- Serata di premiazione dei vincitori dell’Undicesima edizione – 2015
- Finalisti – Finalist-innen – Vincitori – Sieger 2015
- Francesca Quarta – Narrativa in italiano – Italienische Erzählprosa 2015
- Eva-Maria Thüne – Narrativa in tedesco – Deutsche Erzählprosa 2015
- Werner Menapace – Primo premio Traduzione dal Tedesco 2015
- Antonio Staude – Secondo premio Traduzione dal tedesco 2015
- Traduzione dall’italiano 2015
- Galleria fotografica 2015
- Presentazione dell’edizione 2015
- Giuria – Jurys 2015
- Bando e regolamento 2015
- Ausschreibung 2015
Premio Letterario Internazionale Merano-Europa – Undicesima Edizione – 2015
Narrativa in italiano – Italienische Erzählprosa 2015
Primo Premio
Francesca Quarta
L’Uomo Cappello
Mi chiamo Bobby Alcott e il 20 luglio 1969, il giorno dell’atterraggio dei primi uomini sulla Luna, feci l’incontro più importante che mi fosse mai capitato di fare nei miei quasi otto anni di vita.
Era un pomeriggio caldo; mamma, papà ed io vivevamo in un paesino dell’Alabama all’epoca, quindi tutti i pomeriggi tendevano ad essere molto umidi e caldi, ma quel particolare pomeriggio lo ricordo come avvolto da una patina di calore dorato, forse perché tutti erano chiusi in casa, al fresco e all’ombra, davanti al televisore, e mi sembrava di essere il solo ad essere rimasto per la strada. Gli unici rumori che sentivo erano il fruscio delle foglie mosse dal vento, il rimbalzare della mia palla da baseball sull’asfalto e il brusio di decine di televisori dietro alle tendine delle finestre che davano sulla strada. Tutti trattenevano il respiro e non volevano sentir parlare d’altro che di Neil Armstrong e dell’Apollo 11; gli adulti si perdevano in lunghe elucubrazioni sui moduli spaziali, i bambini giocavano alle missioni su pianeti alieni sconosciuti. Per quanto riguardava me, io non ne volevo sapere niente dello spazio.
Io quel pomeriggio ero rimasto fuori ad allenarmi sulle mie battute perché non c’era nulla al mondo che volessi di più che fare un fuoricampo come quelli di Joe DiMaggio. Io non volevo fare l’astronauta da grande, volevo fare il campione, il giocatore di baseball professionista. Nessuno aveva mai giocato a baseball nella mia famiglia: mio padre era un camionista, mia madre una segretaria della scuola. Ad entrambi, soprattutto a mia madre, piaceva accarezzare l’idea che io sarei diventato uno stimato professore di una grande e famosa università del nord un giorno. “Harvard” ripeteva mia madre, come se fosse un incantesimo o un qualche tipo di parola magica. Agitava il dito davanti alla mia faccia a colazione e mi ripeteva quel “Harvard”, sollevandomi il mento in modo che la guardassi sopra alla mia ciotola di latte e biscotti. Era il suo modo di darmi il buongiorno ogni mattina.
Ricordo bene quel 20 luglio. Il sole stava cominciando ad abbassarsi alle mie spalle quando l’Uomo Cappello arrivò.
Noi bambini non conoscevamo il suo vero nome: lo chiamavamo così perché non si toglieva mai dalla testa quel suo vecchio berretto di lana a righe, raccattato chissà dove. Sentivamo storie sull’Uomo Cappello, qualcuno di noi lo vedeva a volte all’angolo di una strada o sull’argine del fiume; una sagoma confusa tra gli alberi, niente di più. I nostri genitori ci proibivano di avvicinarci a lui naturalmente. L’Uomo Cappello indossava un vecchio giaccone verde, scarpe lunghe e consunte simili a quelle di un clown e quando parlava biascicava parole confuse attraverso i suoi denti marci. Avevamo paura di lui, ma ne eravamo affascinati. Raccontavamo storie terribili su di lui quando calava il buio, la sera, e poi continuavamo a guardarci le spalle mentre tornavamo a casa da soli.
Quel pomeriggio, mentre colpivo la palla con tutta la forza che avevo nel corpo verso il fondo della strada, l’Uomo Cappello uscì dagli alberi alle mie spalle e mi chiamò. “Ehi tu, ragazzo! Devi ruotare di più quella mazza” disse. “Colpisci come se stessi cercando di scacciare una mosca, devi farla ruotare, così.”
Convinto di essere da solo, sussultai e mi voltai di scatto. Lui ruotò su se stesso davanti a me, stringendo una mazza immaginaria. Aveva una voce gracchiante; non lo avevo mai sentito parlare, non lo avevo mai neanche visto così da vicino. Ciuffi di capelli gli spuntavano dai lati del berretto e le sue tasche tintinnavano. Io lo guardai e non dissi niente.
“Coraggio, ragazzo, così!” Ruotò di nuovo su se stesso. “Quella mazza non batte da sola, cosa stai aspettando?”
Intorno a noi il vento scuoteva dolcemente le foglie e il sole toccava i tetti delle case e inondava la strada di una luce ambrata. Io afferrai bene la mazza, la alzai sopra a una spalla e lo imitai.
“Bravo!”, rise l’Uomo Cappello. “Bravo! Senti, dammi quella palla. Avanti, lanciami la palla! Te la lancio io così vediamo come batti per davvero.”
