- Premiazione della Nona edizione – 2011
- Vincitori e finalisti 2011
- Narrativa 2011- Fabrizio Tummolillo
- Poesia 2011- Giancarlo Piciarelli
- Narrativa per l’infanzia 2011 – Antonella Noventa
- Traduzione 2011 – Eugenia De Nicola
- Testo teatrale 2011 – Maria Dell’Anno
- Galleria fotografica 2011
- Presentazione della nona edizione – 2011
- Giuria 2011
- Comunicati stampa 2011
- Bando e regolamento 2011
Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Nona edizione – 2011
Narrativa
Primo Premio
Fabrizio Tummolillo
La superficie della pelle
In un uomo adulto d’altezza e corporatura media la superficie della pelle può raggiungere un’estensione di due metri quadrati e un peso totale di quindici chili. La pelle del capo rappresenta circa il nove per cento dell’estensione complessiva, quella delle mani il diciotto, la superficie anteriore e posteriore del tronco il trentasei, i genitali l’uno per cento, quella degli arti inferiori il trentasei. La pelle è considerata l’organo di maggiore superficie e peso del corpo umano.
Nel 1967 ho ereditato da mio padre la Fiat 127 che usava per portare dalla terra in campagna sacchi di pomodori San Marzano e cassette piene di immangiabili cavoli scuri e polli morti. Oltre alla macchina ho ereditato anche la sua stessa testa calva e tozza, una certa magrezza congenita e un appartamento sul lungomare di Rossano Calabro dove andavamo d’estate, in un condominio costruito abusivamente negli anni Cinquanta e condonato negli anni Ottanta.
Infine queste mani.
Mani sottili, dai tendini in rilievo. Ferme.
– Mani da chirurgo – aveva commentato il docente di Anatomia patologica mentre sezionavo il mio primo corpo. Era il cadavere di una ragazza uccisa da un tram. Non aveva documenti e nessuno era venuto a cercarla per settimane. Qualcuno le aveva malamente ricucito il moncone della gamba sinistra sotto il ginocchio.
– Un corpo per la scienza – aveva declamato poco prima il tecnico dell’obitorio mentre la preparava per l’autopsia. Poi, in attesa del docente, aveva preso un Mottarello dalla cella frigorifera vuota di fianco a quella della ragazza e si era messo a succhiarlo.
Nella cella ne teneva altri quattro – l’avevo notato mentre la chiudeva – ma non li offrì a noialtri studenti di Medicina.
Lo spessore della pelle varia in rapporto alla costituzione individuale e alle diverse regioni corporee. Si passa dal mezzo millimetro del condotto uditivo esterno e delle palpebre ai circa quattro delle regioni palmari e della nuca ai cinque della pianta del piede. All’esterno non presenta una superficie uniforme in quanto – variamente distribuiti nelle differenti regioni – si rilevano solchi, pieghe, rilievi e depressioni.
– Mani da barbiere – aveva sentenziato mio padre una mattina in bottega mettendomi in mano la scopa e dandomi il benvenuto con un’ufficialità che faticavo a comprendere nel mondo dei grandi. Nel mondo di quelli che lavorano.
In paese era per tutti don Ciccillo. C’erano altri due barbieri ma era lui quello che aveva il giro di clienti più numeroso. Per una certa sua teatralità, probabilmente. Intratteneva la gente mentre tagliava barbe e capelli. Cantava, interpretava arie dell’Opera, faceva giochi di prestigio e numeri di abilità. Quello preferito era lanciare le forbici in alto facendole roteare e riprenderle al volo senza farsi male. In bottega c’era sempre la radio accesa e per questo numero aspettava qualche brano di successo di quegli anni, roba con dentro un acuto o cose del genere. All’attacco dell’acuto si fermava, contava il tempo con la mano, lanciava in aria le forbici e le riprendeva quando il cantante staccava dall’ultima nota.
Era il migliore a tagliare i capelli.
I ragazzi che facevano il servizio militare nella caserma giù al paese vecchio venivano il sabato pomeriggio in libera uscita a farsi la rasata.
Lui si rifiutava di usare la macchinetta.
– Niente macchinetta – diceva.
– Mai impiegato la macchinetta in vita mia – ripeteva.
Ed era vero.
Usava due forbici contemporaneamente, una per mano.
I soldati uscivano rimettendosi la bustina di panno grigioverde e aggiustandosi la cravatta. In testa tre millimetri di capelli.
Tre millimetri perfetti, su tutto il cranio.
Soltanto un po’ più corti, a sfumare, sulla nuca e ai lati.
Poi c’era la faccenda della barba.
Come faceva lui la barba non c’era nessuno in tutta la valle.
Nessuno. Da nessuna parte della valle.
– Mai fatta uscire una goccia di sangue. Nevvero, compare? – chiedeva ai clienti.
– Tenete ragione, don Ciccillo – abbozzava quello sulla poltrona.
