- Premio letterario Merano Europa – Tredicesima edizione 2019
- I vincitori della 13^ edizione – Die Sieger der 13. Ausgabe
- Tina Caramanico – Narrativa in italiano – Italienische Erzählprosa
- Hugo Ramnek – Narrativa in tedesco – Deutsche Erzählprosa
- Finalisti: gli autori e le opere – Finalist-innen Autoren und Werke
- Ivana Gini – Narrativa in italiano – Italienische Erzählprosa
- Fabrizio Tumolillo – Narrativa in italiano – Italienische Erzählprosa
- Maximilian Gasser – Narrativa in tedesco – Deutsche Erzählprosa 2019
- Barbara Pumhosel – Narrativa in tedesco – Deutsche Erzählprosa 2019
- Giuria 2019 – Jury 2019
- Bando 2019
- Ausschreibung 2019
- Traduzione dall’italiano al tedesco 2019
- Traduzione dal tedesco all’italiano 2019
Premio Letterario Internazionale Merano-Europa –Tredicesima Edizione – 2019
Internationaler Literaturpreis Merano Europa 13. Ausgabe 2019
Narrativa in italiano – Italienische Erzählprosa 2019
Finalista
Fabrizio Tumolillo
Turno di notte
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“Gonna be a long night It’s gonna be all right On the nightshift
Oh, you found another home I know you’re not alone
On the nightshift” (“Nightshift”, Commodores)
Mi preparo per il turno di notte in vetreria.
Indosso i soliti abiti: jeans neri, calze nere, camicia nera, golfino nero, scarpe nere, giubbotto nero.
Mi faccio un panino per la pausa, spengo la luce, esco da casa.
La vetreria è a venti minuti di macchina. Lavoro al reparto fusione.
In teoria avrei diritto a ruotare ogni due settimane su altri turni e altri reparti ma alla fusione nessuno ci vuole stare per il caldo che butta fuori la fornace industriale.
Quando chiesi al direttore di stabilimento di tenermi fisso lì nel turno di notte rispose di sì all’istante.
Alle 7 del mattino, finito il turno, tolgo la tuta ignifuga, faccio una doccia, mi rimetto gli abiti e torno a casa.
Faccio un pasto a base di frutta, bevo mezzo litro di tisana e vado a dormire.
Alle 16 mi sveglio e corro per 5 chilometri nel parco dietro casa, sempre lo stesso percorso.
Rientro a casa e faccio 200 addominali intervallati da 50 flessioni.
Entro in doccia, ceno e mi preparo per il turno di notte in vetreria.
Sempre così, dal lunedì al sabato.
A metà del turno abbiamo una pausa da 45 minuti.
Ne farei a meno ma per una qualche legge sulla sicurezza nei lavori a rischio tocca fermarci.
Abbiamo una sala mensa con sedie, tavoli, forni a microonde, calciobalilla e televisore.
Mi limito a mangiare il mio panino imbottito.
Speck e cotto nei giorni pari, emmenthal e pollo nei giorni dispari. Per variare.
Ci bevo sopra due bottiglie da mezzo litro di acqua frizzante prese al distributore.
Sudo molto alla fornace. Occorre reidratarsi. Chiudo con un caffè preso al distributore.
Impiego una quindicina di minuti. Finito il pasto esco in cortile a fumare.
Con un mezzo Garibaldi trascorro i trenta minuti rimanenti.
Non tocco altro tabacco nell’arco delle 24 ore. Guardo le stelle e cerco di pensare a nulla mentre fumo.
Questa notte in cortile mi raggiunge Nicola, il capoturno.
Mi chiede l’accendino. Glielo passo. “Freschino stanotte.” Annuisco.
Vuole attaccare bottone. Non è una persona cattiva ma non mi va di parlare.
Raramente mi va di farlo. “Tutto ok?”
“Tutto ok”, rispondo.
“Senti, a me sembri esaurito, detto senza mezzi termini. Forse è il caso che cambi turno.”
“Sono un po’ stanco in questo periodo. Ti ringrazio ma sono a posto così.”
“Ma da quanto tempo fai il turno di notte alla fusione?”
Valuto per un attimo cosa rispondere. Che dico?
Che faccio questo turno dal 21 marzo del 1998? Da ben prima che lui fosse assunto in vetreria? Glielo dico?
Lascio perdere.
“Ormai è da un po’ ma va bene così, preferisco avere la giornata libera. Davvero, grazie.”
Getta il mozzicone in terra e rientra senza dire una parola.
Dopo una ventina di minuti faccio lo stesso anch’io.
Alle sette suona la sirena di fine turno.
Lascio le consegne a chi arriva, vado nello spogliatoio, tolgo la tuta ignifuga, faccio una doccia, mi rimetto gli abiti e torno a casa.
Oggi è sabato, domani non si lavora. Il programma cambia di poco.
Faccio un pasto a base di frutta, bevo mezzo litro di tisana e vado a letto.
Alle 16 mi sveglio, indosso l’abbigliamento da corsa e faccio 5 chilometri nel parco dietro casa.
Rientro a casa, 200 addominali intervallati da 50 flessioni.