Io mi guardai nervosamente attorno: eravamo soli, i miei genitori erano in casa e così tutti i nostri vicini. L’Uomo Cappello bevve un sorso da una bottiglia che teneva avvolta in una busta di carta, poi si infilò la bottiglia nella tasca del giaccone, si sfregò le mani e indicò la palla. Non mi sembrava pericoloso, non come dicevano le storie almeno. Mi feci coraggio e gliela lanciai.
“Ora sta’ pronto”, mi disse lui.
Si sfregò la palla tra le mani, ci soffiò sopra e mi fece l’occhiolino.
“Così fanno quelli dell’Ivy League”, disse.
Poi lanciò, un lancio forte e preciso. Io ruotai la mazza come mi aveva fatto vedere lui e la palla volò con uno schiocco sordo in alto verso i tetti e le cime degli alberi.
“Un fuoricampo!”, gridò l’Uomo Cappello con gli occhi fuori dalle orbite. “Dio mi fulmini se quello non era un fuoricampo, ragazzo! Speriamo solo di riuscire a recuperare la palla adesso, per un attimo ho pensato che sarebbe finita sulla luna insieme alla cricca spedita su da Nixon. Batti il cinque!”
Aveva la mano incrostata di fango, ma mi avvicinai lo stesso e saltai per colpirla con la mia. L’Uomo Cappello mi strizzò l’occhio di nuovo e mi posò la mano sulla testa.
“Non sei di tante parole, tu”, mi disse. “Ma non sei male. Senti, come mai un giovanotto come te non è là dentro in questo momento a rimbambirsi con tutte quelle cretinate sulla Luna, eh?”
“Non mi interessa la Luna”, risposi io. “Io gioco a baseball.”
L’Uomo Cappello scoppiò a ridere. “Lo vedo bene che giochi a baseball.”
Io lo guardai da sotto in su e strinsi la mazza tra le mani. “E perché tu non sei là dentro a guardare?”, gli chiesi. “Io?” L’Uomo Cappello rise. “È l’anno della Terra questo, ragazzo, mica quello della Luna.”
“L’anno di che cosa?” “Della Terra e del Gallo, il 1969, cosa insegnano a scuola di questi tempi a voi ragazzi? L’Imperatore di Giada ha preso dodici animali e uno di questi era il gallo, e il 1969 è l’anno del Gallo.”
“L’Imperatore di Giada?” “Esatto.”
“Che cos’è, una storia?”
L’Uomo Cappello si sfregò la testa sotto al berretto, poi si sedette sull’orlo del marciapiedi, mi fece cenno di avvicinarmi e continuò. Aveva braccia e gambe lunghissime, sottili come ramoscelli; mi dava l’impressione di potersi spezzare da un momento all’altro.
“È una storia”, disse. “È una grande storia. L’Imperatore di Giada vuole portare dodici splendidi animali terrestri agli esseri divini e uno di questi è il gallo. Poi viene un gigante, un gigante che costruisce gli uomini uno ad uno con il fango e dà loro vita con il fuoco. Dona loro il potere della memoria. Hai capito? Fango, fuoco, terra. Questo non è un anno per la Luna, è un anno per la Terra. Ti piacciono le storie?”
“Sì”, risposi. Non avevo mai sentito storie del genere. “Bravo. Come ti chiami, amico?”
“Bobby Alcott.”
L’Uomo Cappello si sfilò di nuovo la bottiglia dalla tasca e bevve, poi lasciò andare un sospiro rumoroso e si alzò.
“Bene, Bobby Alcott, è stato un piacere fare conversazione con te. Addio.”
Si girò e fece per andarsene, ciondolando sulle sue lunghe gambe vacillanti, con i pantaloni troppo corti che gli lasciavano scoperte le caviglie. Fu in quel momento, mentre guardavo quei pantaloni troppo corti, che decisi di non avere paura di lui.
“Aspetta!”, gridai.
Scattai in piedi e lo rincorsi. L’Uomo Cappello si girò; i paraorecchie del suo buffo cappello a righe gli ricadevano ai lati del volto.
“Aspetta”, ripetei. “Quali erano gli altri animali?” “Gli altri animali?”
“I dodici animali. Hai detto che c’era il gallo, ma quali erano gli altri?”
L’Uomo Cappello sorrise. “Oh sai, drago, toro, serpente, tigre, capra, coniglio… ma se chiedi a me la parte importante non è l’animale. La parte importante è l’elemento, è la terra. Tu non credi che sia importante la terra, Bobby? L’esplosione di fuoco, non credi che sia più importante del topo?”
“Credo di sì”, dissi.
L’Uomo Cappello mi rivolse un sorriso sdentato da clown.
“C’è qualcosa di importante in queste storie, Bobby, qualcosa di fondamentale. La gente non le ricorda più le storie. La gente va sulla Luna, fa quattro passi lassù e quello che succede quaggiù, puff, nessuno lo sa, nessuno lo ricorda. Dopo l’esplosione di fuoco in fondo che cos’è un topo?”
“Io posso ricordarlo”, dissi, spinto da non so quale impulso. “Posso scriverlo. Sai, sono piuttosto bravo a scrivere le cose, a scuola non sono niente male. Diventerò un professore un giorno.”
“Pensavo che tu giocassi a baseball.”