– Il trucco è l’inclinazione della lama – mi spiegava – Guarda la mano, Salvatore. Guarda com’è inclinata. La vedi? LA LAMA, TATORE! Non troppo inclinata, non troppo poco. Se l’inclini troppo tagli via una fetta di pelle. COMPARE, STATE TRANQUILLO. STO SPIEGANDO AL RAGAZZO. Se non l’inclini bene, se la tieni dritta contro la pelle, ci si conficca dentro, nella pelle. Come dentro al burro. Lo vedi come faccio a inclinarla? È tutto un gioco di polso -.
Il rasoio percorreva la faccia silenziosa e scura dei clienti cacciando un rumore vetroso da sotto la schiuma e lasciando a ogni passaggio larghe strisce di pelle pulita e lucida.
Io lo osservavo mentre al di là della tenda e della vetrina il sole che assassinava la piazza del paese faceva scivolare folate di aria calda e umida ogni volta che qualcuno apriva la porta. Il selciato della chiesa buttava fuori ondate di calore opaco e polveroso e gli unici rumori erano quelli di qualche camion carico di ghiaia o di sale che arrancava sul fondo sbrecciato dello stradone fra le bestemmie dell’uomo alla guida.
– Il polso, Salvatore. Guardalo. Guarda come inclino la lama girando il polso. TATORE, MI STAI GUARDANDO? -.
Non troppo inclinata.
Non troppo poco, la lama.
Il polso.
È tutta lì la faccenda.
Dall’esterno all’interno la pelle si divide in strato corneo, strato lucido, strato granuloso, strato spinoso, strato basale, derma. Quest’ultimo, a sua volta, si distingue ulteriormente in derma papillare (il più superficiale), medio e profondo.
Mai imparato a farmi la barba con il rasoio. Ci ho provato, i primi tempi che abitavo a Milano e andavo all’Università. Con alcuni soldi messi da parte facendo il cameriere nei fine settimana mi ero comprato un rasoio e la cinghia per affilarlo poi un ventilatore – rumoroso e pesante – da usare d’estate e una stufa elettrica per l’inverno.
Il rasoio l’ho usato nemmeno cinque volte.
Finivo sempre con il tagliarmi ai lati della mandibola.
Me lo diceva mio padre.
– Difficile radersi da soli con il rasoio. Lo specchio ti frega. È come quando ti metti la cravatta, Tatore. Meglio mettersela a memoria. Allo specchio ti confondi e basta -.
Strano usare un attrezzo così tanto affilato e dovere prestare tutta quest’attenzione a rimanere sulla superficie della pelle. Me lo sono sempre domandato.
Curioso.
Ogni centimetro quadrato di pelle contiene mediamente duecento terminazioni sensoriali per la sensibilità al dolore, due per la sensibilità al caldo, dodici per la sensibilità al freddo, un metro di vasi sanguigni, quindici ghiandole sebacee, cinquemila corpi sensoriali, sei milioni di cellule, cinque peli, cento ghiandole sudoripare e quattro metri di fibre nervose.
Adesso sono qui, papà, davanti a te che mi guardi da questa foto smangiata negli angoli e virata in seppia su un cartoncino color topo. La fotografia è in una vetrinetta del mio studio insieme agli oggetti che usavi in bottega: il rasoio con il manico in corno, il pettine senza tre denti sottili, le tue forbici preferite, il pennello per la barba.
Prendo il rasoio. Lo apro.
Faccio scivolare di piatto la lama sul palmo della mano.
Mi hai insegnato a restare sulla superficie della pelle ma non hai compreso, da tanti segnali, che non era quello che volevo.
Non volevo la tua esistenza da barbiere di paese, un’esistenza incistata nella bottega di una piazza calcinata dal sole, dentro un orto perso nel nulla in cui affogare la domenica pomeriggio, nelle poche stanze di una casa con il bagno in cortile.
La superficie della pelle è come il pelo dell’acqua visto in controluce ai bordi della piscina, papà. Ma tu non hai mai fatto un bagno in piscina in vita tua. Non sai che aspetto abbia quel velo luccicante che fa l’acqua clorata quando ti ci perdi a rimirarne il filo con gli occhi, arenato sulla freschezza di una sdraio.
Come la pelle del viso di certe ragazze in certe giornate di sole.
Sei rimasto oltre quel diaframma per tutta la tua esistenza, papà.
Io sono andato sotto quella superficie.
Non fa rumore la lama quando attraversa tutti quegli strati di cellule, nervi e vasi superficiali, lo sapevi?
Non fa neanche tanto sangue, a sapere incidere con un taglio pulito.
Solo una striscia rossa che segue il bisturi mentre scorre. Senza fatica.
Come nel burro, avevi ragione.
La consistenza di certi tipi di pelle è esattamente quella che dicevi tu.
Ed era vera anche la faccenda del polso.
Tutta lì, la questione. Una rotazione di pochi millimetri del polso e la lama entra due centimetri più di quanto dovrebbe.
Mi hanno bocciato per questo motivo a un esame di specializzazione.
Era un professorone d’altri tempi, con la barba a punta da barone dell’Ottocento e gli occhialini. Una specie di grottesco Cavour.