Faccio una doccia e mi preparo per uscire: jeans neri, calze nere, camicia nera, golfino nero, scarpe nere, giubbotto nero.
Il sabato sera ceno in pizzeria da Vittorio.
Ordino una marinara con doppie acciughe e una birra media, poi un caffè, meringata e limoncello.
L’unico sfizio della la settimana.
Verso la fine della serata Vittorio viene a sedersi al tavolo.
Ha sempre voglia di parlare.
Mi racconta della nipotina di cinque anni, delle tasse, delle continue liti con il Comune per i tavolini fuori sulla piazza. Lo ascolto parlare per mezz’ora cercando di non concentrarmi su alcuna frase in particolare.
Lascio che il flusso delle parole mi scivoli addosso, anche se esternamente può sembrare che io sia interessato.
Comunque è una brava persona Vittorio, con i suoi baffi a manubrio e la sua pancia debordante.
Logorroico, ma comunque una brava persona. Lui lo sa e ci scherza sopra.
“Sei l’unico che mi ascolta, qui dentro” mi ripete. Per le 23 sono a casa e vado a dormire.
Esclusa la prima domenica del mese, le altre le trascorro all’Ikea.
Mi sveglio alle 7, faccio colazione, mi preparo, esco da casa alle 8.
Alle 9, quando aprono i cancelli, entro.
Faccio un primo giro, lento, per vedere se ci siano novità.
Ne faccio un secondo per decidere cosa acquistare. Segno gli articoli, la quantità e il loro posto negli scaffali su un foglio di carta.
Al terzo giro con il carrello li prendo, li pago e li carico in auto.
Di solito acquisto qualche contenitore della serie Samla.
«Ideale per organizzare i piccoli oggetti, come le mollette per il bucato, gli utensili e molto altro. La plastica trasparente ti permette di vedere il contenuto, così trovi subito quello che cerchi» è scritto sulla scheda del pro- dotto.
Hanno ragione. Sono ideali per organizzarsi la vita.
Ne ho oltre duecento sugli scaffali componibili Ivar che ho messo in cantina, in lavanderia e nel garage su tutte le pareti libere.
Ne esistono di differenti misure e capienza.
Se qualcuno è troppo vuoto o troppo pieno acquisto contenitori più piccolo o più grandi in cui ripartire il
contenuto e riciclo i primi per ottimizzare a loro volta altri contenitori.
Parrebbe che a un certo punto si possa arrivare alla fine di questa continua riorganizzazione ma non è così.
Non c’è fine al mettere in ordine le cose, i ricordi, tutto.
Una volta caricato quanto acquistato in auto rientro e vado a pranzare al ristorante svedese.
Prendo una porzione di salmone Gravad marinato con salsa all’aneto come antipasto poi le Köttbullar, dieci polpette di carne con puré, salsa a base di panna e mirtilli ros- si, la torta di mandorle Chokladkrokant e una bottiglietta di acqua.
Poi bevo il caffè offerto ai soci con la tessera Ikea Family.
Se uno o più di questi prodotti è finito oppure non è disponibile quel giorno non lo sostituisco con un altro.
Semplicemente lo salto. Succede raramente.
Dal 2005 a oggi ho saltato tre volte il salmone Gravad, una volta le Köttbullar e due volte la torta Chokladkrokant.
La prima domenica del mese mi sveglio alle 7, faccio colazione, mi preparo ed esco da casa alle 8.
Salgo in auto, guido per un’ora e arrivo alla Piccola Casa dell’Accoglienza della Vergine Santissima in tempo per l’apertura dell’orario di visita.
Salgo le scale fino al terzo piano, supero una porta a vetri, attraverso un corridoio che odora di disinfettante e brodo riscaldato, arrivo all’ultima stanza in fondo a destra ed entro.
Come sempre anche stamattina Anna è seduta sulla poltrona in finta pelle nel centro della stanza. Osserva un punto fisso della parete.
Sempre quello.
Prendo una sedia, l’avvicino e mi piazzo di fronte a lei. “Ciao, Anna.”
Non le chiedo come sta, non dico altro. Sarebbe inutile. Mi limito a stare lì a osservarla nel vuoto dei suoi occhi,
bellissimi quando era giovane.
Ora è come se si fossero cristallizzati.
Come il vetro opaco di una finestra dimenticata da anni. Cose del genere.
Dopo un po’ di solito passa la Madre superiora.
Fa il giro delle stanze per salutare le famiglie in visita.
Prende una sedia, si mette fra noi due e prende una mano di Anna.
“Buongiorno, come sta?”, mi chiede. “Sto bene, sorella. Lei come sta?” “Bene, ringraziando il Signore.”
Parliamo per un po’ di cose generiche con lei che continua a tenere la mano di Anna, sporgendosi ogni tanto per darle una carezza sulla testa.
Quando la Madre superiora si alza mi alzo anche io e usciamo.
A quel punto di solito mi parla di Anna. Di come ha
mangiato durante la settimana, se ha avuto febbre o malesseri, se ha fatto qualche visita periodica di qualche me- dico specialista.
Poco altro. Novità non ce ne sono. Da anni.
Poi mi chiede di me, se abbia deciso di fare qualche cura, qualche analisi.
Nemmeno qui ci sono novità.