Mi strinsi nelle spalle. “Gioco anche a baseball.” “Giusto.” L’Uomo Cappello annuì e mi guardò con la
fronte aggrottata, poi scosse la testa. “Be’, professore o non professore tu devi scriverlo, Bobby. È a te che spetta farlo.”
“Ma cosa devo scrivere?”
L’Uomo Cappello mi guardò. I suoi occhi erano quasi neri e persino a meno di otto anni mi resi conto in qualche modo che c’era qualcosa di doloroso in quello sguardo.
Il mento dell’Uomo Cappello sussultò e, continuando a fissarmi, lui disse:
“Devi scrivere della terra e del fuoco.”
Aveva messo di nuovo la mano sopra alla mia testa.
In quel momento la porta di casa mia sbatté e sentii mia madre e mio padre precipitarsi correndo per il vialetto.
“Levagli le mani di dosso!”, ringhiò mia madre. Indossava i vestiti della domenica.
Appena la vide, l’Uomo Cappello sollevò la mano come se la mia testa tutt’un tratto fosse diventata bollente. I suoi occhi schizzarono veloci da me a mia madre e lui indietreggiò verso gli alberi e saltò sulla recinzione di una casa vicina. Malgrado le gambe vacillanti era veloce e agile come un gatto.
“Scendi subito di lì!”, gridò mio padre. “Quella è proprietà privata! Janine, chiama la polizia.”
“Subito, Tom”, disse mia madre. “Fammi solo prendere il ragazzo.”
Mi afferrò con tutte e due le mani per le spalle e cominciò a trascinarmi verso casa. Le teste dei nostri vicini avevano cominciato ad affacciarsi dalle porte e dalle finestre.
“Chiama la polizia, Janine!”, ripeté mio padre. “Bisognerebbe essere liberi di lasciare i propri figli a giocare per strada in un quartiere rispettabile!”
“Subito, Tom!”, disse mia madre.
“Che c’è?”, gridò Mary Anne, la nostra vicina della casa accanto. “Tom, che cos’è successo? Di nuovo lui? È arrivato fin qui?”
“Ma non si allontana mai dal fiume, sei sicuro che fosse lui?”, chiese un’altra donna.
“Come è vero che i nostri ragazzi sono sulla luna”, disse mio padre. “Diceva chissà che cosa a mio figlio Bobby.” “Al piccolo Bobby?” Mary Anne si coprì la bocca con
la mano. “Jim, Junior è dentro con te?”, gridò a suo marito, rivolta verso l’interno di casa sua. “Jim, è con te Junior?”
“Cose da pazzi”, bofonchiò mio padre, cercando di darsi un tono sotto agli sguardi di tutti gli abitanti della via.
Io riuscii a voltare la testa e guardarmi indietro poco prima che mia madre mi portasse in casa e si chiudesse la porta alle spalle; l’Uomo Cappello era sparito. Doveva aver saltato la recinzione dei nostri vicini ed era sparito nel nulla, in silenzio com’era arrivato. Per qualche motivo il fatto che fosse riuscito a scappare mi rendeva felice.
“Smettila di sorridere come uno scemo, Bobby Alcott”, mi rimproverò mia madre.
Mi mise a sedere su una sedia della cucina, si chinò davanti a me, mi prese il mento tra le dita e mi costrinse a guardarla.
“Ho detto di smetterla di fare quelle smorfie. Che cosa ti ha detto?”
“Chi? L’Uomo Cappello?”
“L’Uomo che cosa? Ma sì, come lo chiamate voi ragazzi. Certo che siete uno peggio dell’altro, ha ragione tuo padre quando dice che siete tutti scemi. Che cosa ti ha detto?”
“Niente”, mentii io. “Mi ha insegnato come battere bene a baseball.”
“Ancora con queste cretinate del baseball. E poi, che altro?”
“Nient’altro”, dissi io.
“Lo sai che tuo padre ed io non vogliamo che parli con lui. È un uomo pericoloso, Bobby! Un violento e un ubriacone, un vagabondo senza casa. Vuoi che ti rapisca e ti porti chissà dove, eh? Vuoi questo? Non pensi a che cosa ne sarebbe di tuo padre e me? Te lo dico io, moriremmo di crepacuore. Vuoi questo?”
“No!”, dissi io. “Non mi ha detto niente. Non ci parlo più, promesso!”
Il volto di mia madre era a pochi centimetri dal mio; riuscivo a vederle sui denti tracce del rossetto che si era messa quella mattina. Si metteva sempre tutta in ghingheri quando succedeva qualcosa di speciale, soprattutto di domenica. Mi fissò ancora, cercando di capire se le stessi dicendo la verità; aveva le labbra strette e una ruga sottile che le attraversava la fronte. Era giovane, mia madre, nel 1969 ed era una bella donna. Quella ruga sulla fronte la affliggeva moltissimo: cercava di stirarsela con le dita davanti allo specchio, la mattina, poi agitava un dito verso di me e mi diceva con voce bonaria che se aveva quella ruga era tutta colpa mia, perché io la facevo sempre preoccupare tanto.
Quel pomeriggio dovette decidere che non le stavo mentendo, perché la sua ruga si stirò e lei mi sorrise. Sospirò, mi passò una mano sui capelli e disse:
“Oh Bobby, Bobby. Non fa niente, dimentichiamo questa storia. Dimmi, ti va di sederti un po’ con noi davanti alla tv con un bel bicchierone di latte?”
