè, ho deciso di comunicare a mia madre e al mio recentissimo patrigno che presto diventeranno nonna e nonnigno.
“Come sarebbe sei incinta?”, grufola lui tra una fetta biscottata alla marmellata e una alla nutella.
“Sono incinta”, ripeto con calma, perché non capisco cosa sia poco chiaro nell’assunto, ma mi pare che la cosa risulti sempre piuttosto misteriosa ai maschi di qualsiasi età.
“Come sarebbe sei incinta?”, chiede però anche mia madre stridula, con gli occhi di fuori e il caffellatte che le cola giù dalla tazza che trema nella sua mano destra, che trema.
La guardo stupita. Pensavo sapesse come succede, se non altro per esperienza.
“Sarebbe così, sono incinta come tutte le donne incinte. È capitato.”
“Ma sei scema?”, chiede il patrigno, che in effetti mi pareva stronzo. Da subito. Non ho mai detto niente perché mia madre sembrava finalmente di nuovo felice, e non me la sentivo di romperle le scatole. In fondo sono fatti suoi. Ma anche miei, in questo frangente. Guardo mia madre: dovrebbe essere lei a difendere la sua creatura in stato interessante.
“È una deficiente!”, risponde invece la mia genitrice all’amore suo. E poi: “E come diavolo avete fatto? Ma dove ce l’avete, la testa? E adesso come si fa?”, spara a me tutte le domande brutte.
“Si fa che lo tengo. Sarà tanto carino. O carina. Voi mi aiuterete, finché non potrò trovarmi un lavoro e una casa.”, dico con la maggiore tranquillità possibile.
“Ma sei scema?”, chiede di nuovo l’energumeno, pieno di sensibilità.
“Noi ti aiuteremo?”, chiede mia madre coi capelli dritti. “Per forza. Gabriele non ne vuole sapere. O meglio, sono io che non ne voglio più sapere di lui. O insomma, siamo tutti e due d’accordo credo. Che ci lasciamo. Sarò sola col bambino. Ma non posso lavorare finché non finisco l’Università. E anche dopo, bisogna vedere. Ma tanto
qui c’è spazio, no?”
“Guarda che non abbiamo una lira, manteniamo a stento te. Nella speranza che ti togli presto dalle…”, dice lui, dolce come il miele e senza neppure un congiuntivo.
“E comunque io non ce la faccio a stare dietro a un altro bambino piccolo. Volevo rifarmi una vita, stare un po’ tranquilla con lui. Dopo tutto quello che ho passato. E adesso…”, mia madre smette di gridare e comincia di colpo a singhiozzare, come sa fare lei. E basta, finita così. Partita persa. Che le posso dire, adesso?
Nemmeno loro ti vogliono, coso. Ma io sì. Io non ti mollo.
Telefono a papà. Mi risponde allarmato, siamo fuori dagli orari abituali, quindi capisce che c’è qualcosa che non va: “Ciao, cos’è successo?”
Decido di andare subito al sodo: “Niente papà, tutto ok. Sono solo incinta, ma sto bene. Oggi vado dal dottore.”
Silenzio. Adesso me lo chiede. “Come incinta? Ma sei sicura?”
“Sì, papà. Ho fatto il test. E comunque lo tengo.” Silenzio.
“Lui, il tuo ragazzo…il padre…” “Ci siamo lasciati ieri.”
Silenzio. “Mamma lo sa?”
“Gliel’ho detto stamattina. Ha detto che non può aiutarmi. Lui e ciccino mi vorrebbero fuori di casa a breve. Figurati se tengono me e pure un neonato urlante, che gli rovina le serate romantiche.”
Silenzio.
Silenzio. “Papà?” Silenzio. Silenzio.
Silenzio. Definitivo.
Coso, qua la situazione si fa drammatica. Tieniti stretto. Alle 17 siamo dal ginecologo. L’ho frequentato poco,
in questi anni: mestruazioni dolorose, all’inizio, poi anticoncezionali quando ho conosciuto Gabriele. Mi saluta cortese e mi chiede come va. Che cavolo di domanda.
“Sono incinta.”
Lui non mi chiede se sono sicura, né fa finta di non aver capito. Né per fortuna vuole che gli spieghi come è successo. Il prossimo fidanzato lo voglio così, con una laurea in medicina.
Mi chiede un poco di date, si fa due conti. Mi prescrive un prelievo di sangue per il dosaggio delle Beta HCG, così si chiama l’ormone della gravidanza, e mi spiega che devo farlo per due o tre volte, ogni settimana, per vedere se aumenta e capire come sta il bambino. Cioè l’embrione, come lo chiama lui.