Si raccomanda della mia salute, mi invita a fare quei controlli di cui abbiamo parlato più volte.
Ripeto che li farò.
Poi dice la solita frase che resta a mezz’aria.
“Anche potrà non sembrarle, Anna ha bisogno di lei. Abbia cura di se stesso.”
Torno a casa e come ogni prima domenica del mese faccio un pasto leggero a base di pasta condita con pomo- doro fresco, mangio un frutto e vado a dormire.
Alle 16 mi sveglio e faccio i 5 chilometri nel parco dietro casa.
Rientro a casa e faccio 200 addominali intervallati da 50 flessioni.
Entro in doccia, ceno e mi preparo per il turno di notte in vetreria.
Alle sette suona la sirena di fine turno.
Lascio le consegne al collega del turno successivo, va- do nello spogliatoio, tolgo la tuta ignifuga e faccio la doccia.
Mentre mi sto vestendo mi richiamano in reparto. C’è un problema tecnico.
Mi chiedono alcune informazioni sulle temperature di fusione, sui massimi e sui minimi durante il turno.
Questioni tecniche.
Se ne sta occupando Nicola.
“Ok, grazie, vai a casa. Io ne avrò ancora per un po’”, mi dice congedandomi.
Rientro nello spogliatoio, prendo le mie cose ed esco. Fuori dal cancello quasi inciampo in una ragazza bion-
da su una carrozzina.
La osservo.
Ha entrambe le orecchie bucate da piercing. Alla narice sinistra ha una specie di anello.
Indossa un giubbotto di cuoio, dei fuseaux a righe bianche e azzurre che le fanno risaltare le gambe prive di tono muscolare e un paio di anfibi neri.
È seduta su una carrozzina rosso fiammante.
Per non passare inosservata si è anche tinta di rosa un ciuffo di capelli.
Mi osserva a sua volta poi mi fa una domanda. “Dov’è Nicola?”
“Nicola il capoturno?”, le chiedo.
“Quanti Nicola conosci che lavorano in questa vetreria?”, domanda a sua volta.
Penso che non lo so, non ho idea, non mi sono mai po- sto il problema e comunque chi se ne frega.
“Se intende Nicola il capoturno di notte si è dovuto fermare per un problema tecnico. Ne avrà per molto.”
Pare pensarci per alcuni secondi poi mi fa la terza do- manda della mattina.
“Me lo dai un passaggio?” “Un passaggio?”
“Ma sei sordo? Sì, un passaggio. Roba di una trentina di chilometri.”
Ci sto capendo niente.
“Scusi ma lei chi è? La moglie di Nicola?”
“Sono sua sorella, fenomeno. Me lo dai o no il passaggio?”
Sono già stanco di lei, di Nicola e della sua carrozzina e ho già capito che questa specie di punk isterica mi farà perdere solo del gran tempo ma amen, annuisco con la te- sta e faccio segno di sì.
Arriviamo al parcheggio con lei che supera gradini e dislivelli con una fluidità di movimenti che non immaginavo potesse avere.
“Mi dica lei come posso aiutarla a salire” dico una volta alla macchina.
“Apri lo sportello sul lato del passeggero e poi fai nulla, fenomeno.”
A me a quel punto cominciano a girare. Lei forse se ne accorge, forse no, fatto sta che dopo essersi spostata dentro la macchina ed essersi sporta a ripiegare la carrozzina mi chiede di metterla nel bagagliaio.
“E smettila di darmi del lei.”
Poi, quando sono salito, mi porge la mano.
Dice di chiamarsi Letizia, di avere quattro anni meno di Nicola.
Mi presento a mia volte.
Mi dice che lavora come tecnico informatico in un paese vicino, dove ci stiamo dirigendo, che è paraplegica dall’età di 15 anni per un incidente in motorino mentre un ragazzo la riaccompagnava a casa dopo averci provato al cinema e di avere ricominciato da capo a fare tutto in carrozzina.
Vive con Nicola al piano terra della villetta, a 500 metri dalla vetreria, che hanno comprato insieme dividendo proprietà e ingressi ma vuole trasferirsi. Apprendo quindi che Nicola è sposato e ha un bambino piccolo, cose che di Nicola in effetti non ho mai saputo.
Questa mattina la macchina non le è partita. Sua cognata era già uscita a portare il piccolo al nido e lei aveva provato a chiamare Nicola sul cellulare.
“Dobbiamo lasciarlo negli armadietti per motivi di sicurezza”, le spiego.
Fatto sta che si era presentata all’ingresso per chiedere un passaggio a Nicola.
“E invece mi ritrovo te, fenomeno. Guarda i casi della vita…”
Non capisco se mi stia sfottendo.
Nell’indecisione, continuo a guidare senza pronunciare parola e seguendo le sue istruzioni.
Arriviamo alla palazzina in cui lavora. Mi indica il quarto piano.
“L’ufficio è lì.”
Scendo, prendo la carrozzina dal bagagliaio, l’apro, l’avvicino al lato del passeggero e apro la portiera.
Lei si sporge per uscire. “Dammi le braccia” mi intima.
Gliele porgo, lei si appoggia e si sposta dal seggiolino alla carrozzella.