Io annuii e corsi a sedermi in soggiorno.
Mentre passavo accanto alla finestra dell’ingresso lanciai un veloce sguardo alla strada, ma dell’Uomo Cappello non c’era traccia. C’era solo mio padre, intento a lamentarsi con i vicini e a raccogliere la mia mazza da baseball abbandonata sull’asfalto.
Quel giorno non parlammo più dell’Uomo Cappello. Mio padre rientrò in casa, appoggiò la mia mazza sul tavolo della cucina e ci raggiunse in soggiorno. Cenammo davanti alla televisione con del roast beef che mia madre aveva preparato apposta per l’occasione e guardammo il presidente Nixon che parlava alla nazione. Poi io mi addormentai sul divano e quando mi svegliai la mattina dopo ero nel mio letto e i miei vestiti erano piegati sulla sedia della scrivania.
Non pensai più all’Uomo Cappello per un po’. Le giornate scorrevano lentamente; noi bambini giocavamo a baseball in strada e giravamo per la città in bicicletta, mentre gli adulti sedevano all’ombra sulla veranda sorseggiando the freddo e parlando di questo o di quell’altro avvenimento politico, oltre che naturalmente dell’Apollo 11. Ma in fondo, come aveva detto l’Uomo Cappello, con tutto quello che succedeva sulla Terra cosa significava veramente aver raggiunto la Luna? Dopo l’esplosione di fuoco in fondo che cos’è un topo?
Quelle parole mi rigiravano per la testa e spesso mi sorprendevo fermo impalato con in mano la mazza da baseball a fissare la Luna pallida nel cielo del tardo pomeriggio e a domandarmi che cosa intendesse esattamente l’Uomo Cappello. Nessuno mi aveva mai parlato nel modo in cui mi aveva parlato lui. C’era un senso nelle sue parole o erano semplicemente, come le chiamava mio padre, “cretinate da ubriaco?” E io che cosa avrei dovuto scrivere? Che cosa avrei dovuto ricordare? Sapevo solo che, ruotando la mazza come mi aveva fatto vedere l’Uomo Cappello, riuscivo finalmente a battere delle palle tanto forti da farmi sentire come il grande Joe DiMaggio.
L’occasione di rivedere l’Uomo Cappello mi si presentò una sera, alla fine di luglio.
Ero rimasto seduto sul marciapiede davanti a casa fino a tardi con Junior, il figlio dei nostri vicini di casa. Junior aveva la mia età e aveva una collezione di figurine di giocatori famosi tanto ricca da riempire una scatola da scarpe. A me bastava vederne una e rigirarmela tra le mani perché i miei occhi brillassero come scintille, così Junior a volte le portava in strada e mi permetteva di guardarle mentre lui mi sorvegliava con sguardo attento.
Quella sera, mentre guardavamo le figurine e il cielo cominciava a riempirsi di lucciole, Junior si avvicinò a me con aria circospetta e mi disse:
“So dove abita l’Uomo Cappello. Me l’ha detto mio padre, mi ha fatto promettere di non andarci.”
“Dove?”, chiesi io.
Il cuore mi era saltato in gola e adesso mi batteva forte nelle orecchie.
“Non ci puoi andare mica, Bobby”, mi disse lui. “Tuo padre ti ammazza se ci vai.”
“Sei pazzo, no che non ci vado”, dissi io. “Voglio solo sapere dove abita.”
Junior si guardò intorno per assicurarsi che fossimo soli. “Va bene, ma guai a te se dici che te l’ho detto io”, mi sussurrò alla fine.
I nostri occhi luccicavano dall’eccitazione; le figurine giacevano dimenticate per un istante ai nostri piedi.
“Vive sull’argine del fiume, sulla strada verso Mobile”, disse Junior. “Mio padre ha detto che si è fatto una capanna fatta tutta di ossa. Ossa umane, Bobby! Ossa di bambini.”
“Non è vero.”
“E tu che ne sai? Non ci devi andare.” “Promesso”, dissi io.
Quella sera, quando fece buio, aspettai che i miei genitori andassero a letto. Vestito di tutto punto e nascosto sotto alle coperte, li ascoltai spegnere il televisore, andare in bagno e poi a letto. Le luci della casa si spensero e tutto piombò nel silenzio. Dalla mia posizione sul letto, riuscivo a vedere la Luna fuori dalla finestra e i rami degli alberi che si agitavano piano nel vento. Aspettai ancora un po’, poi sgusciai fuori dal letto e scesi le scale in punta di piedi. Uscii di casa nella notte.
La strada era deserta; qualche casa aveva ancora la luce accesa in una stanza o due, ma per la maggior parte erano ammantate dal silenzio e dal buio. Il caldo umido dell’estate dell’Alabama sembrava rendermi difficile persino respirare.
Feci tutta la strada in bicicletta, pedalando veloce come se qualcuno mi stesse inseguendo; attraversai la città e imboccai la strada asfaltata per Mobile e presto fui vicino al fiume. Era separato dalla strada da una striscia fitta di alberi e cespugli spinosi. Junior e io c’eravamo stati a giocare qualche volta, ma mai in quel punto perché i nostri genitori ci avevano proibito di spingerci tanto lontano. Abbandonai la bicicletta sull’erba al lato della strada e cominciai a camminare tra gli alberi con l’orecchio teso, attento a ogni rumore.