“Non mi fa l’ecografia?”, chiedo io. Nelle serie tv e nei film è così che si scoprono le gravidanze. E c’è anche il bambino che ti fa ciao con la manina, e il dottore ti dice se è maschio o femmina.
Lui ride, dice che è troppo presto per vedere qualcosa. Che per oggi comunque possiamo fare un test, per avere conferma che il mio ritardo sia dovuto a una gravidanza.
Ma come? Siamo alle solite: “Sei sicura?” “Dottore, come le dicevo, io un test l’ho già fatto a casa. È positivo. Guardi.” Quasi indignata, estraggo dalla borsa la bustina per surgelati in cui ho conservato il mio test casalingo. La righetta non è più rosa, adesso. Si è tutta sfumata, squadernata; sembra più uno scarabocchio che una retta. Ma io le voglio bene lo stesso e mi commuovo a rivederla. Tremando la consegno al ginecologo, che però nemmeno la osserva con attenzione: “Sempre meglio rifarne uno anche qui, per sicurezza”, dice sorridendo e fingendo di non notare che ho gli occhi lucidi. Vabbè, dev’essere un difetto di fabbricazione degli uomini questa cosa della sicurezza. Del resto loro mica tengono i cosi nella pancia, non si sentono strani, non hanno la nausea e non gli viene da piangere per niente. Fanno fatica a crederci, anche con una laurea in medicina.
“Ok”, accetto, poco convinta. Mi manda dall’infermiera, che mi consegna un contenitore e mi spedisce in bagno. Niente tamponi e niente lineette a cui affezionarsi, stavolta. Fanno tutto loro.
Io resto per una decina di minuti (lunghissimi) in sala d’attesa, poi l’infermiera mi richiama nello studio del dottore. Mi risiedo e lo guardo. Lui mi guarda e, si vede, è parecchio imbarazzato.
“Il test è negativo”, dice.
“Come negativo?” È il mio momento per fare domande da imbecille.
Lui, pazientemente, mi spiega che a volte l’embrione si impianta e comincia a crescere, e si ha un test positivo, ma all’inizio la gravidanza è fragilissima e può interrompersi quasi subito, e così il test torna a essere negativo in pochi giorni.
“Come negativo? Come interrompersi?”, chiedo di nuovo io, scoppiando a piangere.
Il dottore si alza e mi mette una mano sulla spalla: “Capita spesso, purtroppo.”
“Ma vuol dire che coso c’era, e adesso non c’è più?” Lui mi stringe solo la mano sulla spalla, mentre io con-
tinuo a piangere e a dire scemate: “Ma non potrebbe essere stato un errore? Un falso positivo? Insomma, magari coso non c’è mai stato?”
Lui scuote la testa, poi, a fatica, cerca di assecondarmi: “In teoria è possibile anche questo. Ma molto raro. Rarissimo direi.” Mi sa che lo dice solo per consolarmi.
Torno a casa, che non è più casa mia perché io con questi due che non volevano essere i nonni di mio figlio per poter andare a ballare la sera non ci voglio più vivere. Me ne andrò appena possibile. Mi troverò un lavoro. Tanto la facoltà di Giurisprudenza mi piaceva solo abbastanza. E comunque ho mandato a quel paese ben più di una laurea e di un futuro (forse) sicuro: mi sono liberata di un fidanzato senza spina dorsale, di due genitori egoisti e di un patrigno stronzo. Sono stata madre per tre giorni scarsi, e coso m’ha sconvolto la vita da capo a piedi.
E ho capito, nei quasi tre giorni che sono stata madre, che l’amore non è mai abbastanza, è tutto o niente. Che il futuro è sempre imprevedibile, qualsiasi cosa tu faccia. Che quando si deve scegliere, si deve scegliere. E adesso che tutto va di nuovo abbastanza bene, io non riesco a smettere di piangere. Insomma, tutto quello che so me l’ha insegnato coso, in nemmeno tre giorni. Coso, mio figlio, che c’era, e adesso non c’è più. Coso che, forse, non c’è neppure mai stato.
Tina Caramanico (1962) è nata a Taranto e traslocato e viaggiato moltissimo. Laureata in Lettere, insegna italiano nelle scuole superiori. Ha alle sue spalle due collezioni di poesie (Guida a Milano invisibile, Nulla Die 2011; I poeti non servono a niente, Ottolibri 2015), varie raccolte di racconti (tra cui ricordiamo Le cose come stanno, Officine editoriali 2013; Oltre l’incerto limite, Runa 2013) e una novella (In memoria, Nero Press 2015). Altri suoi testi brevi sono comparsi in antologie, riviste e web magazine. Il suo primo romanzo, Un cattivo esempio (Kobo 2017) si è aggiudicato nello stesso anno di pubblicazione il premio “Romanzi in cerca d’autore”.