Nel momento esatto in cui si siede, mentre mi sta ancora tenendo, mi dà un bacio sulla guancia.
Un bacio vero.
Distinguo nettamente forma e calore delle labbra sulla pelle.
Resto fermo lì come un cretino.
Lei mi sorride e fa una mezza retromarcia per infilarsi sulla pedana che conduce al condominio.
“Grazie, fenomeno. A presto.” “A presto.”
Non so che altro dire.
Quando torno a casa sono le 10 passate.
Il ritmo della mattina è irrimediabilmente saltato. Penso al da farsi.
Rinuncio al pasto a base di frutta e al mezzo litro di tisana e vado a letto.
Alle 16 sono in piedi, indosso l’abbigliamento da corsa e vado a fare i 5 chilometri nel parco dietro casa.
Rientro a casa per i 200 addominali intervallati da 50 flessioni.
Entro in doccia, ceno e mi preparo per il turno di notte in vetreria.
Faccio tutto questo cercando di evitare di pensare a Letizia.
La mattina dopo, alla fine del turno, perdo tempo nello spogliatoio.
Lascio che Nicola saluti e se ne vada. Attendo qualche minuto ed esco.
Letizia è lì, fuori dal cancello della vetreria, come immaginavo.
Mi sta aspettando e io sento come la sensazione di qualcosa che stia andando in tilt.
Un motore che si inceppa, un puzzle che cade da un tavolo.
Difficile da spiegare però lei è lì che sta aspettando me e quando mi vede mi sorride e a me viene da pensare che nonostante il ciuffo rosa, l’anello al naso, i piercing ai padiglioni delle orecchie, le gambe secche che si intravedo- no dai jeans strappati e la giacca arancione che indossa oggi, nonostante tutte queste inutili sovrastrutture che non dimenticherò mai, è una bella ragazza anche se fa di tutto per non darlo a vedere.
Mi viene da pensare questo e mi viene da pensare che la mattina prima non l’avevo notato.
Adesso però lo noto e non capisco se mi faccia piacere o no pensare che questa ragazza mi stia aspettando.
Anche solo per farsi accompagnare al lavoro. “Fenomeno, me lo dai un passaggio? Ho la macchina
dal meccanico. Me la restituisce giovedì sera.” Appunto.
“Nicola è uscito poco fa. Non lo hai chiesto a lui?” “No. Preferisco chiederlo a te.”
Resto perplesso. Non voglio entrare nelle loro dinamiche familiari.
“Lo sa che eri qui ad aspettare me? Che ne pensa?”
“Guarda che sono sua sorella, mica sua figlia. Andiamo?”
Da quel giorno Letizia ha preso a farsi trovare tutte le mattine davanti al cancello della vetreria.
La accompagno in ufficio e la sera va Nicola a riprenderla.
Ho dovuto adattare i ritmi della giornata per evitare il caos.
La sera preparo una macedonia e il mezzo litro di tisana, porto il tutto al lavoro e faccio colazione nello
spogliatoio, finito il turno, prima di incontrarla. Nicola non ha detto una sola parola della faccenda durante i turni di notte fatti insieme.
Ieri era giovedì. Il meccanico le ha restituito la macchina, mi chiedo cosa succederà oggi.
Quando esco la vedo. Mi aspetta sul piazzale oltre il cancello seduta nella sua auto.
Mi fa un cenno con la mano. Mi avvicino.
“Fenomeno, oggi ti va bene. Niente servizio taxi. Con- tento?”
Poi cala il carico.
“Ci si vede nel fine settimana?”
Passo in rassegna il programma di sabato e domenica, quello che posso modificare, quello che posso sacrificare, le cose da non toccare.
“Possiamo fare una pizza sabato sera.”
“Naaaa”, risponde. “Scusa?”
“No. Sono a cena con le amiche. Ti va un giro da qual- che parte domenica?”
“Domenica sono tutto il giorno all’Ikea.” “All’Ikea? Tutto il giorno?”
“Sì. Se ti va possiamo mangiare lì.” Ora è perplessa lei.
“Devi comprare qualcosa di particolare?” “No.”
Vorrebbe fare altre domande ma evidentemente deve partire per il lavoro.
“Vada per l’Ikea, fenomeno. Scambiamoci i numeri di cellulare, domani ci aggiorniamo per dove e quando vederci.”
“Non ho il cellulare.” Mi osserva.
“Sei strano.”
Il momento di silenzio che segue me lo ricorderò per sempre come una specie di crocevia.
Se rifiuta la domenica all’Ikea tutto continuerà come ora.
Se accetta salteranno ritmi, schemi, orari. Sarà tutto da ricostruire.
“Vada per l’Ikea. Mi passi a prendere a casa?” Sarà dura ricostruire tutto da zero. “Domenica alle otto e un quarto passo.”
“Ok. A domenica. Avvicinati.” Mi avvicino.
Mi prende per il giubbotto, mi tira a sé con una forza di braccia che non immaginavo e mi dà un bacio sulle guance.
Un bacio vero.
“A domenica, strano fenomeno.”
Sarà difficilissimo ricostruire tutto da zero. Un disastro.
Pensavo che la domenica all’Ikea con Letizia sarebbe stata un disastro.