Non dovetti camminare molto prima di sentire la voce dell’Uomo Cappello che parlottava da solo come al solito, appena udibile sopra allo scrosciare incessante del fiume.
“Uomo Cappello?”, lo chiamai piano.
Poi mi feci coraggio, feci un respiro profondo e gridai: “Uomo Cappello!”
“Chi va là?”, gridò lui, ridacchiando.
Strinsi gli occhi per scrutare nell’oscurità. Davanti a me c’era il fiume; la luce della Luna si rifletteva pallida e tremolante sopra le acque che scorrevano. In piedi su un sasso a un paio di metri dalla riva c’era l’Uomo Cappello.
Appena mi vide si toccò la testa e si piegò in un inchino teatrale, poi spiccò un salto verso un sasso più vicino. Anche nel buio della notte riuscivo a vedere le sue gambe sottili barcollare e tremare per tenere l’equilibrio.
“Bobby Alcott!”, gridò lui.
Si sfilò la bottiglia dalla tasca della giacca e ne bevve un lungo sorso.
“Quale buon vento ti porta qui tutto solo di notte?”, mi chiese con voce gracchiante.
“Ti volevo parlare”, dissi io. “Ah sì? E di che cosa?”
“Di quella storia degli animali e del fuoco.” “L’Imperatore di Giada!”, esclamò l’Uomo Cappello.
Spiccò un balzo verso un altro sasso e per poco non cadde in acqua. Mulinò le braccia per ritrovare l’equilibrio. “E che cosa mi volevi chiedere sull’Imperatore di Giada? Hai visto come si sono arrabbiati l’altro giorno, Bobby? Mi hanno inseguito come il gatto col topo.”
“Già”, dissi io.
“Dopo tutto quello che ho fatto per loro, per tutti loro. Loro vanno sulla Luna, partono nelle loro belle navicelle spaziali, Neil Armstrong cammina dove nessun uomo ha mai posato piede prima e improvvisamente per loro ogni altro posto dove l’uomo ha già posato piede diventa privo di senso, non credi? È prospettiva.”
“Prospettiva?”
“Già, proprio così. Ma questo è l’anno della Terra, te l’ho detto. Oh le esplosioni, Bobby, avresti dovuto vedere le esplosioni. Neil Armstrong, lassù, immagino che quelle non le abbia viste. Nixon. Tu credi che Nixon l’abbia visto quel fuoco?”
“N-no”, risposi io.
L’Uomo Cappello sorrise e annuì. “Esatto.” Puntò un dito contro di me. “È per questo che devi scriverlo e ricordarlo tu, Bobby.”
“Che cosa?”, chiesi, esasperato. “Devo ricordare che cosa? Io non capisco!”
“Il fuoco!”, gridò l’Uomo Cappello. “Boom, il fuoco, e poi puff, la terra scompare. Non puoi mai chiudere occhio, mai riposare tranquillo, perché loro sono sempre in attesa pronti a far saltare anche te. Tieni, guarda qua.”
Saltellò di sasso in sasso verso di me. Ogni volta che i suoi piedi toccavano le rocce bagnate le punte delle sue vecchie scarpe sfioravano il pelo dell’acqua e io mi aspettavo che scivolasse e che cadesse giù. Si fermò su un sasso vicino alla riva e io mi sporsi sull’acqua per prendere quello che mi stava tendendo. Mentre mi sporgevo guardai sotto di me e vidi l’acqua nera con le nostre mani che spezzavano il riflesso della Luna, e poi alzai lo sguardo e vidi gli occhi dell’Uomo Cappello, che brillavano e luccicavano nel suo volto grigio con il sorriso da clown. Ritirai la mano e aprii il pugno; dentro c’era una catenina di metallo con due targhette attaccate. Non riuscivo a leggere le scritte delle targhette con quel buio, ma se ci passavo le dita sopra potevo sentire i piccoli solchi a forma di lettere.
“Appartenevano a un uomo”, disse l’Uomo Cappello, “che non è più qui. Forse è lui che dovresti ricordare, Bobby.”
Io sollevai lo sguardo.
“Ma non lo conoscevo neanche.”
“Non importa”, disse lui. “Avrei dovuto tenerle io, ma in fondo forse è meglio se le tieni tu.” L’Uomo Cappello sorrise. “Solo non farle vedere ai tuoi genitori.”
Recuperò la bottiglia dalla tasca e bevve un sorso. Poi schioccò la lingua con un risucchio, scrollò la testa e riprese a saltare da un sasso all’altro nel mezzo del fiume. A un certo punto si fermò, si strappò il cappello e lo gettò in acqua con un “Oooh!”, e in quel momento io la vidi, la cicatrice che gli separava i capelli in due sulla testa, come una striscia lucida e sottile, la crepa nel terreno che si crea durante un terremoto.
“Vola, Bobby”, cominciò a cantare lui. “Vola come un aquilone! Come una Fenice rinata dalle ceneri, inseguito come un topo nella buca piena di fango…”
Si allontanò fino a quando cominciai a non capire più cosa stesse dicendo. Era una sagoma scura, piccola e lontana, sospesa sul fiume. Allora mi resi conto di quanto fossi solo in mezzo al buio della foresta e corsi a perdifiato verso la bicicletta, con il cuore che mi batteva nelle orecchie e le medagliette strette in mano. Pedalai veloce come il vento, con il canto malinconico dell’Uomo Cappello che mi risuonava nelle orecchie e il suo sorriso sdentato negli occhi. Quando arrivai a casa lasciai la bicicletta abbandonata nel giardino e corsi dentro, salii i gradini a due a due, mi buttai sul letto e mi nascosi sotto alle coperte. Il cuore non smetteva di cavalcarmi nel petto e per qualche motivo sentivo addosso una terribile sensazione, come se mi fossi appena svegliato da un incubo. Quando mi addormentai ormai era l’alba.