Ma aveva ragione. Sono i millimetri che fanno la differenza. L’avrei capito dopo, nei quarant’anni trascorsi in sala operatoria a incidere sotto quella luce infame che mi faceva sudare come un infartuato anche se sotto il camice ero in mutande e maglietta. Quella stessa luce che m’inchiodava gli occhi quando il sabato pomeriggio uscivo dalla bottega per andare a comprare il Toscano che ti saresti fumato in cortile dopo cena.
Ma tu non lo sai, tutto questo. Sei arrivato a vedermi laureato in Medicina ma non ce l’hai fatta a vedermi prendere tutte le specializzazioni, i riconoscimenti, gli avanzamenti di carriera. Tutto con lode, tutto con il massimo dei voti, con i complimenti dei colleghi.
Mi dispiace. Ora che ho più anni di quanti ne avevi tu quando ti ho salutato dopo l’ultimo giorno trascorso in bottega mi manca la possibilità di parlarti. Di spiegarti cosa significhi attraversare quel confine che a te appariva sacro, quei pochi millimetri di pelle che separano il fuori dal dentro, che ti costringono a passare l’esistenza in un paese di ignoranti da sbarbare per sfamare la famiglia oppure in questa villa fuori città dove vivo da quando ho avuto abbastanza soldi per comprarla. Abbastanza soldi per comprare tutto quello che volevo comprare.
Scendere sotto la superficie della pelle con la lama di un bisturi, dare un’occhiata là sotto a quello che nessuno vuole vedere è piacevole, tutto sommato.
Ti fa sentire Dio.
E ti fa guadagnare un sacco di soldi, papà.
La gente ti paga fior di soldi per farsi tagliare da te.
È strano se ci pensi, ma funziona così.
Così è facile che una volta in pensione ti manchi tutto questo: l’odore della sala operatoria, l’attimo che precede il taglio della lama, la pelle che ti si apre davanti agli occhi.
Ed è normale che ora si debba pagare non pochi quattrini a certa gente che non avresti gradito – ne sono certo – per fare quello che prima facevo retribuito e venerato. Gente che recupera materiale su cui lavorare da certi Paesi dell’Est dove si fanno poche domande se fai arrivare regolarmente qualche valigetta di soldi.
Capisci cosa intendo dire, papà?
È grazie alla fitta e complessa trama di fibre sensitive che la caratterizza, che la pelle risponde agli stimoli dell’ambiente esterno mediante quattro modalità sensoriali principali: tatto, caldo, freddo, dolore. Le quattro modalità non sono tra loro sempre dissociabili in quanto la natura, l’intensità e la durata di uno stimolo possono provocare contemporaneamente una pluralità di sensazioni termiche, tattili e dolorifiche.
A guardare da fuori la scena, da lontano, a guardarla con occhi capaci di sospendere la razionalità che tutti ci si aspetta negli eventi, un osservatore avrebbe visto un uomo anziano con la testa calva e tozza e il corpo magro coperto di sangue parlare in maniera confusa davanti a una vetrinetta in una stanza piena di reperti anatomici.
Avrebbe visto anche una ragazza dai lineamenti slavi, legata giù nello scantinato.
Anche lei coperta di sangue. Molto sangue.
Molto più dell’uomo che, in questo momento, stringe un bisturi o forse un rasoio nella mano destra. Lo stringe come l’ha stretto per tutta la vita. Con la punta delle dita.
Perché non è la forza della presa quanto il movimento del polso – tutto sommato – quello che conta in questo genere di cose. La lama risponde al polso. Tutto lì. Basta che sia affilata.
Poi è tutta una questione di polso.
La superficie della pelle è un limite invalicabile per molti.
Per qualcun altro invece è il confine di un territorio di caccia.
Al di là c’è una riserva da percorrere a piacere in lungo e in largo.
Basta varcare quel confine attraverso uno squarcio.
Poi non ritorneresti più indietro.
Non sai cosa ti sei perso.
Dammi retta, papà.
Fabrizio Tummolillo
Nato a Milano nel 1970. Vive a Pecorara, sulle colline piacentine. Laureato in Scienze dell’Educazione all’Università di Bologna con una tesi sulla vicenda della moschea di Lodi e giornalista professionista dal 2004. Attualmente redattore del quotidiano “Il Cittadino del Lodigiano e del Sudmilano” per le pagine di Cultura e Spettacoli e Interni ed Estero.
Con l’attore e regista teatrale Giulio Cavali ha scritto “Linate 8 ottobre 2001 – La strage”, spettacolo-inchiesta sulla strage di Linate in cui morirono 118 persone. La “prima” dello spettacolo si è tenuta lunedì 18 dicembre 2006 al Piccolo Teatro di Milano e ha avuto repliche in numerosi teatri d’Italia. Dello spettacolo è stato tratto un libro pubblicato da Edizioni XII.
Quella su Linate è la sua seconda opera pubblicata dopo “Un’altra sera”, raccolta di racconti brevi edita dalla casa editrice Il Papiro – Altrastoria di Lodi.