Invece è stato uno dei giorni più belli della mia vita.
Letizia non si è infastidita per il mio continuo entrare e uscire dal negozio, per le mie spiegazioni su come ottimizzare gli spazi con i contenitori Samla.
Le è piaciuto mangiare al ristorante svedese e prima di andare via ha voluto tornare nel reparto per comprare una serie di sottovasi Bittermandel per le sue piante grasse.
Il pomeriggio, quando l’ho riaccompagnata a casa, ci siamo baciati in macchina.
Questo è successo un mese e mezzo fa.
In questo tempo ho cercato di inquadrare la presenza di Letizia in uno schema quanto più possibile ordinato di orari a cui incontrarci, luoghi in cui andare, cose da fare insieme.
Un disastro, questo invece sì.
Il suo disordine, i suoi ritmi altalenanti, i ritardi, gli anticipi, i cambi di programma in corso e di idea, tutto questo caos mi appare sempre più ingestibile.
Oggi è sabato, domani non si lavora.
Rientro dal turno di notte in vetreria, faccio un pasto a base di frutta, bevo mezzo litro di tisana e vado a letto.
Alle 16 suona la sveglia. Metto l’abbigliamento da corsa. Cinque chilometri di corsa e 200 addominali intervallati da 50 flessioni a casa.
Faccio la doccia e mi vesto: jeans neri, calze nere, camicia nera, golfino nero, scarpe nere, giubbotto nero.
Vado da Vittorio.
Ordino la marinara con doppie acciughe, la birra me- dia poi il solito: caffè, meringata e limoncello.
Quando quasi tutti i clienti sono usciti Vittorio viene al tavolo.
Mi racconta della cognata con cui è in guerra per la vendita di un terreno confinante con la sua proprietà, del- la multa che gli è arrivata per certi arretrati della tassa sui rifiuti, della causa che gli ha fatto un ex dipendente che ha cacciato dopo avere scoperto che gli rubava le latte di pomodoro.
Questa volta lo ascolto parlare per mezz’ora poi butto lì una frase.
“Vittorio, sto frequentando una ragazza.”
Scoppia a ridere, con i baffi a manubrio che si inarcano e la pancia che gli si scuote.
“In tutti questi anni è la prima volta che mi dici una cosa del genere. E io che pensavo che tu fossi una specie di frate eremita dedito all’astinenza in tutte le sue forme. Mai una pizza con zola, funghi e pancetta piccante da quando hai messo piede qui dentro.”
“È una brava ragazza però non so come gestire la cosa. È strana.”
“E che significa strana?” Ci penso.
Già, che significa strana? Forse che io sia normale?
“Non so… Ha i capelli tinti di rosa.”
Riprende a ridere di petto poi si fa serio e sembra pensarci un momento.
“Assicurati di avere le mani pulite bene prima di toccare il cuore di una persona. È una frase di Anna Magnani, un’attrice che la tua generazione forse si ricorda ancora vagamente. Quelle di oggi manco a parlarne. Significa che ci si deve pensare a lungo prima di diventare il centro del mondo di una persona. Tu ci stai ancora pensando. Vero?”
Pare che non esca mai da qui invece Vittorio la sa lunga su come gira il mondo.
Oggi è la prima domenica del mese.
Nei giorni scorsi ho detto a Letizia che non ci si vede oggi.
Non le ho spiegato il motivo. Lei non me lo ha chiesto. “Va bene, fenomeno” ha detto.
Ci siamo accordati per cenare insieme sabato prossimo.
Ha insistito per andare in un posto che non conosco a mangiare certe specialità di pesce che non ho mai assaggiato. Ho detto va bene anche se avrei dovuto dire di no.
Esco di casa e alle 9 sono alla Piccola Casa dell’Accoglienza.
Salgo al terzo piano, oltrepasso la porta a vetri, attraverso il corridoio impregnato di odori, arrivo all’ultima stanza in fondo a destra.
Anna fissa la parete seduta sulla poltrona. Mi sistemo di fronte a lei.
“Ciao, Anna.”
Stiamo in silenzio per una decina di minuti, i miei occhi affogati nei suoi.
“Ho conosciuto una ragazza.” Passano altri dieci minuti di silenzio. Anna non muove un muscolo. Nessuna reazione, niente di niente.
Come la superficie immobile di un lago senza vita. Me lo aspettavo, dopo tutto.
Ho capito cosa fare.
Non aspetto che arrivi la Madre superiora. Mi alzo e vado via.
Mi preparo per il turno di notte in vetreria.
Incarto il panino, esco di casa, salgo in auto.
Arrivo, entro, metto gli abiti da lavoro e comincio il turno all’altoforno.
A metà del turno suona la sirena della pausa.
Vado in sala mensa a mangiare il panino. Oggi emmenthal e pollo.
Bevo l’acqua e il caffè.
Esco in cortile a fumare il mezzo Garibaldi.
Guardo le stelle, cerco di pensare a nulla. Quando suona la sirena rientro con i colleghi.
Salgo sulla torre dell’altoforno, arrivo alla centralina di comando, disattivo i dispositivi di emergenza, salgo
sulla pedana e mi dirigo verso la bocca della fornace. Tutto è deciso, tutto è concluso. Non ho paura di quello che sto facendo.