Mi risvegliai tardi il giorno dopo con ancora i vestiti sporchi di fango addosso. C’era profumo di pancake nell’aria. Mia madre doveva aver aperto la finestra della mia camera mentre dormivo e adesso le tende color crema fluttuavano piano nella stanza, mosse dal vento. Sentivo il frusciare delle foglie, le risa concitate degli altri bambini per la strada, una radio accesa da qualche parte. Scesi per fare colazione.
Mio padre sedeva al tavolo della cucina in canottiera, con il sigaro tra le labbra e un giornale aperto tra le mani. Mia madre si era messa il grembiule e stava sistemando i pancake sui nostri piatti. Alzò gli occhi su di me e la sua fronte si aggrottò.
“Bobby, con tutti i vestiti che hai sempre quelli sporchi ti devi mettere? Cosa penseranno i vicini?”, sospirò.
“Senti qua, Janine”, disse mio padre. “Mary Anne, della porta accanto, stamattina mi ha detto che il vagabondo col berretto è morto. L’Uomo Cappello, o come lo chiamate voi ragazzi. È bello che andato.”
Mia madre portò i piatti e la bottiglia dello sciroppo d’acero sul tavolo.
“Ah sì?”, disse. “Be’, in fondo era solo questione di tempo.”
Mio padre annuì. “L’ha trovato Roxanne annegato del fiume.”
“Roxanne della tavola calda?”
“Già, non dev’essere stata una vista piacevole. Mary Anne dice che era sbronzo ed è annegato.”
“Quel pover uomo. Non sorprende nessuno.” “È caduto nel fiume e ha battuto la testa.”
Mia madre scosse la testa con un sospiro, poi guardò me e mi rivolse un sorriso. “Lavati le mani, Bobby, svelto, è pronta la colazione.” Mi accarezzò i capelli con la mano. “È una preoccupazione in meno, Tom”, disse intanto a mio padre. “Per tutta la gente della zona, è sicuramente una preoccupazione in meno.”
Mio padre annuì.
Io feci colazione in fretta e in silenzio con il cuore che mi martellava nel petto. Masticavo i pancake fino a ridurli in poltiglia con la strana sensazione di non riuscire a sentirne il sapore. Quando ebbi finito mi alzai e corsi in camera.
“Bobby, non hai neanche finito il latte!”, mi gridò dietro mia madre.
“Lascialo perdere, il ragazzino non pensa ad altro che al baseball”, borbottò mio padre da dietro al giornale. “Lascia che giochi.”
Io mi sbattei la porta della mia camera alle spalle, corsi sul letto e cominciai a frugare tra le lenzuola.
“Dove sei”, mormoravo tra me e me senza rendermene conto. Il cuore mi rimbombava ancora nelle orecchie. “Andiamo, dove sei…”
Finalmente trovai la catenina con le medagliette. Il metallo era freddo al contatto con le mie dita sudate. Avvicinai le medagliette al volto, socchiusi gli occhi e lessi “William Bolton”. La catenina era appartenuta a un certo William Bolton, l’Uomo Cappello l’aveva tenuta per lui. E adesso era diventata mia. Stringevo tra le mani le medagliette dell’uomo di cui avrei dovuto scrivere e ricordare la storia. Se solo l’Uomo Cappello non fosse morto avrei potuto correre da lui e chiedergli quale fosse questa storia. C’entrava il fuoco? L’Imperatore di Giada? Tutti questi nomi vorticavano confusi nella mia testa e io sapevo solo che non potevo chiedere nulla ai miei genitori, non potevo chiedere a Junior, perché sicuramente lui non aveva idea di che cosa stessi parlando, e non potevo più parlare nemmeno con l’Uomo Cappello. Seduto a gambe incrociate ai piedi del mio letto, quel giorno, credo che capii per la prima volta che effetto facesse la solitudine.
Rimasi così seduto per un po’, guardando le medagliette e chiedendomi che cosa fare, e poi mi venne in mente. Roxanne della tavola calda. La conoscevo, l’avevo già vista tante di quelle volte: era una donna pallida e magra, tutta ossa e muscoli contratti. Aveva una montagna di capelli rossi intrecciati e pennellate di trucco azzurro e verde sugli occhi. Era l’unica donna che conoscessi che fosse in grado di cacciare via a calci gli uomini dal suo locale quando bevevano troppo. Era stata Roxanne a trovare l’Uomo Cappello nel fiume quel giorno.
Senza nemmeno cambiarmi i vestiti macchiati di fango, mi infilai la catenina al collo e sotto la maglietta e corsi fuori dalla mia camera.
“Torna per pranzo, Bobby!”, mi gridò dietro mia madre. “E non stare troppo tempo con la testa al sole!”