Non c’è altra possibilità.
Sarà un dolore insopportabile per qualche frazione di secondo poi riposerò.
Faccio un passo dopo l’altro finché la pedana finisce e sento il mio corpo cadere.
Poi più nulla.
Fu un collega a dare l’allarme dopo averlo visto fare un passo nel vuoto e precipitare nel fuoco, disarticolato e assente come un manichino.
Macchinari e linee di produzione furono fermati.
Arrivarono i vigili del fuoco, i carabinieri, il direttore dello stabilimento, l’Ispettorato del lavoro, il medico lega- le, il magistrato di turno, giornalisti e fotografi.
Arrivò anche un’ambulanza, per quello che poteva servire.
I volontari della pubblica assistenza restarono a fuma- re e a scambiarsi foto su WhatsApp sul piazzale dove lui si vedeva con Letizia finché fu detto loro che potevano andare.
Arrivò l’intero mondo e fu una cosa strana per uno che in vita era sconosciuto al mondo intero.
Per capirci qualcosa il magistrato fece aprire il suo armadietto.
I vigili del fuoco spaccarono il lucchetto. In vista c’erano due buste formato A4.
Sulla prima c’era scritto: “Per chi aprirà l’armadietto”. Dentro c’erano le chiavi dell’auto, i mazzi di chiavi di due abitazioni e un testamento.
L’uomo donava ciò che possedeva (l’auto, due apparta- menti e una discreta somma di soldi sul conto corrente, di cui aveva lasciato l’Iban e altri dati) alla Piccola Casa dell’Accoglienza della Vergine Santissima.
Sulla seconda busta c’era scritto: “Per Nicola”. Il direttore di stabilimento lo fece chiamare. “La apra”, gli disse il magistrato.
Dentro c’era una busta con scritto: “Per Letizia”. Nicola spiegò per sommi capi la faccenda al magistrato che aprì la busta, lesse i due fogli scritti su entrambi i lati con calligrafia fitti che erano all’interno e li restituì a Nicola.
“Li dia a sua sorella.”
Il caso fu chiuso come suicidio.
Il giorno dopo i vigili del fuoco recuperarono nell’altoforno spento quello che restava dell’uomo.
Tre frammenti di ossa calcificati.
Ciao, Letizia.
Quando leggerai queste parole io non ci sarò più. Letteralmente.
Non è stato facile prendere questa decisione ma se mi vorrai dedicare un po’ del tuo tempo cercherò di farti capire il perché.
Conoscerti è stata la cosa più bella e destabilizzante che sia mai capitata nella mia vita.
La più bella perché non immaginavo che qualcuno avrebbe mai potuto diventare più importante di me stesso ai miei occhi. Non è egoismo. Se continui a leggere capirai anche questo.
Destabilizzante perché c’è una cosa che non ho avuto il coraggio di dirti in nessuno dei momenti stupendi che ho trascorso con te.
Soffro di sindrome ipertimesica. Possiedo quella che chiamano una memoria autobiografica abnorme, incredibile, patologica. Non se ne conoscono le cause e non c’è cura.
Ricordo ogni singolo momento della mia vita dal momento in cui mi sono svegliato il 3 giugno 1985, il giorno successivo al mio quindicesimo compleanno.
Da quel momento sono in grado di ricordare tutto quello che ho fatto nei giorni successivi.
Quello che ho mangiato, le persone incontrate, gli eventi che mi sono capitati, le conversazioni, gli abiti che indossavo, i film che ho visto in televisione, tutto.
Può sembrare un dono soprannaturale, una specie di super potere, ma non lo è.
Innanzitutto perché è a senso unico.
Ricordo unicamente quello che è capitato a me. Informazioni autobiografiche, per usare un termine tecnico.
Per il resto possiedo una memoria nella media.
Se leggo un libro che non mi piace dopo pochi giorni ho dimenticato la trama.
A scuola avevo 5 in storia. Non c’era modo di memorizzare le date delle battaglie, i nomi di re e presidenti, le battaglie di Napoleone.
Tutto ciò che immagazzino è la mia storia.
Ogni giorno si aggiunge al precedente in modo indelebile. Non c’è modo di selezionare o cancellare.
Per farti capire, è come se qualcuno chiedesse a te, che sei tecnico informatico, di sistemare il suo computer perché l’hard disk è completamente pieno.
Non me ne intendo molto ma immagino che gli cancelleresti files e programmi che non servono più, ottimizzeresti in qualche modo tutto il rimanente, qualcosa salveresti su qualche altro supporto e, mal che vada, installeresti una qualche memoria aggiuntiva.
Io non posso fare alcunché di tutto questo ed è una sofferenza difficile da spiegare a chi non la vive perché tutti questi ricordi, queste immagini, queste informazioni sono presenti tutte, contemporaneamente, nella mia testa in ogni momento della giornata.
Se camminando per strada inciampo in una beola dissestata mi si ripresentano contemporaneamente le immagini di tutte le volte in cui sono inciampato in una strada dal 3 giugno 1985 a oggi.
Se in questo momento una radio (che io non possiedo e immagino che stai comprendendo il motivo) trasmettesse una canzone che ho già sentito anche una solo volta io saprei dirti quando e dove l’ho già sentita. Ti potrei dire come ero vestito, che taglio di capelli avevo, con chi ero, cosa avevo mangiato la sera prima e cosa avrei mangiato quella sera stessa.
Il tutto a una velocità folle, estenuante, sfinente. Migliaia di volte al giorno.
Immagina di essere ostaggio di questo comportamento, di non poterne fare a meno.
Ti starai chiedendo come ho potuto resistere tutti questi anni.
Te lo spiego.
A un’ora di macchina da qui, in un paese in collina, c’è un istituto che si chiama Piccola Casa dell’Accoglienza del- la Vergine Santissima. È una struttura gestita dalle suore. In fondo a questa lettera troverai le informazioni per arrivarci.
Mia sorella Anna è ricoverata lì.
Ci vive dal 7 settembre 1995, ti risparmio l’orario del ricovero e che tempo facesse.
Anna ha quattro anni più di me.
Alcuni mesi dopo quel 3 giugno 1985, quando mi resi conto di cosa mi stava succedendo, fu l’unica persona con cui riuscii a parlarne.
Nonostante la differenza di età eravamo affiatati e ci volevamo bene.
Qualcosa mi diceva che mi avrebbe capito.
Non mi sbagliavo. Anche lei soffriva della mia stessa sindrome.
Si calcola che nel mondo ne esistano tra i venti e i trenta casi.
Che nella stessa famiglia ci siano due casi è quasi incredibile.
Non ci risulta che nessuno dei nostri antenati ne soffrisse. Non ne abbiamo mai fatto parola ai nostri genitori. Ci vergognavamo, pensavamo avessimo una qualche colpa in tutto questo o forse speravamo che fosse una situazione
transitoria.
Eravamo entrambi ragazzini in un periodo in cui non esistevano Internet e tutte le possibilità di accesso alle informazioni che ci sono oggi.
Tutto ciò che avevamo era un’enciclopedia medica di 24 volumi che leggemmo tutta senza trovare accenni alla no- stra malattia.
Cominciammo allora a sviluppare delle strategie per fronteggiare questa massa di ricordi che cresceva in maniera esponenziale un giorno dopo l’altro.
Per esempio aumentando le ore di sonno.
Ci accorgemmo entrambi che dei sogni fatti non restava traccia.
Le ore di sonno erano una sorta di tregua nelle nostre giornate così cominciammo ad aumentarle il più possibile. Andavamo a dormire subito dopo cena e ci svegliavamo più tardi possibile al mattino, riducendo al minimo il tempo per prepararci per la scuola.
Al sabato, alla domenica e nei giorni festivi dormivamo dopo pranzo con la scusa di essere stanchi.
Smettemmo di uscire la sera con gli amici.
Ai nostri genitori questi e altri comportamenti apparivano strani ma provarono a giustificarli con i nostri caratteri introversi. Non lo erano ma rinunciare a ogni contatto esterno diminuiva la mole di eventi che vivevamo e quindi di ricordi.
Ben presto limitammo al minimo anche le uscite e perfino le conversazioni fra noi e con i nostri genitori.
La loro morte in un incidente stradale, il 7 novembre 1991, fu un evento dolorosissimo ma da un certo punto di vista permise a me e ad Anna di vivere la nostra situazione senza nasconderci almeno fra le mura di casa.
Vendemmo l’abitazione dei nostri genitori e acquistammo due appartamenti in questo condominio in cui vivo ora. L’appartamento da cui ti scrivo e quello del piano di sotto, vuoto da quel 7 settembre 1995.
Vivendo in questo modo, vicini ma autonomi, cominciammo ad affinare insieme le nostre strategie.
Ci accorgemmo di una cosa che fino ad allora ci era sfuggita.
Se non potevamo cancellare o selezionare i ricordi, potevamo però renderli impilabili e ordinati come quei contenitori dell’Ikea di cui ti ho parlato fino allo sfinimento.
Se tutti i giorni alla stessa ora faccio la stessa cosa il ricordo, nella memoria, diventerà come quei contenitori, ognuno uguale all’altro, che una volta vuoto posso infilare dentro al l’altro, riducendo lo spazio occupato.
Se ogni mattina faccio la stessa colazione a base di frutta e bevo mezzo litro di tisana il ricordo di tutte le colazioni della mia vita diventerà un solo ricordo.
Se tutte le sere del sabato mangio la stessa identica pizza e lo faccio sempre nel locale di Vittorio il ricordo di ognuna di quelle sere si andrà a sovrapporre a quello del sabato prima.
Il problema così non si risolve però questo sistema aiuta a conviverci.
Gradualmente io e Anna abbiamo cominciato ad adotta re, ognuno per proprio conto, orari e ritmi sempre uguali ri tagliandoci come momento per incontrarci la colazione al mattino, sempre al medesimo orario, sempre da lei e con il medesimo menù.
Frutta e tisana io, caffè e brioche lei.
Ci cercammo entrambi lavori il più ripetitivi possibili e con minori possibilità di contato con l’esterno.
Lei trovò un posto in una lavanderia industriale, io fui assunto in vetreria.