Recuperai la bicicletta dal prato del giardino e ci saltai sopra senza neanche aspettare di essere in strada. Junior era seduto sul bordo del marciapiede davanti a casa sua; alzò lo sguardo, cercò di chiamarmi, ma poi tornò alle sue figurine. Io ormai pedalavo più veloce che potevo verso il centro, con la voce gracchiante dell’Uomo Cappello che mi risuonava nelle orecchie. Vola come un aquilone… come una Fenice… non avevo fatto in tempo neanche a chiedergli che cosa fosse una Fenice.
Quando arrivai alla tavola calda di Roxanne saltai giù dalla bicicletta e mi precipitai dentro senza nemmeno riprendere fiato. Corsi al bancone, mi arrampicai su una sedia e battei il palmo sul tavolo, cercando di richiamare la sua attenzione. Roxanne si girò verso di me e mi sorrise.
“Bobby Alcott!”, disse. “Come stanno mamma e papà?”
“Roxanne, devo chiederti una cosa”, ansimai io. “Hai trovato l’Uomo Cappello, vero? Sei stata tu a trovarlo.”
Roxanne si guardò intorno; eravamo soli nel locale. “Sì, ma… ti senti bene, Bobby? Vuoi una Coca Cola?”
Io scossi la testa. “No, grazie. Roxanne, se ti dico una cosa prometti di non dirla ai miei genitori?”
Mi fidavo di Roxanne; la conoscevo da tutta la vita ed era una donna in gamba, secondo il mio giudizio di bambino di quasi otto anni. Roxanne corrugò la fronte, si sporse sul tavolo davanti a me e mi guardò negli occhi.
“Certo, Bobby, di cosa si tratta?”
Era per questo che mi piaceva: mi guardava con aria seria e mi sembrava veramente una donna in gamba.
“L’Uomo Cappello mi ha dato una cosa”, le dissi, poi tirai fuori le medagliette da sotto alla maglietta. “Guarda. Mi ha detto di tenerle per lui, lui le teneva per un uomo che conosceva.”
Roxanne allungò le dita dalle unghie laccate verso di me e lesse in silenzio il nome sulle medagliette. Io la guardavo in attesa, a malapena in grado di stare fermo per l’agitazione.
“Allora?”, le chiesi. “Lo conosci? Mi devi aiutare a trovarlo, gli dobbiamo parlare.”
Roxanne lasciò andare le medagliette, poi sospirò e alzò lo sguardo su di me.
“E perché gli vuoi parlare, Bobby?”, mi chiese. La sua voce suonava improvvisamente stanca. “Cosa vuoi dirgli?”
Io scrollai le spalle. “Dobbiamo dargli le medagliette e poi io devo scrivere qualcosa su di lui, il problema è che non so neanche chi è. L’ho promesso all’Uomo Cappello.”
Un uomo entrò alle mie spalle, un anziano dalle guance coperte di barba ispida e grigia, un po’ incavate per la mancanza di denti. Roxanne gli lanciò un’occhiata e mi parlò a bassa voce. “Non devi pensare più all’Uomo Cappello adesso. Non c’è più, Bobby, è andato. Non importa che cosa gli avevi promesso.”
“Sì che importa! Tu conosci questo nome, lo so.” “Non ha più importanza adesso.” Roxanne si raddrizzò e tese una mano. “Dai a me le medagliette.” “No!”, esclamai io, stringendomele al petto.
“Bobby, cerca di capire”, disse Roxanne. “L’Uomo Cappello non c’è più! Devi smetterla di pensarci.”
“Gli ho promesso che avrei scritto di William Bolton, quindi devo trovare William Bolton! L’ho promesso all’Uomo Cappello!”, gridai.
“William Bolton?”, gracchiò il vecchio dalle guance incavate alle mie spalle.
Io mi voltai di scatto. “Lo conosce?” “George!”, disse Roxanne.
“Tutti conoscono William Bolton, ragazzo”, rise il vecchio. “L’Uomo Cappello è William Bolton. Figlio di John e Rose, sposato con la povera Louise Dallinger. Nessuno lo chiama più col suo nome dopo l’incidente con la moglie, ma tutti ricordano chi è da queste parti.” Agitò una mano. “Brutta faccenda, difficile da dimenticare.”
“Quale incidente?”, mormorai io.
Le mie mani erano diventate improvvisamente di ghiaccio.
“George”, mormorò Roxanne.
Il vecchio mi guardò strabuzzando gli occhi infossati. “Voi ragazzi non sapete neanche da che parte della Terra vivete al giorno d’oggi. Lo sanno tutti: William Bolton è tornato dal Vietnam un po’ rintronato. Come credi che se la sia fatta quella ferita alla testa? Un granata, dritta nel cervello. Non c’è da stupirsi se poi sognava Vietcong ed esplosioni tutte le notti. E poi una di queste notti si è tirato su di colpo, ha preso la pistola e ha sparato a sua moglie nella testa. Pensava fosse un Vietcong, lei stava cercando di svegliarlo.”
Il vecchio si strinse nelle spalle. “È stato dentro per un po’ ma poi l’hanno lasciato andare; ormai era troppo fuori col cervello. E poi in ogni caso lo sapevano tutti che sarebbe finito annegato nel fiume prima o poi. Brutta storia, sì, ma era inevitabile.” Puntò un dito contro di me. “Ricordatelo bene, ragazzo.” Calò il silenzio nella tavola calda. Il vecchio mi guardava e annuiva soddisfatto. Io guardai Roxanne, ma lei adesso teneva lo sguardo basso e non parlava.