Il 9 ottobre 1994 successe un fatto imprevisto.
Un collega di Anna la invitò a bere un aperitivo, quella sera stessa, finito il turno.
Anna accettò. Era una ragazza bellissima, anche se considerata un tipo selvatico da chi non la conosceva.
Quindi da tutti, eccetto me.
Accettò perché aveva un bisogno di amore impensabile per chiunque non abbia fatto la vita che faceva lei fino a quel giorno. E per chiunque non abbia fatto la vita che ho fatto io fino al giorno in cui ti ho conosciuto.
Anna accettò l’invito e la sera stessa invece di rientrare a casa al solito orario uscì con il collega.
Se ne innamorò, ricambiata.
Nei nove mesi successivi la sua vita andò in pezzi.
La relazione con quell’uomo, inconsapevole della sindrome, fece saltare orari, ritmi, tutto.
In nove mesi accumulò più ricordi di tutta la sua vita precedente.
Quell’uomo l’amava realmente ma non comprese l’entità della questione.
Forse immaginò che Anna, dietro quel suo modo distaccato e ripetitivo di fare le cose, soffrisse di una qualche forma leggera di autismo. Un po’ come accade con chi mi conosce.
Pensò che offrirle il massimo, riempirla di regali ed emozioni, portarla in giro, fosse il modo migliore per convincer- la a creare una relazione con lui.
Fu devastante.
Qualcosa si ruppe dentro Anna.
In poche settimane i ricordi di quei mesi e i ricordi di tutta la vita precedente esplosero dentro la sua mente, travolgendola. Smise gradualmente di parlare, muoversi, lavarsi, uscire di casa.
In due mesi era ridotta in uno stato catatonico. Una specie di coma.
È quello che capiterà anche a me, Letizia. Mi sta già capitando.
Il tuo amore è coinvolgente, totale, senza limiti. Ma è troppo per il mio equilibrio mentale. Non ho paura di finire come Anna.
Il problema non è quello.
Il problema è che se finissi come lei non potrei più man- tenere lei in quella situazione e tu non potresti più mante- nere me in quella stessa situazione.
Non posso obbligarti a questo peso.
Ho lasciato tutto quello che avevo in eredità alla struttura in cui è ricoverata, con l’obbligo di mettere a rendita i no-
stri due appartamenti per pagare la sua retta e vendere o donare tutto il resto. Quello, la sua pensione di invalidità e l’accompagnamento basteranno finché vive.
Ho sistemato le cose che dovevo sistemare e mi sono organizzato per uscire di scena nel modo più veloce e indolore per tutti.
Parenti non ne abbiamo. Amici manco a parlarne.
Il collega con cui Anna aveva avuto la relazione si è tra- sferito all’estero il 25 gennaio 1997.
Non andò mai a trovarla, non so nulla di lui.
Se hai tempo e voglia vai tu da Anna qualche volta. Non ti parlerà ma capirà.
Le ho sempre voluto bene anche se non sono mai riuscito a dirglielo.
Limiti miei.
E questo è tutto.
Mi resta solo un’ultima cosa da dirti. Grazie. Grazie di tutto.
Ti amo e in effetti nemmeno questo sono mai riuscito a dirtelo.
Sono limiti miei, sono certo che saprai perdonarmi. Addio.
Negli anni che seguirono la lettura di quei due fogli scritti con calligrafia fitta su entrambi i lati Letizia andò a trovare Anna tutte le mattine di ogni prima domenica del mese.
Quella donna con lo sguardo appannato accudita dalle suore e un loculo al cimitero contenente tre frammenti di ossa erano tutto ciò che le restava dell’uomo che aveva amato più di ogni altra cosa nella sua vita pur non capen- do il perché di quel sentimento che aveva travolto entrambi senza un’apparente ragione.
Partiva presto, da sola, guidava per un’ora abbondante e arrivava alla Piccola Casa dell’Accoglienza della Vergine Santissima in tempo per l’apertura dell’orario di visita.
Saliva in ascensore fino al terzo piano, superava la porta a vetri, attraversava quel corridoio che odorava sempre di prodotti per l’igiene e di brodo riscaldato, arrivava al- l’ultima stanza in fondo a destra ed entrava.
Ogni volta trovava Anna seduta sulla poltrona in finta pelle nel centro della stanza che osservava un punto fisso della parete.
Sempre quello.
Si posizionava con la carrozzina di fronte a lei, le sorrideva come si sorride a quanto di più caro possa rimanerci al mondo e diceva una sola cosa.
“Ciao, Anna.”
Fabrizio Tummolillo (1970) è nato a Milano e vive sulle colline piacentine. Laureato in Scienze dell’Educazione all’Università di Bologna, è giornalista professionista dal 2004 e attualmente redattore del quotidiano “Il Cittadino del Lodigiano e del Sudmilano”. Insieme all’attore e regista teatrale Giulio Cavalli ha scritto Linate 8 ottobre 2001 – La strage, spettacolo-inchiesta sull’incidente all’aeroporto milanese costato la vita a 118 persone, che ha esordito nel 2006 al Piccolo Teatro di Milano. Ha partecipato, con alterne vicende e talvolta lacrimevoli risultati, a vari concorsi di narrativa.