“È così?”, mormorai.
Le parole mi uscirono strozzate. Roxanne fece un respiro profondo e non disse niente, così io mi alzai di scatto dalla sedia e corsi fuori.
“Bobby!”, la sentii gridare.
“Che diavolo gli prende?”, borbottò il vecchio.
Corsi fuori senza neanche guardare dove stavo correndo; attraversai la strada, mi lanciai tra le case, corsi fino a sentire la milza che mi faceva male. Quando fui senza fiato caddi a sedere sul tronco di un albero caduto, al lato di una strada. Davanti a me un paio di bambini giocavano a dondolarsi su una corda legata ad un ramo; io mi strappai la catenina dal collo e la guardai. Avevo gli occhi annebbiati dalle lacrime.
“Bobby Alcott!”, ansimò Roxanne, senza fiato.
Si lasciò cadere sul tronco vicino a me e si asciugò la fronte col dorso della mano; doveva avermi seguito fin lì. Chissà chi c’era adesso nella tavola calda.
“Bobby, mi dispiace che tu l’abbia dovuto sentire così”, disse. Mi posò una mano sul braccio.
“Bobby?”
“Io credevo che fosse un uomo buono”, mormorai io. “Ma lo era!”, esclamò Roxanne.
“Credevo che i miei genitori si sbagliassero! E invece avevano ragione.”
“Lui era un uomo buono!” “No!”
“Bobby, guardami, guardami!”
Io alzai lo sguardo e scossi la testa.
“Roxanne, ha sparato a sua moglie con una pistola.”
Roxanne mi guardò; il trucco azzurro e verde sui suoi occhi somigliava alle ali di una farfalla. I capelli rossi intrecciati in decine e decine di treccine le ricadevano sulle spalle come la criniera di un leone. Avvicinò il volto al mio. “Il Vietnam ha ucciso Louise e William Bolton, Bobby”, mi disse a bassa voce. “Il Vietnam. Non William Bolton.”
“Il Vietnam”, ripetei io, senza capire.
“Forse è questo che lui voleva che tu scrivessi”, concluse lei, poi mi passò un braccio attorno alle spalle. “Ma non adesso, Bobby, non adesso. Adesso vai a casa, metti quelle medagliette in un cassetto e gioca a baseball o qualunque cosa tu voglia. Un giorno scriverai di William Bolton, quando capirai, ma non adesso. Hai capito?”
Io tirai su col naso e annuii.
“Me lo prometti?”, chiese Roxanne. Io sospirai. “Promesso.”
“Sei un bambino in gamba”, sorrise lei e mi scompigliò i capelli sulla testa.
Così io tornai a casa e misi le medagliette in un cassetto e giocai a baseball.
E quando una settimana fa tornai in Alabama per vendere la casa dei miei genitori, aprii per caso il cassetto e, sotto a un libro, trovai quelle medagliette.
Non sono diventato un giocatore di baseball professionista. Non sono diventato nemmeno un professore, come voleva mia madre, ma sono stato a Harvard da studente e, ve lo assicuro, nessuno nella storia della mia squadra aveva mai avuto una battuta potente come la mia. Ogni volta che facevo ruotare la mia mazza e colpivo la palla dagli spalti si levava un boato e io chiudevo gli occhi per un istante e non immaginavo più di essere Joe DiMaggio vincitore nel mezzo dello stadio; invece vedevo la strada di casa mia in Alabama e vedevo la Luna alta sopra di me con Neil Armstrong nella sua tuta spaziale che si preparava a farci il primo passo saltellante sopra e vedevo l’Uomo Cappello che si chinava su di me con le sue gambe e le sue braccia ciondolanti, mi faceva l’occhiolino, mi rivolgeva quel suo strano sorriso malinconico da vecchio clown sdentato e mi diceva:
“Dio mi fulmini se quello non era un fuoricampo, ragazzo!”
E poi una settimana fa ho trovato quelle medagliette e allora ho capito che era arrivato il momento per me di sedermi a un tavolo e di scrivere.
Questa è la mia storia dell’Uomo Cappello.
Biografia: Francesca Quarta
Nata a Roma nel 1994. Dal 2009 vive a Bolzano dove ha frequentato il Liceo Classico Carducci, conseguendo la maturità nel 2012. Ha studiato in seguito per un anno Ingegneria Edile e Architettura all’Università di Trento, per poi cambiare completamente campo e dedicarsi alle Lettere Moderne.
Appassionata di letteratura, cinema e musica, nel tempo libero scrive sul suo blog Crazy Ink Drops e suona la chitarra.
Ha frequentato numerosi corsi di scrittura creativa e nel 2014 ha vinto il Premio Poesia della Città di Bolzano. Ha partecipato all’edizione 2014-2015 del corso Giovani in Scena organizzato dal Teatro Stabile di Bolzano.
Da sempre interessata alla lingua inglese, ha collaborato con la Frabiato Film occupandosi dei sottotitoli in inglese per il film Strings.
Premio letterario Merano-Europa 2015
COMITATO ORGANIZZATORE - ORGANISATIONSKOMITEE
- Enzo Coco - Presidente del Passirio Club
- Aldo Mazza - Alpha Beta
- Ferruccio delle Cave - Südtiroler Künstlerbun
- Giuseppe Fornasier - Segretario del Passirio Club Merano
- Paolo Valente - Referente giurie